L’11 febbraio, il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha sottolineato la differenza tra il progetto di autonomia di Lombardia e Veneto e quello della sua regione.



Secondo l’esponente del Partito democratico, il processo che interessa l’Emilia-Romagna riguarda 15 competenze (su un totale di 23); non tocca il tema del residuo fiscale – ossia la differenza tra le tasse pagate in una regione e i soldi spesi dallo Stato in quel territorio – e non prevede nuove spese per le casse dello Stato.



È davvero così? Abbiamo verificato.



Che cos’è il “regionalismo differenziato”



Le regioni Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia hanno avviato da qualche anno un negoziato con il governo per l’attribuzione di maggiori competenze.



La richiesta ha il suo fondamento nella riforma costituzionale del 2001. Questa ha riformato il Titolo V della Costituzione e ha aggiunto un comma all’articolo 116 (il comma 3), secondo cui «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» possono essere richieste dalle regioni non a statuto speciale.



Questa autonomia viene data dal Parlamento con una legge ordinaria, «approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata». La concessione di maggior autonomia prende il nome di «regionalismo differenziato».



Fin dal 2003, diverse regioni (Veneto, Lombardia, Piemonte e Toscana) hanno provato a ottenere maggiore autonomia avviando il procedimento previsto della riforma del Titolo V, ma nessun procedimento è finora arrivato a conclusione.



Nonostante questo, le regioni sembrano molto interessate a questa possibilità. Secondo un dossier recente del Servizio Studi del Senato, solo due regioni (Abruzzo e Molise) non hanno preso alcuna iniziativa per usufruire del regionalismo differenziato.



Le regioni in cui il procedimento è più avanzato sono però Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Il 28 febbraio 2018, le trattative fra le regioni e lo Stato hanno portato alla definizione e alla firma di tre distinti accordi preliminari tra i presidenti di regione e i rappresentanti del governo Gentiloni.



Che cosa vuole l’Emilia Romagna?



Il percorso dell’Emilia Romagna verso una maggiore autonomia ha avuto inizio il 28 agosto 2017, quando la giunta regionale ha approvato il primo documento in cui erano individuate le macro-aree «di intervento strategico». Alcuni mesi dopo, il 3 ottobre 2017, il presidente della regione Stefano Bonaccini è stato incaricato di avviare un negoziato con il governo.



Il punto da chiarire è qui che cosa possa chiedere una regione.



In base alla riforma del 2001, ci sono alcune competenze esclusivamente statali (pensiamo ad esempio alla difesa) e altre invece cosiddette “di legislazione concorrente”: in quegli ambiti, allo Stato spetta definire i principi generali, mentre le regioni possono comunque legiferare. L’elenco è stabilito nell’art. 117 della Costituzione, che riporta venti materie.



Le regioni possono chiedere maggiore autonomia negli ambiti di legislazione concorrente, più in tre soli ambiti di esclusiva legislazione statale: si arriva così al totale di 23 citato da Bonaccini.



Torniamo all’Emilia-Romagna. Il 12 febbraio 2018, nella risoluzione (qui scaricabile) dell’Assemblea legislativa, si è fatto richiesta specifica di alcune competenze sulle 23 materie elencate nella Costituzione. In questo modo, secondo i promotori dell’autonomia, la regione si occuperebbe della diretta gestione di alcuni settori.



Successivamente, il 25 luglio 2018, durante una seduta dell’Assemblea legislativa, le competenze su cui la regione Emilia-Romagna vorrebbe la gestione diretta sono state fissate in 15. A quelle stabilite in precedenza, sono state aggiunte agricoltura, acquacoltura, protezione della fauna e attività venatoria; cultura e spettacolo; sport. L’elenco delle 15 competenze è rimasto poi invariato nel progetto definitivo votato con una risoluzione, sempre dall’Assemblea legislativa, il 18 settembre 2018.



Grazie al regionalismo differenziato, l’Emilia-Romagna (così come le altre regioni che si trovano a questo stadio del processo) potrà godere di una maggiore autonomia nei quindici diversi settori indicati.



E invece Veneto e Lombardia?



Sia la Lombardia che il Veneto hanno chiesto al governo l’avvio del negoziato dopo aver tenuto un referendum consultivo a fine ottobre 2017. In entrambe le regioni, il Sì ha stravinto a larghissima maggioranza (95% in Lombardia e 98% in Veneto).



Entrambe le regioni, come sottolinea un dossier del Servizio studi del Senato sul tema, stanno trattando per estendere i propri poteri a tutti gli ambiti di competenza legislativa concorrente fra Stato e regioni, e alle tre di competenza esclusiva statale elencate nell’articolo 116 della Costituzione, per un totale di 23 materie.



Il tema delle risorse



Bonaccini sottolinea, parlando delle risorse necessarie per raggiungere l’autonomia, come non sia necessario richiedere alcuna risorsa extra allo Stato – sottraendola quindi alle altre regioni.



Nella sezione dedicata alla questione dell’autonomia sul sito istituzionale della regione Emilia-Romagna si legge che «a copertura delle funzioni richieste, l’Emilia-Romagna ha proposto la propria compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al suo territorio, da definire in sede di negoziato con il governo». Insomma, nel progetto della regione settentrionale, le tasse raccolte nella regione resteranno le stesse, ma quelle che si possono “riferire” all’Emilia-Romagna – cioè quelle che vengono spese in loco – saranno assegnate in misura maggiore al controllo dell’ente locale.



Il tema, comunque, non è ancora definito del tutto. Negli accordi preliminari fra le tre regioni e lo Stato si legge che le risorse finanziarie saranno determinate da una commissione paritetica Stato-regione e che, «in una prima fase, occorrerà prendere a parametro la spesa storica sostenuta dallo Stato nella regione riferita alle funzioni trasferite o assegnate».



In altri termini, nei primi anni di autonomia a Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna dovrebbe arrivare l’equivalente esatto di quanto lo Stato spende già oggi nella regione per provvedere a una determinata funzione con fondi nazionali: se l’Emilia Romagna riceve una quantità stabilita di fondi nazionali nell’ambito “tutela della salute”, anche dopo l’autonomia dovrebbe continuare a ricevere la stessa cifra (dopo cinque anni di autonomia si passerà a un meccanismo diverso, basato sul “fabbisogno standard”).



La questione, fino a questo momento è ancora abbastanza vaga, come, tra l’altro, sembra riportare anche uno degli ultimi approfondimenti sul tema redatti dalla Camera. Il dossier infatti specifica che questo è uno degli aspetti più delicati del dibattito: «Al riguardo, nell’ambito dell’indagine conoscitiva è emersa come centrale l’esigenza del rispetto del principio, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, della necessaria correlazione tra funzioni e risorse».



Ma quindi, che cosa cambia? Il punto di vista degli autonomisti è che, a parità di risorse, le regioni possano ottimizzare le voci di spesa meglio di quanto riesca allo Stato centrale, portando risparmi e/o un miglioramento del servizio.



Secondo un’inchiesta del Sole 24 Ore, «questo scenario è certamente possibile per alcuni temi ma improbabile in altri», come ad esempio nella scuola, ambito in cui la percentuale maggiore di spesa è data dal costo degli stipendi e «l’autonomia non può certo portare a contratti di lavoro differenziati o alla riduzione degli organici tagliando il rapporto docenti/studenti».



Il verdetto



Il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini ha sottolineato che il progetto di autonomia della sua regione coinvolge 15 delle 23 competenze previste dalla Costituzione e che non saranno previste nuove spese per lo Stato.



Per quanto riguarda le competenze, l’esponente del Pd riporta informazioni corrette: a differenza di Veneto e Lombardia, il progetto dell’Emilia Romagna richiede l’attribuzione di maggiore autonomia su 15 delle 23 competenze previste.



La questione dei fondi è più difficile. Almeno in linea teorica, l’estensione delle materie di competenza regionale non dovrebbe comportare nuove spese per le casse dello Stato: alla regione dovrebbe finire più che altro la gestione diretta dei soldi che già oggi lo Stato spende in quel settore. Resta tuttavia da considerare che lo stanziamento delle risorse – se i progetti autonomisti dovessero diventare leggi – verrebbe successivamente stabilito da una commissione paritetica Stato-regione e solo allora si potrà avere la parola definitiva. Per questo margine di incertezza – anche perché, ad oggi, nessuna regione ha portato a termine l’iter che stanno percorrendo Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia – Bonaccini merita un “C’eri quasi”.