Il 2 luglio, intervistato da Affaritaliani.it, il senatore del Partito democratico Antonio Misiani ha criticato le nuove misure economiche approvate dal governo per correggere i conti pubblici ed evitare la procedura d’infrazione Ue.
Secondo Misiani, «ovviamente nessuno la chiama così, ma di manovra si tratta. […] Vale lo 0,4 per cento del Pil, oltre il doppio di quella che fece il governo Gentiloni ad aprile 2017 (3,5 miliardi)».
Ma è davvero così? I numeri tornano, o no? Abbiamo verificato.
Di che cosa stiamo parlando
Il 3 luglio, la Commissione europea ha annunciato che non si farà la procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia, accusata a inizio giugno dall’Ue di non rispettare le regole di bilancio comunitarie per gli anni 2019 e 2020.
In sostanza, secondo Bruxelles, le politiche del governo Lega e Movimento 5 stelle – soprattutto in ambito pensionistico – hanno negli ultimi mesi peggiorato il rapporto debito/Pil, che dopo alcuni anni di leggero calo è tornato a crescere, superando il 132,2 per cento nel 2018, verso il 133,7 per cento nel 2019 e il 135,2 per cento nel 2020.
Nonostante le ripetute smentite degli ultimi giorni, per evitare la procedura (sarebbe stata la prima nel suo genere nella storia dell’Unione europea) l’esecutivo Conte ha dovuto garantire all’Ue che i conti di quest’anno fossero messi in ordine per rispettare gli impegni presi a fine 2018. In particolare il governo ha dovuto correggere il rapporto tra il deficit – ossia la differenza tra entrate e spese – e il Pil di quest’anno dal 2,4 per cento stimato oggi al 2 per cento circa (il famoso 2,04 per cento) programmato a fine 2018.
Per raggiungere questo obiettivo, il 1° luglio il Consiglio dei ministri ha approvato due misure economiche: la prima è il disegno di legge riguardante l’assestamento di bilancio per il 2019; la seconda è un decreto-legge «recante misure urgenti in materia di miglioramento dei saldi di finanza pubblica».
Vediamo che cosa contengono nel concreto.
Quanti soldi ci sono in ballo?
Il ddl sull’assestamento di bilancio
Come spiega il Ministero dell’Economia e delle Finanze, la riduzione del deficit grazie al disegno di legge per l’assestamento di bilancio per il 2019 ha un valore pari a circa 6,1 miliardi di euro, frutto della differenza tra maggiori entrate ottenute in questi primi mesi dell’anno e minori spese.
Degli oltre 6,2 miliardi di euro di maggiori entrate, circa 2,9 miliardi di euro si sono ottenuti grazie a maggiori entrate tributarie. Tra queste – riporta il Sole 24 ore – alcune sono più strutturali, come la fatturazione elettronica, altre una tantum, come la chiusura del contenzioso tra lo Stato e il gruppo Kering (proprietario del marchio Gucci), che ha portato nelle casse dell’erario circa 1,25 miliardi di euro.
Circa 600 milioni di euro di entrate in più provengono da maggiori entrate contributive, mentre oltre 2 miliardi e 740 milioni di euro ricadono sotto gli utili o i dividendi che lo Stato ha recuperato da Cassa depositi e prestiti, Banca d’Italia e altre partecipate.
A questi 6,2 miliardi di euro complessivi di entrate va sottratto però oltre un miliardo e 540 mila euro di maggiori spese, utilizzate per rifinanziare, tra le altre cose, il “bonus Cultura” (circa 100 milioni di euro) e il servizio di trasporto pubblico locale (circa 300 milioni di euro), che aveva subito dei tagli con le clausole inserite nell’ultima legge di Bilancio.
Queste spese in più – spiega il Mef – sono compensate in parte grazie a minori spese (per esempio, quelle per gli interessi) per un valore di poco più di un miliardo di euro.
In totale, tra entrate e spese aggiuntive e minori spese, si ottengono i circa 6,1 miliardi di euro citati in precedenza.
Il decreto “Salva-conti”
Per quanto riguarda il decreto-legge approvato per migliorare i saldi di finanza pubblica, lo stesso Mef spiega sul suo sito che ha un valore complessivo di 1,5 miliardi di euro.
Il testo in questione – decreto-legge n. 62, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 2 luglio – fa riferimento alle risorse che il governo stima di risparmiare per il finanziamento del reddito di cittadinanza e quota 100.
Come abbiamo spiegato in un nostro precedente fact-checking, visto il minor numero di beneficiari rispetto alle previsioni, ci si aspetta che per quest’anno entrambe queste misure possano costare meno di quanto previsto dalla legge di Bilancio per il 2019.
Questo “risparmio” – che tecnicamente risparmio non è, trattandosi di soldi presi a debito – si aggirerebbe intorno a 1,5 miliardi di euro, appunto.
Come sottolinea il decreto (art. 1), però, queste risorse «costituiscono economie di bilancio o sono versati all’entrata del bilancio dello Stato al fine di essere destinati al miglioramento dei saldi di finanza pubblica». Questo significa che se nei prossimi mesi ci sarà un maggiore ricorso sia al reddito di cittadinanza che a quota 100, questi soldi saranno comunque usati in questo ambito; gli eventuali avanzi saranno invece impiegati per ridurre il deficit.
In sostanza, il governo non potrà spendere questi soldi per altri scopi (come gli aiuti per le famiglie), come invece aveva promesso il ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro Luigi Di Maio a inizio maggio. O saranno spesi per reddito di cittadinanza e quota 100, oppure verranno destinati a ridurre il deficit.
A “garanzia” che lo Stato davvero farà calare l’indebitamento di 1,5 miliardi di euro (da aggiungere ai 6,1 miliardi di euro del ddl assestamento di bilancio), il decreto stabilisce (art. 2) una riduzione delle «dotazioni finanziarie delle spese dei Ministeri» per un valore di 1,5 miliardi di euro.
Questo vuol dire che se le attese di risparmio dovute al minor numero di adesioni a reddito di cittadinanza e quota 100 non saranno rispettate, i “tagli” colpiranno diversi dicasteri, in particolare quello dell’Economia (con una riduzione per il 2019 di quasi 1,4 miliardi di euro).
La somma dei due provvedimenti
La riduzione del deficit che secondo le previsioni si dovrebbe ottenere grazie al disegno di legge di assestamento di bilancio (6,1 miliardi) e al cosiddetto “decreto Salva-conti” (1,5 miliardi) ha quindi un valore di circa 7,6 miliardi di euro.
Rispetto a un Pil complessivo pari a 1.778 miliardi di euro, pesa in effetti per circa lo 0,4 per cento, come affermato da Misiani.
Che cos’era successo con Gentiloni
A inizio 2017, anche l’allora governo in carica di Paolo Gentiloni (Partito democratico) era stato sollecitato dall’Ue per sistemare i conti pubblici italiani.
Così, a inizio aprile dello stesso anno, l’esecutivo aveva approvato (insieme al Documento di economia e finanza e al Programma nazionale delle riforme) un decreto-legge, intitolato “Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo”.
Definito dalla stampa come «manovrina», il testo prevedeva (nei primi 9 articoli) una serie di misure per correggere i conti pubblici italiani.
Tra le novità introdotte, c’erano nuove misure di contrasto all’evasione fiscale, modifiche al sistema dello split payment (ossia il meccanismo con cui l’Iva viene versata direttamente alle casse dello Stato e non al fornitore) e una nuova rottamazione delle liti tributarie.
Come aveva spiegato l’11 aprile 2017 il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni nella conferenza stampa di presentazione di queste misure, il valore complessivo di questa manovra correttiva era di circa 3,4 miliardi di euro (in linea con quanto detto da Misiani), con una correzione dei conti dello 0,2 per cento del Pil.
Ma quella del governo Conte è davvero una manovra correttiva?
Riassumendo: il governo Conte ha approvato due provvedimenti per ridurre l’indebitamento dello Stato di circa 7,6 miliardi di euro (circa lo 0,4 per cento del Pil), mentre il governo Gentiloni aveva varato una manovra correttiva di circa 3,4 miliardi. Dunque Misiani fin qui ha ragione.
Manca da chiarire un’ultima cosa, se si possa cioè parlare di “manovra correttiva” o meno anche per questo intervento del governo Conte.
L’espressione “manovra correttiva” non ha una definizione ufficiale, ma è un’espressione giornalistica e politica utilizzata per indicare i provvedimenti che servono a correggere, appunto, i conti dello Stato.
Al di là delle distinzioni relative alla natura dei singoli provvedimenti, che non sono appunto influenti rispetto alla definizione ampia che abbiamo visto, è dunque corretto qualificare anche il duplice intervento del governo Lega-M5s come una “manovra correttiva”.
Come già successo con Gentiloni, l’aggiustamento approvato dal Consiglio dei Ministri il 1° luglio scorso (che ha un valore complessivo di 7,6 miliardi di euro, più del doppio di quello stabilito dal Pd due anni fa) è servito a correggere la rotta dei conti pubblici italiani e a chiudere lo scontro con le istituzioni dell’Unione europea.
A confermarlo è anche la stessa Commissione europea, che per giustificare la chiusura della raccomandazione di aprire la procedura il 3 luglio ha scritto che il governo italiano ha fatto una «correzione» dei suoi conti per un valore, appunto, di 7,6 miliardi di euro.
Il verdetto
Il senatore del Pd Antonio Misiani ha accusato il governo Lega-M5s di aver approvato una manovra correttiva che vale il doppio di quella fatta da Gentiloni nel 2017.
L’esecutivo ha in effetti varato due provvedimenti – il disegno di legge per l’assestamento di bilancio e un decreto-legge – per garantire all’Ue una riduzione dell’indebitamento dell’Italia nel 2019 per circa 7,6 miliardi di euro, circa lo 0,4 per cento del Pil.
Il governo Gentiloni, all’epoca, aveva invece approvato un decreto-legge, che correggeva i conti italiani dello 0,2 per cento, ossia per circa 3,4 miliardi di euro.
Da un punto di vista legislativo, non esiste una definizione di “manovra correttiva”: in questo caso, dunque, si possono confrontare provvedimenti diversi. La sostanza infatti non cambia: le misure approvate dal governo Conte sono state pensate, appunto, per “correggere” i conti dello Stato, ed evitare così la procedura d’infrazione, così come fatto da Gentiloni nel 2017.
In conclusione, Misiani merita un “Vero”.
«Finalmente un primato per Giorgia Meloni, se pur triste: in due anni la presidente del Consiglio ha chiesto ben 73 voti di fiducia, quasi 3 al mese, più di qualsiasi altro governo, più di ogni esecutivo tecnico»
7 dicembre 2024
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