Angelino Alfano torna alla carica sfoderando uno dei cavalli di battaglia del centrodestra: una riforma organica della giustizia per modificare lo strapotere della magistratura, unico corpo istituzionale, secondo il segretario del Pdl, che non risponde dei propri errori. Ma è proprio così?
Sulla Rivista dell’AIC (Associazione Italiana dei Costituzionalisti) possiamo leggere un interessante articolo che ripercorre l’evoluzione normativa della responsabilità civile dei magistrati e a cui facciamo riferimento per questa analisi. Il Codice di procedura civile del 1865 (artt. 783 ss.) e, in epoca fascista, il Codice di procedura civile del 1940 (artt. 55, 56 e 74), limitavano la responsabilità del magistrato ai casi di dolo, frode, concussione e denegata giustizia. Si trattava di casi estremamente circoscritti, da cui derivava una notevole disparità di trattamento rispetto agli altri impiegati civili dello Stato, che rispondevano invece anche per colpa grave. Tale disciplina era accusata di celare un'”impunità mascherata” ed effettivamente, per restare alle parole di Alfano, attribuiva ai magistrati il diritto di sbagliare senza rispondere dell’errore.
Nel 1948 entrò in vigore la Costituzione, che all’art. 28 prevede che “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti”, e che “in tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”. La normativa sulla responsabilità civile dei magistrati venne dunque accusata di violare la Costituzione, ma la Corte Costituzionale (sentenza n. 2 del 1968) si mostrò di diverso avviso. Secondo il giudice costituzionale, la disciplina dei limiti della responsabilità può essere variamente individuata, per categorie di dipendenti o per speciali situazioni, sempre che la regola adottata non sia tale da comportare l’esclusione di ogni responsabilità.
La disciplina rimase immutata fino al 1987, quando Radicali, Liberali e Socialisti si fecero promotori di un referendum abrogativo degli articoli del Codice di procedura civile sulla responsabilità civile dei magistrati. L’8 novembre 1987, il quorum venne raggiunto con il 65% degli elettori che votarono in larga maggioranza (80% di sì) a favore dell’abrogazione.
In conseguenza dell’esito del voto referendario, venne poi approvata la legge n. 117 del 1988 («Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati»), che allarga la responsabilità del magistrato, oltre ai casi di dolo o di diniego di giustizia, anche alla colpa grave. I casi di colpa grave sono identificati dalla legge stessa (art. 2, comma 3): grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. L’azione di responsabilità viene proposta contro lo Stato, che in caso di condanna al risarcimento del danno potrà rivalersi nei confronti del magistrato nella misura massima di un terzo dello stipendio annuale. Il magistrato risponde invece direttamente se il fatto che ha causato il danno costituisce reato.
Per quanto anche questa legge sia accusata di non accordare un livello di tutela al cittadino danneggiato sufficientemente elevato, è evidente che con l’introduzione del principio della colpa grave non è vero che i magistrati possano sbagliare senza rispondere dell’errore. Certo, bisogna rilevare che non viene punito qualsiasi errore, ma solo quelli particolarmente gravi. Il motivo lo spiega la Corte Costituzionale (sentenza n.18 del 1989): “la legge deve garantire l’assenza, in ugual modo, di aspettative di vantaggi e di situazioni di pregiudizio, preordinando gli strumenti atti a tutelare l’obiettività della decisione. La disciplina dell’attività del giudice deve perciò essere tale da rendere quest’ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi, mirando altresì, per quanto possibile, a renderla libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza”. E anche il Consiglio Superiore della Magistratura, in una delibera del 28 giugno 2011, ha spiegato (con un parere certamente interessato) che “un rischio eccessivamente elevato di incorrere in responsabilità civile, diretta o indiretta, avrebbe un effetto distorsivo sull’operato dei magistrati, i quali potrebbero essere indotti, al fine di sottrarsi alla minaccia della responsabilità, ad adottare, tra più decisioni possibili, quella che consente di ridurre o eliminare il rischio di incorrere in responsabilità, piuttosto che quella maggiormente conforme a giustizia”.
Nell’ultimo anno ci sono stati dei tentativi di allargare l’ambito di responsabilità dei magistrati, portati avanti soprattutto dai partiti di centrodestra e invisi invece al centrosinistra. Ma le discussioni hanno raggiunto uno stallo ed è probabile che questo sarà un tema per la prossima legislatura.
Insomma, è vero che i magistrati hanno “diritto a sbagliare senza rispondere dell’errore”, ma solo in alcuni casi, come quelli di cosiddetta colpa lieve. Senza questa precisazione la dichiarazione è fuorviante poiché sembra arrivare alla generica conclusione che i magistrati non siano tenuti a rispondere dei propri errori. Al contrario, nei casi di cui sopra i magistrati non hanno tale diritto. Assegniamo pertanto un “Nì” ad Alfano.