In quella che ha tutta l’aria di essere una frecciata a Silvio Berlusconi che, si rumoreggia, non disdegnerebbe la nomina a senatore a vita, il presidente del Senato Pietro Grasso liquida i senatori a vita come un retaggio monarchico. E ha ragione.
Facciamo un salto indietro nel tempo. E’ il 1848 quando l’Europa e l’Italia furono investite dalla “primavera dei popoli”, un’ondata di moti rivoluzionari che investirono le monarchie dell’epoca domandando forme di governo costituzionale. Pressato dall’opinione pubblica, Carlo Alberto di Savoia adottò lo Statuto Albertino, che divenne la carta fondamentale del Regno di Sardegna e, in seguito all’unificazione, del Regno d’Italia. Mentre lo Statuto prevedeva che la Camera fosse “composta di deputati scelti dai Collegii Elettorali” (art. 39), i membri del Senato erano invece nominati a vita dal Re, che li sceglieva tra una serie di categorie ben identificate (art. 33). Quando si parla di costi della politica, è curioso osservare che all’epoca il Re nominava i senatori “in numero non limitato”!
Con il referendum del 1946 e la nuova Costituzione repubblicana del 1948 anche il Senato divenne una camera elettiva. La Costituzione però, oltre a stabilire il diritto del Presidente della Repubblica a diventare senatore a vita, mantenne in capo al Presidente della Repubblica la facoltà di “nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” (art. 59). Per fare qualche esempio, hanno ricoperto questa carica Arturo Toscanini, Luigi Sturzo, Eugenio Montale, Norberto Bobbio, Giovanni Agnelli e Rita Levi Montalcini. Al momento gli unici senatori a vita in carica sono Emilio Colombo, Mario Monti e Carlo Azeglio Ciampi. Un elenco completo è disponibile sul sito del Senato.
La dichiarazione di Grasso è corretta: “Vero”!