Sul confronto tra Italia e resto del mondo, in materia di articolo 18, ci aveva già pensato Brunetta e non gli era andata bene. Certo, l’ex ministro per la Pubblica Amministrazione si era spinto molto in là, asserendo che in nessun Paese al di fuori dell’Italia fosse prevista la reintegra (obbligatoria, come ha precisato in seguito alla nostra verifica).
In realtà ci è bastato consultare lo studio di Ius Laboris, associazione internazionale di avvocati e giuristi del lavoro, per scoprire che non era così. Individual Dismissals Across Europe prova, infatti, che la reintegra del dipendente in caso di licenziamento illegittimo è considerata in numerosissimi Paesi.
Anche la Germania, come dice Bersani, prevede la reintegra. Ma qui si tratta di confrontare se le due leggi sono sufficientemente simili per sostenere la sua tesi. Procediamo con ordine.
Partiamo dall’occupazione
Gli ultimi dati Eurostat sui tassi di occupazione (anno 2013, calcolati sulla popolazione tra i 15 ed i 64 anni di età) rivelano un ovvio vantaggio tedesco sull’Italia: 73,5% contro il 55,6%. Una forbice che tra l’altro è andata inesorabilmente aumentando negli ultimi 10 anni.
Si tratta dello stesso “articolo 18”?
L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori regola i licenziamenti di dipendenti a contratto indeterminato da aziende con almeno 15 addetti e da aziende agricole con almeno 5 addetti. Prima della legge 92 del 2012, in caso di licenziamento illegittimo, ovvero di licenziamento non per giusta causa o per giustificato motivo, il datore di lavoro era obbligato al reintegro del dipendente, al quale spettava scegliere tra questo ed un risarcimento di 20 mensilità lavorative (per un approfondimento si consiglia di vedere questo video a cura di Quattrogatti.it).
La nuova legge, oltre ad aver introdotto la possibilità di rito semplificato per velocizzare i contenziosi, ha spostato sul giudice del lavoro l’onere di dover scegliere tra reintegro e risarcimento, privando quindi il dipendente di questa facoltà.
In Germania l’articolo 18 equivale alla Kuendigungsschutzsgesetz (legge di protezione da licenziamento [Illegittimo], KSchG in breve). Qui un licenziamento dichiarato illegittimo richiede l’immediato ripristino del rapporto di lavoro. Il giudice non ha quindi facoltà di optare tra reintegro e risarcimento. Non solo. In Germania il reintegro si applica anche nel caso in cui le giustificazioni “economiche” del datore di lavoro non si fossero in seguito verificate. Per esempio, se un lavoratore è licenziato per mancanza di ordini, e successivamente tali ordini arrivano, deve essere reintegrato. Insomma, la nostra unicità non si riscontra nei fatti.
C’è però una scappatoia: una delle due parti (e quindi anche il datore di lavoro) può fare “ricorso” (nel caso in cui il rapporto di lavoro diventasse intollerabile) e chiedere l’annullamento del reintegro, chiedendo si sostituirlo con un risarcimento di tipo pecuniario.
Nonostante modalità leggermente diverse, l’articolo 18 tedesco si avvicina abbastanza a quello italiano (facoltà di poter optare tra reintegra e risarcimento – nel caso tedesco parzialmente su iniziativa delle parti, nel caso italiano interamente a discrezione del giudice). In Germania la normativa sembra però assumere dei toni addirittura più severi della controparte italiana, inserendo la possibilità di reintegro anche nel caso del venir meno (e non solo mancanza) di giustificazioni economiche da parte del datore di lavoro.
Conclusione
Insomma, una normativa a tutela del lavoratore abbastanza simile tra i due Paesi, contro due tassi di occupazione decisamente diversi e tendenti a divergere nel corso degli anni. Non si può negare che Bersani abbia ragione: “Vero”.