Il 22 febbraio, la senatrice del Movimento 5 stelle Maria Laura Mantovani ha scritto su Facebook che «senza il reddito di cittadinanza l’Italia rischierebbe la bocciatura del documento necessario a ottenere le risorse del Next Generation Eu». Secondo Mantovani, fra i parametri di valutazione del piano di ripresa nazionale ci sarebbe infatti il rispetto delle raccomandazioni di maggio 2020, nella quali la Commissione avrebbe dato indicazione di «estendere e rafforzare» il reddito di cittadinanza «per tutelare le persone più colpite dalla drammatica crisi sociale innescata dal Covid».

In questi giorni molti parlamentari del Movimento 5 stelle hanno ribadito questo concetto, al centro anche di un post del 23 febbraio sul Blog delle stelle.

Abbiamo verificato e la senatrice esagera. È infatti una forzatura sostenere che senza il reddito di cittadinanza il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr, o Recovery plan) rischierebbe la bocciatura.

Vediamo i dettagli, un passo per volta.

Di che cosa stiamo parlando

Il Next Generation Ue è lo strumento attraverso il quale l’Unione europea distribuirà agli Stati membri i fondi necessari a favorire la ripresa economica e sociale dopo la pandemia. Il programma vale in totale 750 miliardi di euro, presi dalla Commissione Ue a debito sui mercati, di cui 360 miliardi in prestiti e 390 in sovvenzioni a fondo perduto.

La parte principale del Next Generation Eu è il Recovery and resilience facility (in italiano, “Dispositivo di finanziamento per la ripresa e la resilienza”), che ha un valore di 672,5 miliardi di euro dei 750 totali.

Secondo la previsione di spesa del “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, all’Italia andranno 223,9 miliardi di euro, di cui quasi 197 miliardi dal Recovery and resilience facility, 13 dal React-Ue (un altro dei programmi europei in risposta agli effetti della pandemia sui territori) e 14 miliardi in più richiesti dall’Italia, ma ancora da vagliare in sede europea.

Per beneficiare dei fondi del Recovery and resilience facility, gli Stati membri dovranno presentare i propri piani nazionali, delineando i programmi di investimento e di riforma sulla base dei criteri suggeriti dall’Unione europea. La scadenza per la presentazione di questi piani, come stabilisce il regolamento del Recovery and resilience facility (art.18, co.3), è «di norma» il 30 aprile 2021 (un’espressione che lascerebbe intendere una certa flessibilità in caso di ritardi).

Il Piano di ripresa e resilienza italiano è al vaglio del Parlamento, ma il testo attuale sarà probabilmente cambiato dal nuovo governo presieduto da Mario Draghi, che ne ha parlato anche nel suo discorso per ottenere la fiducia delle camere.

I Recovery plan, ovvero i piani di ripresa nazionali, devono rispondere a determinati parametri. Vediamo quali.

Il regolamento del Recovery and resilience facility

Il 10 febbraio 2021 il Parlamento europeo ha approvato il testo definitivo del Recovery and resilience facility, sulla base dell’accordo politico raggiunto dai leader europei il 21 luglio 2020.

Secondo l’articolo 19 del dispositivo, la Commissione europea valuta i piani nazionali di ripresa entro due mesi dalla presentazione ufficiale e sulla base di specifici criteri.

Fra questi, c’è in primo luogo la pertinenza ai sei pilastri stabiliti all’articolo 3: transizione verde, trasformazione digitale, crescita sostenibile e inclusiva, coesione sociale e territoriale, salute e resilienza economica, sociale e istituzionale e politiche per la prossima generazione.

Allo stesso tempo, la valutazione considera anche se «il piano per la ripresa e la resilienza è in grado di contribuire ad affrontare in modo efficace tutte, o un sottoinsieme significativo delle sfide, individuate nelle pertinenti raccomandazioni specifiche per Paese, compresi gli aspetti di bilancio, e, se del caso, nelle raccomandazioni formulate» (art.19, co.3, lett.2) dalla Commissione europea.

Le linee guida pubblicate dalla Commissione europea il 22 gennaio specificano che gli Stati membri dovrebbero in particolar modo guardare alle raccomandazioni per il 2019 e il 2020.

La senatrice Mantovani ha quindi detto correttamente che il rispetto delle raccomandazioni di maggio 2020 sarà fra i parametri alla base della valutazione della Commissione europea. Ma non di tutte.

Vediamo che cosa dicono le raccomandazioni 2020 sul reddito di cittadinanza e se sia corretto dire che senza questa misura l’Italia rischierebbe addirittura la bocciatura.

Le raccomandazioni 2020 e il reddito di cittadinanza

Nelle raccomandazioni della Commissione europea, pubblicate il 20 maggio 2020, si fa effettivamente riferimento al reddito di cittadinanza in un breve passaggio, ma solo nella parte dei “considerando”. Queste sono considerazioni che motivano e contestualizzano le raccomandazioni vere e proprie ma che «non contengono enunciati di carattere normativo o dichiarazioni di natura politica».

Secondo i “considerando” della Commissione europea, «il reddito di cittadinanza (…) può attenuare gli effetti della crisi Covid-19» e «tuttavia si potrebbe migliorarne la diffusione tra i gruppi vulnerabili».

Nella parte conclusiva di raccomandazioni vere e proprie la Commissione non cita il reddito di cittadinanza ma si limita a indicare la necessità di «fornire redditi sostitutivi e un accesso al sistema di protezione sociale adeguati, in particolare per i lavoratori atipici». La parte giuridicamente rilevante delle raccomandazioni è insomma molto vaga.

Tornando ai “considerando”, la Commissione riconosce l’importanza della misura, ma segnala allo stesso tempo la necessità di raggiungere più persone «vulnerabili». Come abbiamo verificato di recente, infatti, «dei circa 9 milioni di poveri relativi presenti in Italia prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza, i beneficiari risultano solo 1,3 milioni, circa un settimo del totale, mentre «dei quasi 2,8 milioni di beneficiari [in base ai dati di fine 2019, ndr], poco meno di 1,5 milioni (oltre la metà) non risultano essere poveri».

In più, il reddito di cittadinanza non raggiunge, fra i gruppi di persone vulnerabili, gli stranieri poveri che non risiedono in Italia «da almeno 10 anni, di cui gli ultimi 2 in via continuativa». Un requisito questo sulla cui legittimità pendono peraltro diversi ricorsi.

Non si può insomma dire che senza il reddito di cittadinanza l’Italia rischierebbe la bocciatura del piano nazionale di ripresa. Principalmente per due motivi: come abbiamo visto, il riferimento esplicito al reddito di cittadinanza è contenuto solo nei “considerando” che anticipano le raccomandazioni; e soprattutto, la valutazione del Recovery plan sarà basata anche sull’efficacia di intervento «tutte, o un sottoinsieme significativo delle sfide, individuate nelle pertinenti raccomandazioni specifiche per paese».

Il rispetto delle raccomandazioni può quindi anche essere parziale, restringendo le iniziative anche a una selezione, «un sottoinsieme», degli obiettivi suggeriti dalla Commissione europea.

Il verdetto

La senatrice del Movimento 5 stelle Maria Laura Mantovani ha detto che senza il reddito di cittadinanza l’Italia rischierebbe la bocciatura del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” da parte dell’Europa. Secondo Mantovani, fra i parametri di valutazione del piano di ripresa nazionale ci sarebbe il rispetto delle raccomandazioni di maggio 2020, nella quali la Commissione avrebbe dato indicazione di rafforzare il reddito di cittadinanza per tutelare le persone più colpite dalla crisi sociale innescata dalla pandemia.

Abbiamo verificato e la senatrice esagera.

È infatti una forzatura sostenere che senza il reddito di cittadinanza il Recovery plan italiano rischierebbe la bocciatura. Innanzitutto, le raccomandazioni del 2020 menzionavano esplicitamente il reddito di cittadinanza solo nei “considerando”, che non hanno valore giuridico, e non nella parte conclusiva di raccomandazioni vere e proprie, dove si fa accenno genericamente alla necessità di «fornire redditi sostitutivi e un accesso al sistema di protezione sociale adeguati, in particolare per i lavoratori atipici».

In secondo luogo, il regolamento del Recovery and resilience facility prevede che lo Stato membro possa individuare e affrontare anche solo una parte delle sfide contenute nelle raccomandazioni (non necessariamente tutte) senza per questo dover necessariamente temere una bocciatura.

La senatrice Mantovani merita un “Nì”.