Si fa presto a chiedere più debito comune europeo

In vista delle elezioni di giugno, vari partiti hanno rilanciato la proposta di ampliare il bilancio dell’Ue con gli eurobond. Ma è più facile a dirsi che a farsi
EPA/TOMS KALNINS
EPA/TOMS KALNINS
In questa campagna elettorale per le elezioni europee diversi partiti stanno rilanciando l’emissione di debito comune europeo come soluzione per finanziare le politiche per la transizione ecologica e digitale, il contrasto al declino demografico e l’aumento degli investimenti in difesa.

Nonostante la recente creazione del Next Generation EU, che finanzia i piani nazionali di ripresa e resilienza degli Stati membri, ci sono varie ragioni per pensare che ricorrere nuovamente al debito comune europeo sia più facile a dirsi che a farsi.

Che cosa propongono i partiti

Come prima cosa, vediamo che cosa stanno promettendo in queste settimane alcuni partiti in vista del voto dell’8 e 9 giugno. 

Nel suo programma, la lista “Azione-Siamo Europei”, guidata da Carlo Calenda, propone di «finanziare, attraverso l’emissione di eurobond, progetti di difesa comune». Da anni il termine “eurobondè usato nel linguaggio politico e giornalistico per indicare l’emissione di debito garantito dagli Stati europei. 

Secondo Più Europa, che insieme a Italia Viva fa parte della lista “Stati Uniti d’Europa”, lo strumento del debito comune a livello europeo sarà essenziale per affrontare le sfide dei prossimi anni. «L’Europa deve diventare un soggetto in grado di fare grandi investimenti attraverso il debito comune», ha dichiarato lo scorso settembre il segretario di Più Europa Riccardo Magi. 

Il programma per le europee di Forza Italia propone la «messa in comune del debito», come «strategia per affrontare le crisi finanziarie in modo più efficace, distribuendo il carico del debito in modo equo tra i Paesi membri». Secondo l’economista Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps e candidato alle europee con il Movimento 5 Stelle, «si dovrebbe recuperare la solidarietà europea attraverso la creazione di un debito comune europeo». Anche la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein ha difeso più volte la necessità di rinnovare gli strumenti messi in campo per far fronte alla pandemia di Covid-19 con l’emissione di debito comune europeo.

La novità del Next Generation Eu

In base all’articolo 311 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il bilancio dell’Ue «è finanziato integralmente tramite risorse proprie». In concreto, questo significa che l’Ue non può indebitarsi e che tocca agli Stati membri, eventualmente, ricorrere allo strumento del debito per far fronte alle necessità di varia natura.

Dal 2020 in poi, con l’inizio della pandemia, l’Ue ha sfruttato un meccanismo – già sperimentato in passato – per emettere debito europeo, a fronte di garanzie offerte dagli Stati membri per un importo superiore alla spesa prevista. È stato così creato il Next Generation EU, un programma che può contare in totale su 800 miliardi di euro.

Per far fronte ai costi dell’indebitamento, l’emissione dei titoli europei è stata accompagnata dalla proposta di assegnazione di ulteriori risorse al bilancio europeo. A dicembre 2021 la Commissione europea ha proposto di raccogliere queste risorse da tre nuove fonti di entrata.

La prima fonte è l’EU Emissions Trading System (ETS), chiamato in italiano “Sistema per lo scambio delle quote di emissione dell’Ue”. Questo sistema prevede un tetto massimo di emissioni di gas serra consentite alle aziende, che si riduce nel tempo per incentivare la diminuzione delle emissioni. Semplificando, un’azienda soggetta a questo sistema può emettere una quota annuale di gas serra: se emette meno di quanto le è stato assegnato, può vendere le quote in eccesso; al contrario, se supera la quota assegnatale, può acquistare quote aggiuntive di emissioni.

La seconda fonte di finanziamento è il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), chiamato in italiano “Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere”. Questo meccanismo impone una tassa sui beni importati dai Paesi che non appartengono all’Ue e hanno regolamentazioni climatiche meno rigorose di quelle europee. L’obiettivo è contrastare il cosiddetto carbon leakage, con cui le aziende dell’Ue trasferiscono la produzione ad alta intensità di carbonio all’estero o importano beni ad alta intensità di carbonio per evitare costi più elevati. Nelle intenzioni dei suoi sostenitori, il CBAM dovrebbe assicurare che i beni importati siano soggetti a un prezzo equo per le emissioni di carbonio, contribuendo agli obiettivi climatici dell’Ue.

Infine, la terza fonte è il cosiddetto Pillar One (in italiano “Primo pilastro”), che si rivolge ai più grandi gruppi multinazionali (inizialmente su quelli con almeno 20 miliardi di euro di ricavi consolidati e utili netti superiori al 10 per cento). L’obiettivo è imporre a queste multinazionali di pagare le tasse nei luoghi in cui si trovano i loro clienti.

A giugno 2023 la Commissione europea ha aggiornato la sua proposta, aggiungendo un nuovo canale temporaneo di entrata. Secondo la Commissione, questa fonte non è da considerarsi una tassa vera e propria, ma un contributo versato dagli Stati Membri sulla base dei profitti lordi generati dalle società. È importante sottolineare che questa nuova fonte di finanziamento è transitoria e nelle intenzioni della Commissione Ue sarà sostituita dal BEFIT, acronimo per Business in Europe: Framework for Income Taxation. L’obiettivo del BEFIT è armonizzare le normative fiscali tra gli Stati membri, oltre che semplificare gli adempimenti fiscali per le grandi imprese transfrontaliere dell’UE, sostituendo i sistemi nazionali di tassazione attuali per le imprese con un unico sistema stabilendo una base comune di tassazione, riducendo i costi di conformità e gli ostacoli agli investimenti transfrontalieri.

Un percorso non semplice

Nonostante i progressi compiuti dal 2021 in poi, il pacchetto di risorse aggiuntive non è ancora stato integrato, pertanto l’Unione europea non dispone ancora di piena autonomia nel reperire le risorse necessarie per alimentare il proprio bilancio. A febbraio 2024, nel Consiglio europeo straordinario si è cercato di avviare una discussione sul tema, ma con risultati modesti. Benché sia stato trovato un accordo tra i Paesi Ue sulla revisione a medio termine del bilancio pluriennale, si è fatto solo un breve riferimento alle nuove risorse proprie, senza fornire aggiornamenti significativi. Ricordiamo che in assenza di un accordo sulle risorse proprie aggiuntive, l’onere del finanziamento dei piani nazionali di ripresa e resilienza ricadrebbe direttamente sui singoli Stati Ue.

Al momento è difficile prevedere se le cose cambieranno con il nuovo Parlamento europeo. Secondo i sondaggi più recenti, il gruppo parlamentare dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) potrebbe aumentare il numero dei suoi parlamentari. Questo partito europeo, guidato dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, ha scritto nel suo programma (punto nove) che non vuole dotare l’Ue di nuove risorse proprie.

I limiti

Tutto questo potrebbe essere una delle ragioni per cui al momento il debito europeo è più costoso rispetto ad altri debiti nazionali. Nonostante il rating del debito europeo sia elevato, e dunque considerato molto affidabile, tra i grandi Paesi europei solo l’Italia ha costi più alti per finanziarsi sui mercati con l’emissione di titoli a scadenza inferiore a cinque anni. Questo significa che per gli altri Paesi l’indebitamento attraverso l’emissione di titoli di debito comune europeo potrebbe non essere conveniente. Al 7 maggio, il tasso dei titoli italiani a cinque anni era pari al 3,29 per cento, contro il 2,86 per cento dei titoli europei e il 2,47 per cento della Germania. La situazione rimane simile anche considerando i titoli con scadenza a dieci anni: anche in questo caso l’Italia è un’eccezione, con un debito più oneroso rispetto a quello degli agli altri Paesi dell’area euro. Se si fa un confronto tenendo in considerazione anche il rating, i costi di indebitamento dell’Ue sono più alti di quelli della Germania, nonostante un valutazione simile, o della Francia, nonostante i titoli europei abbiano un rating più elevato. 

C’è poi la questione delle condizionalità previste dall’eventuale emissione di debito europeo: uno Stato potrebbe essere riluttante a impegnarsi a rispettare queste condizionalità, se l’indebitamento autonomo offre un tasso di interesse di poco superiore. Va anche considerato che non tutti gli Stati europei hanno richiesto l’intero ammontare delle risorse messe a disposizione dal Recovery and Resilience Facility (RRF), il fondo del Next Generation EU che finanzia il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dell’Italia. Questo potrebbe suggerire uno scarso interesse di alcuni Paesi verso tale strumento e, in prospettiva, verso l’ampliamento dello strumento del nuovo debito comune europeo.

Lo scorso anno uno studio del Parlamento europeo ha sottolineato che, nonostante le misure messe in campo dalla Commissione Ue e dalla Banca Centrale Europea (BCE), il mercato dei bond europei sarebbe meno liquido rispetto a quello delle controparti nazionali, e questo determinerebbe un costo aggiuntivo. In altre parole, il mercato dei bond europei è caratterizzato da una minore attività di scambio e transazione rispetto ai mercati che riguardano i titoli nazionali. Questo può comportare un costo aggiuntivo per gli investitori, in quanto potrebbe essere più difficile trovare acquirenti o venditori disposti a partecipare alle transazioni, soprattutto durante periodi di incertezza come quello attuale.

A maggio 2023 il centro studi europeo Bruegel ha sottolineato che il costo più elevato del debito europeo sarebbe dato dal fatto che gli investitori non lo considerano come i debiti nazionali. Secondo Bruegel, l’Ue sarebbe considerata una sorta di «ibrido», fra uno Stato e un’entità intergovernativa, dato che non dispone di risorse proprie. Di conseguenza, i titoli europei non sono considerati ancora come «attività sicure».

Un altro fattore che potrebbe ostacolare l’ulteriore creazione di debito comune europeo è da ricercare nella posizione mantenuta dai Paesi del Centro e Nord Europa. Quest’ultimi hanno sempre avuto un atteggiamento conservativo verso gli eurobond e verso l’allargamento del bilancio europeo. Per esempio, durante la creazione del Next Generation EU, i Paesi Bassi, insieme ad Austria e Danimarca, erano dubbiosi sulla possibilità di emettere un debito pubblico comune a livello europeo e di raccogliere risorse da distribuire agli Stati Ue, sia in prestito sia a fondo perduto. In Germania la Corte costituzionale ha approvato la ratifica del Next Generation EU solo come meccanismo temporaneo esclusivamente per affrontare le conseguenze della pandemia. 

In più i ritardi di alcuni Paesi, tra cui l’Italia, nell’uso delle risorse messe a disposizione dell’Ue potrebbero rafforzare le posizioni di quei Paesi già scettici nei confronti del debito comune europeo.

Come ha sottolineato Bruegel, questi fattori di natura politica hanno anche un riflesso economico: la percezione del debito europeo come uno strumento eccezionale e temporaneo da parte degli operatori finanziari, e la mancanza di chiarezza sul suo futuro da parte di partiti politici e governi, rischia di minare la capacità di attrarre nuovi investitori. Dopo il 2026, anno entro cui dovranno essere attuati i piani nazionali di ripresa, la mancanza di nuove emissioni di bond ridurrà la quantità di titoli nel mercato, riducendo l’appetibilità degli eurobond per le ragioni viste a proposito della liquidità del mercato dei titoli europei. 

In conclusione, se l’Ue evolvesse verso una struttura più completa, con un bilancio proprio e forme di finanziamento autonomo, potrebbe essere considerata come uno Stato sovrano e ottenere finanziamenti simili ai migliori emittenti nazionali. Molti Paesi europei, però, non sembrano ancora disposti a fare questo passo, il che rende il debito europeo meno attraente rispetto a quello dei singoli Paesi membri, nonostante il suo elevato merito di credito.

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