Le commissioni parlamentari sono in balia dei cambi di casacca

Il problema riguarda soprattutto la Commissione di Vigilanza Rai, chiamata a confermare il presidente della televisione pubblica, ma ci sono altri casi simili
L’ingresso della Commissione di vigilanza Rai a Palazzo San Macuto  a Roma – Fonte: Ansa
L’ingresso della Commissione di vigilanza Rai a Palazzo San Macuto a Roma – Fonte: Ansa
L’11 ottobre, alle ore 12, la Commissione parlamentare di Vigilanza Rai è convocata per confermare Simona Agnes come nuova presidente del Consiglio di Amministrazione della televisione pubblica. Figlia dell’ex direttore generale della Rai Biagio Agnes e con un passato in Telecom Italia, Agnes è stata indicata dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti il 26 settembre, e ora la sua nomina deve essere convalidata con il voto di almeno due terzi dei componenti della commissione che si occupa di vigilare sul servizio pubblico radiotelevisivo. La Commissione di Vigilanza è composta da 42 parlamentari (21 deputati e 21 senatori). La maggioranza dei due terzi necessaria a confermare Agnes corrisponde a 28 voti: al momento i partiti di centrodestra possono contare sui voti di 25 commissari, e quindi hanno bisogno di almeno altri tre voti per poter eleggere Agnes. Il 9 ottobre, in assenza di questi voti, la maggioranza ha disertato i lavori della commissione per programmare la votazione, costringendo la presidente della commissione Barbara Floridia (Movimento 5 Stelle) a convocarla comunque per domani.  

Non è chiaro da chi potrebbero arrivare i voti mancanti per Agnes, ma tra questi potrebbe esserci quello della senatrice Mariastella Gelmini. Gelmini, che lo scorso 17 settembre ha abbandonato Azione, fa parte al momento del gruppo Misto al Senato e di recente si è avvicinata, insieme alla deputata Mara Carfagna e alla collega Giusy Versace, a Noi Moderati, il partito centrista di Maurizio Lupi che sostiene il governo Meloni. A quanto risulta a Pagella Politica, il loro passaggio ufficiale al gruppo parlamentare di Noi Moderati avverrà a breve.

Un eventuale voto favorevole di Gelmini in Commissione di Vigilanza Rai potrebbe dunque avere un peso nella conferma a presidente del CDA di Agnes, la cui nomina è stata spinta in particolare da Forza Italia. Nonostante l’uscita di Azione e il suo avvicinamento alla maggioranza, Gelmini non è tenuta a dimettersi dal suo incarico in Commissione di Vigilanza. Come vedremo tra poco, infatti, non esiste l’obbligo per i parlamentari che cambiano partito (un fenomeno chiamato “trasformismo parlamentare”) di lasciare il loro incarico in questa commissione, salvo pochi casi. L’assenza di questo obbligo ha delle ragioni specifiche, ma in passato ha generato squilibri tra le forze politiche all’interno della commissione e delle situazioni particolari. Anche altri organi parlamentari non prevedono regole contro i cambi di casacca, sebbene al Senato siano stati fatti dei passi avanti.

Il regolamento della Commissione di Vigilanza

La Commissione di Vigilanza Rai, il cui nome completo è “Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi”, è stata creata nel 1975. Oltre a confermare il presidente del CDA della Rai, la Commissione di Vigilanza svolge una serie di funzioni di controllo sul servizio pubblico radiotelevisivo. Per esempio, ogni sei mesi il consiglio di amministrazione deve comunicare alla Commissione di Vigilanza tutte le attività svolte dalla Rai, consegnando l’elenco completo degli ospiti delle trasmissioni sulle varie reti televisive.

Per quanto riguarda la sua composizione, la Commissione di Vigilanza è bicamerale e per prassi la presidenza spetta a un parlamentare dei partiti di opposizione, come forma di garanzia. Per esempio, l’attuale presidente della Commissione di vigilanza Rai è la senatrice del Movimento 5 Stelle Floridia, eletta ad aprile del 2023 dopo lunghe trattative tra i partiti. Come spiegato a Pagella Politica da fonti parlamentari, la Commissione di Vigilanza funziona sulla base del suo regolamento interno e, per tutte le materie non regolate da questo regolamento, dal regolamento della camera di appartenenza del presidente di turno. In questo caso, visto che Floridia è senatrice, il regolamento del Senato. 

In base al regolamento interno, i membri della Commissione di Vigilanza sono nominati dai presidenti di Camera e Senato su proposta dei gruppi parlamentari «in maniera da assicurarne la rappresentanza proporzionale». Allo stesso tempo il regolamento della commissione non prevede però un meccanismo per limitare i cambi di partito (i cosiddetti “cambi di casacca”) all’interno della stessa. Un parlamentare membro della commissione può essere sostituito solo in tre casi: dimissioni spontanee, assunzione di un incarico di governo oppure cessazione del mandato parlamentare. Il regolamento del Senato, che è stato riformato alla fine della scorsa legislatura, prevede le dimissioni in caso di cambio di partito solo per i commissari che hanno ruoli nell’Ufficio di presidenza, e questo non è il caso di Gelmini. In altre parole, non ci sono gli estremi per obbligare l’ex senatrice di Azione alle dimissioni. Nonostante il suo cambio di partito, l’ex ministra può mantenere il suo incarico fino alla fine della legislatura: i membri della Commissione di Vigilanza sono rinnovati infatti solo al termine della legislatura e non già dopo i primi due anni come previsto per le altre commissioni di Camera e Senato.
Immagine 1. Mariastella Gelmini (al centro) alla prima riunione della Commissione di vigilanza Rai, 4 aprile 2023 – Fonte: Ansa
Immagine 1. Mariastella Gelmini (al centro) alla prima riunione della Commissione di vigilanza Rai, 4 aprile 2023 – Fonte: Ansa
Il caso di Gelmini non è comunque isolato. A novembre 2023, con la scissione dei gruppi di Azione e Italia Viva, la vicepresidente della Commissione Maria Elena Boschi è passata al nuovo gruppo di Italia Viva; un mese prima, la senatrice di Sud Chiama Nord Dafne Musolino ha abbandonato il gruppo delle Autonomie, per aderire sempre a quello di Italia Viva. In seguito a questi cambiamenti, in Commissione di Vigilanza Rai il partito di Matteo Renzi ha ottenuto due suoi rappresentanti, a fronte di 14 parlamentari totali (sette deputati e sette senatori). Per fare un confronto, Alleanza Verdi-Sinistra, che ha lo stesso numero di parlamentari tra Camera e Senato, ne ha invece soltanto uno. 

«L’assenza di un meccanismo che vieti i cambi di casacca in Commissione di vigilanza risponde per certi versi alla necessità di garantire al parlamentare la massima libertà, nel rispetto dell’assenza del vincolo di mandato», ha spiegato a Pagella Politica il deputato del Partito Democratico Federico Fornaro, esperto di regolamenti parlamentari, già componente della Commissione di Vigilanza Rai per due legislature, dal 2013 al 2022. «Ovviamente se i cambi di casacca aumentano e diventano troppo frequenti l’assenza di un meccanismo che li limiti può alterare gli equilibri all’interno della commissione», ha aggiunto Fornaro. «Sarebbe necessario rivedere il regolamento della Commissione di Vigilanza, per garantire che i cambi di casacca non alterino i rapporti e gli equilibri tra i gruppi», ha aggiunto il deputato Dario Carotenuto, attuale capogruppo del Movimento 5 Stelle in Commissione di Vigilanza. 

In passato, a causa dei numerosi cambi di casacca, gli equilibri tra i vari partiti in Commissione di Vigilanza sono stati messi in discussione in diverse occasioni. Per esempio, nella scorsa legislatura, dopo la sua nascita avvenuta a settembre 2019, il gruppo di Italia Viva ha ottenuto due parlamentari in Commissione di Vigilanza, ossia Michele Anzaldi e Davide Faraone entrambi usciti dal Partito Democratico. Per la parte restante della legislatura, Italia Viva ha avuto quindi due commissari in Commissione di Vigilanza a fronte di 47 parlamentari totali, mentre il PD ne ha avuti cinque a fronte di 135 parlamentari.

Il presidente che faceva finta di niente

Ancora indietro nel tempo, più eclatante è stato il caso dell’ex presidente della Commissione di Vigilanza Riccardo Villari. Il 13 novembre 2009, dopo mesi di stallo, l’allora senatore del PD Villari fu eletto presidente della commissione grazie ai voti non del suo partito ma dell’allora maggioranza di centrodestra che sosteneva il quarto governo Berlusconi. All’epoca i partiti di centrodestra votarono Villari andando contro la candidatura di Leoluca Orlando, allora deputato dell’Italia dei Valori e sostenuto ufficialmente dallo stesso Partito Democratico. A quel punto il PD chiese a Villari di dimettersi dalla presidenza, ma lui non lo fece. Il partito, all’epoca guidato da Walter Veltroni, espulse il senatore, che passò nel gruppo Misto. Dopo l’espulsione dal PD, Villari avrebbe dovuto dimettersi dal ruolo di presidente della Commissione di Vigilanza per questioni di opportunità politica, ma nonostante le richieste di lasciare l’incarico, anche da parte dei presidenti di Camera e Senato, decise di proseguire, svolgendo tutte le funzioni che gli spettavano. 

Dopo tre mesi dalla sua elezione, in assenza di una norma che obbligasse Villari alle dimissioni, tutti i partiti sia di maggioranza sia di opposizione si misero d’accordo e i loro rappresentanti si dimisero dalla Commissione di Vigilanza. Allora i presidenti di Camera e Senato Gianfranco Fini e Renato Schifani decretarono che, in assenza della maggior parte dei commissari, la Commissione di Vigilanza non poteva proseguire i lavori, sciogliendola e costringendo così Villari alle dimissioni. L’allora senatore del gruppo Misto entrò poi nel Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo e a maggio del 2011 divenne sottosegretario al Ministero della Cultura del quarto governo Berlusconi.
Immagine 2. Il titolo de L’Unità sulla decisione di Villari di non dimettersi dalla presidenza della Commissione di Vigilanza dopo l’espulsione dal PD – Fonte: Archivio storico L’Unità
Immagine 2. Il titolo de L’Unità sulla decisione di Villari di non dimettersi dalla presidenza della Commissione di Vigilanza dopo l’espulsione dal PD – Fonte: Archivio storico L’Unità

Gli squilibri nel Copasir

Il problema legato all’assenza di limiti non riguarda solo la Commissione di Vigilanza Rai. «La questione riguarda tutte le giunte bicamerali del Parlamento, che non prevedono un meccanismo di rinnovo dopo i primi due anni dall’inizio della legislatura, ma pure le altre commissioni permanenti dove a volte ci sono degli squilibri evidenti», ha detto a Pagella Politica un parlamentare di Forza Italia, che ha preferito restare anonimo.

Tra le commissioni bicamerali, un esempio è il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir). Istituito nel 2007, il Copasir svolge una funzione di controllo sull’attività dei servizi segreti e su tutte le questioni che riguardano la sicurezza dello Stato. Il comitato è composto da cinque deputati e cinque senatori nominati dai presidenti dei due rami del Parlamento entro venti giorni dalla votazione della fiducia al governo di turno. Il presidente deve essere per forza eletto tra i membri dei partiti di opposizione, e attualmente è il deputato del Partito Democratico Lorenzo Guerini

Come per la Vigilanza Rai, al Copasir i parlamentari sono scelti in proporzione al numero dei componenti dei gruppi parlamentari. Al pari della Vigilanza Rai, il Copasir funziona sulla base di un suo regolamento interno e, per tutte le materie che non regolate da questo regolamento, dal regolamento della camera di appartenenza del presidente di turno. In questo caso, visto che Guerini è deputato, il regolamento della Camera: né il regolamento interno del Copasir, né quello della Camera, prevedono però norme contro i cambi di casacca dei suoi componenti. 

Dunque, nemmeno al Copasir esiste un meccanismo che limiti il fenomeno del trasformismo parlamentare, e questo ha avuto delle ricadute in questa legislatura. Per esempio, a maggio dello scorso anno il PD aveva chiesto le dimissioni del senatore Enrico Borghi da membro del Copasir. Poche settimane prima Borghi aveva lasciato il PD, in polemica con la linea della segretaria Elly Schlein, aderendo a Italia Viva. Dopo l’uscita di Borghi, l’unico esponente del PD nel Copasir è rimasto il solo presidente Guerini, nonostante il PD sia il secondo gruppo parlamentare più numeroso tra Camera e Senato dietro a Fratelli d’Italia. «È di tutta evidenza come quanto accaduto costituisca un grave vulnus della garanzia della rappresentanza in seno al Comitato che deve essere composto “in proporzione al numero dei componenti dei Gruppi parlamentari”, ai sensi di quanto stabilito dalla legge istitutiva», aveva scritto il capogruppo del PD al Senato in una lettera al presidente del Senato Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia), chiedendogli di trovare il modo di ridare al PD il suo secondo rappresentante. La Russa a quel punto scrisse a sua volta a Borghi, che però ha scelto di non dimettersi, dato che non esiste per l’appunto alcun obbligo di dimissioni. «Sto alle prerogative che la legge dispone: mi sorprende che a fronte della manifestazione di un disagio si sia posto un tema legato agli assetti interni», aveva risposto all’epoca il senatore di Italia Viva.

Complice il numero limitato dei componenti del Copasir, alcuni gruppi parlamentari non sono nemmeno rappresentanti nel comitato. È questo il caso di Alleanza Verdi-Sinistra, formato da Europa Verde e Sinistra Italiana, e di Noi Moderati. Alleanza Verdi-Sinistra ha sempre criticato l’assenza di un suo rappresentante nel Copasir e a gennaio 2023 i suoi deputati hanno presentato una proposta di legge alla Camera per aumentare da 10 a 12 i membri del comitato, consentendo ai gruppi parlamentari più ristretti di avere un loro rappresentante. Lo scorso 2 ottobre il testo è stata però bocciata dai partiti della maggioranza in Commissione Affari Costituzionali.

Nelle altre commissioni

Squilibri ci sono anche nelle altre commissioni permanenti del Parlamento. «Quando Mara Carfagna entrerà nel gruppo parlamentare di Noi Moderati, loro si troveranno ad avere in Commissione Affari costituzionali qui alla Camera ben due rappresentanti, quando noi in questa commissione ne abbiamo solo tre, ma abbiamo un numero di parlamentari cinque volte superiore al loro», ha raccontato il deputato di Forza Italia. 

La questione non è secondaria sul fronte degli equilibri politici: sia alla Camera sia al Senato, la Commissione Affari costituzionali è tra le più influenti perché esamina i progetti di riforma costituzionale, le riforme riguardanti la legge elettorale e tutte le proposte di legge che riguardano l’organizzazione dello Stato. Di conseguenza, è importante per i partiti avere più rappresentanti in questa commissione. 

A oggi il gruppo parlamentare alla Camera di Noi Moderati è composto da nove deputati, che salirebbero a dieci con l’ingresso di Carafagna. Quest’ultima sarebbe la seconda rappresentante di Noi Moderati in Commissione Affari costituzionali insieme al collega Alessandro Colucci. Forza Italia, il cui gruppo parlamentare alla Camera è composto da 48 deputati, ha invece tre rappresentanti in questa commissione, di cui uno, Nazario Pagano, è il presidente.
Immagine 3. Mara Carfagna tra i banchi del gruppo Misto alla Camera, 8 ottobre 2024 – Fonte: Ansa
Immagine 3. Mara Carfagna tra i banchi del gruppo Misto alla Camera, 8 ottobre 2024 – Fonte: Ansa
Il regolamento della Camera non prevede norme per arginare i cambi di casacca dei deputati. Lo scorso 24 settembre la Giunta per il regolamento ha dato il via libera alla seconda parte della riforma del regolamento della Camera, dopo la prima parte approvata quasi due anni fa, a dicembre 2022. Ora la seconda parte della riforma dovrà essere approvata dall’aula e l’esame inizierà con tutta probabilità nelle prossime settimane. 

La seconda parte della riforma del regolamento della Camera riguarda più che altro i tempi delle discussioni parlamentari e non c’è nessun provvedimento per prevenire i cambi di casacca. Dopo il via libera di questa ulteriore riforma, la Giunta per il regolamento della Camera inizierà a discutere per una terza fase di riforma, ma non è ancora chiaro se sarà affrontata la questione del trasformismo. Al Senato il discorso è diverso: già nella scorsa legislatura Palazzo Madama ha riformato il suo regolamento adeguandolo alla riforma del taglio dei parlamentari, e introducendo almeno nelle commissioni un sistema contro i cambi di casacca. Come anticipato, se un parlamentare che ricopre un incarico nell’ufficio di presidenza cambia gruppo, allora è obbligato a lasciare l’incarico, mantenendo però il suo posto in commissione. 

Ricapitolando: nelle commissioni parlamentari non ci sono regole precise per arginare i cambi di casacca dei politici, se non in casi limitati, e questo porta a squilibri, come nel caso della Commissione di Vigilanza Rai. Qui, oltre a Gelmini, i partiti che sostengono il governo hanno bisogno di almeno altri due voti per raggiungere la soglia minima dei 28 richiesti. In assenza di questi voti, il 9 ottobre la maggioranza ha disertato i lavori della commissione per programmare la votazione, costringendo la presidente Floridia a convocarla comunque per l’11 ottobre. Lì si capirà se, nelle trattative parlamentari, il centrodestra avrà trovato i voti per confermare Agnes.

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