Aggiornamento 18 marzo, ore 17:30 – Alberto Gerli ha detto al Corriere della Sera che rinuncia al suo incarico nel Cts.

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Il 16 marzo la Protezione civile ha annunciato la nuova organizzazione del Comitato tecnico scientifico (Cts), l’organismo che da inizio epidemia consiglia il governo sulla gestione dell’emergenza coronavirus.

«Saranno coinvolti esperti appartenenti non solo al campo scientifico-sanitario ma anche ad altri settori, come ad esempio al mondo statistico, matematico-previsionale o ad altri campi utili a definire il quadro della situazione epidemiologica e ad effettuare l’analisi dei dati raccolti necessaria ad approntare le misure di contrasto alla pandemia», si legge in un comunicato della Protezione civile.

Tra i 12 membri del nuovo Cts, c’è anche il nome dell’ingegnere Alberto Giovanni Gerli, che da mesi pubblica previsioni e video sul suo canale YouTube Data & Tonic, e rilascia interviste sull’andamento dell’epidemia di coronavirus in Italia (cercando di attirare l’attenzione di personaggi famosi come Fedez e Chiara Ferragni e di politici come il leghista Luca Zaia e l’ex presidente Giuseppe Conte).

Le stime di Gerli – che su LinkedIn si definisce data analyst, fondatore e Ceo della Tourbillon Tech Srl – sono però state quasi tutte smentite dai numeri. Non solo, ma le sue teorie per analizzare l’epidemia spesso si basano su assunti difficili da giustificare in base alla scienza. Ci sono diversi elementi insomma per mettere in discussione le sue competenze e, di conseguenza, l’opportunità del suo nuovo ruolo all’interno del Cts.

Vediamo perché, partendo dalle previsioni più recenti.

Le previsioni più recenti

Il calo in Lombardia non c’è stato

Il 28 gennaio 2021 Gerli ha sostenuto che, in base a un proprio “modello”, in Lombardia i contagi si sarebbero ridotti velocemente nelle settimane seguenti, passando da circa 1.700 al giorno a 350 per metà marzo a “parità di condizioni”, cioè senza varianti.

In realtà sappiamo che non è andata così: a metà marzo i casi sono stati 4.700. La colpa dell’aumento non può essere solo attribuita alle varianti, perché i casi non hanno mai seguito l’andamento previsto da Gerli. Hanno avuto infatti solo una leggera oscillazione a inizio febbraio, ma in generale hanno avuto un trend di crescita.

Il Veneto non è andato in zona bianca, ma rossa

Il 1° febbraio Gerli disse che in Veneto «si potrà magari verificare qualche ritardo ma per la fine di febbraio la regione quasi certamente entrerà nella zona bianca». In realtà il Veneto non è entrato in zona bianca, ma il 28 febbraio era in giallo, l’8 marzo in arancione e il 15 marzo in rossa.

Va tenuto inoltre conto che un ruolo fondamentale nel sistema di monitoraggio dell’Istituto superiore di sanità (Iss) e dal Ministero della Salute è giocato dall’indice di riproduzione effettiva Rt e che quello usato nel monitoraggio che ha decretato la zona rossa era basato sui dati al 24 febbraio (dunque i prossimi dati potrebbero essere ancora peggiori).

L’ingegnere ha anche mostrato di avere una scarsa comprensione del funzionamento del monitoraggio settimanale con cui sono stabiliti i colori delle regioni. La sua previsione del Veneto in zona bianca era basata sul fatto che la regione avrebbe registrato per 21 giorni meno di 100 casi ogni 100 mila abitanti. In realtà, come prevede il decreto-legge con le regole per i colori, per poter entrare in zona bianca serve avere per tre settimane consecutive un’incidenza minore di 50 casi ogni 100 mila, un livello di rischio basso e l’indice Rt inferiore a 1.

Il rischio è determinato attraverso 21 indicatori e basato su dati non pubblici, così come l’indice Rt. Prevedere quindi l’entrata delle regioni in determinati colori è quasi impossibile.

Altre imprecisioni su Milano e Brescia…

Il 12 febbraio Gerli ha invece previsto che per la fine di quel mese a Milano i nuovi casi sarebbero arrivati a 1.300 al giorno e a Brescia a 1.200. Due giorni prima aveva fatto altre previsioni con andamenti ben diversi. Ad ogni modo, il 28 febbraio i casi a Milano sono risultati essere 882 – in media mobile a sette giorni – e a Brescia 814.

… e sulle varianti

Gerli ha affrontano anche il tema varianti sostenendo, il 22 febbraio, di poter identificare sulla base dell’andamento dei contagi a livello provinciale dove erano presenti le varianti maggiormente trasmissibili. I punti in cui, a suo parere, c’erano i focolai di varianti erano tre province in Lombardia, quattro in Emilia Romagna, cinque in Toscana, una nelle Marche, una in Abruzzo, una nel Lazio, una in Calabria e due in Basilicata.

In realtà non era così. Il 2 marzo l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha pubblicato i risultati della seconda indagine di prevalenza delle varianti (condotta su campioni prelevati il 18 febbraio) identificando, seppur con ampia incertezza, delle aree diverse. La cosiddetta “variante inglese”, quella più trasmissibile, era pari a oltre il 60 per cento dei casi in Molise, Sardegna, Liguria, Lombardia e Campania. Secondo Gerli, in quattro di queste cinque regioni non c’erano le varianti.

Va inoltre osservato che qualsiasi analisi provinciale è problematica a causa dei ritardi di notifica che riguardano questo tipo di dati. Spesso ci sono degli andamenti bizzarri dovuti a revisione di dati o a casi caricati tutti insieme. Non si tratta di dati affidabili, dunque, da cui partire per fare analisi predittive.

Le previsioni su Bergamo e Como

Il 2 marzo Gerli ha sostenuto che a Bergamo «le proiezioni indicano il picco a metà marzo, con uno scenario migliore di 350 nuovi casi quotidiani e uno peggiore con 500 nuovi contagi giornalieri». In realtà a metà marzo a Bergamo la media mobile a sette giorni dei casi è stata pari a 320, anche meno dello scenario migliore ipotizzato da Gerli.

Non è andata molto diversamente a Como. Il 3 marzo l’ingegnere ha sostenuto che la provincia «si sta dirigendo tra i 400 e gli 800 casi giornalieri entro i prossimi quindici giorni». Queste due settimane non sono ancora del tutto passate, ma al momento a Como in media mobile hanno 314 casi ed è improbabile che in due giorni arriveranno a 400 vista la stabilità degli ultimi giorni (302-314).

Che cos’è l’“indice Gerli”

Alberto Gerli ha anche ideato un indice con cui sostiene di poter prevedere l’andamento dell’epidemia (fino a qui abbiamo visto che non gli è andata sempre bene). I quotidiani hanno presentato questo “indice Gerli” come un indice la cui forza è «la tempestività, cioè mostrare quale sia l’Rt oggi, mentre le elaborazioni “ufficiali” scontano sempre un ritardo, perché riferite a dati di oltre 10 giorni prima».

Si tratta di un’informazione quantomeno fuorviante. I dati alla base dell’analisi di Gerli sono quelli diffusi dalla Protezione civile. Come abbiamo spiegato numerose volte, si tratta di dati per notifica, mentre l’indice Rt è basato sui casi sintomatici per data di inizio sintomi. Il problema di utilizzare i dati per data di notifica è che sono affetti da diversi ritardi e non riflettono la precisa evoluzione dell’indice Rt.

Che cosa succede se si confronta l’indice di Gerli con il sistema di calcolo dell’indice Rt adottato dalla Fondazione Bruno Kessler (Fbk), un ente di ricerca di interesse pubblico di supporto all’Iss?

Dall’analisi dei due indici emerge come l’“indice Gerli” in realtà non assomigli all’indice Rt per data di inizio sintomi, né se lo si prende così come viene dato né se lo si anticipa di dieci giorni. Sostenere che quindi sia «tempestivo» è quantomeno azzardato.

Anche volendo, non potrebbe essere tempestivo. Se calcoliamo oggi l’indice Rt a partire dai dati della Protezione civile, avremo un’indicazione di com’era l’epidemia svariati giorni fa. Infatti tra contagio e sintomi passano cinque giorni, tra sintomi e tampone due o tre giorni e poi ne servono almeno altri due o tre perché la positività venga riportata nei dati nazionali. Qualsiasi indice basato sui dati per data di notifica sarà vecchio a priori.

La teoria dei 40 giorni

Una delle prime volte che si è sentito parlare di Alberto Gerli è stato nell’aprile 2020. In quell’occasione infatti uscì sul Corriere della Sera un articolo su un “modello predittivo” a cui aveva lavorato l’ingegnere, in base al quale si sosteneva che il lockdown era inutile.

La base di questo modello era l’ipotesi che un’ondata di coronavirus duri 40 giorni e che il suo andamento sia influenzato solo dai primi 17 giorni. A quel punto – sempre secondo Gerli – indipendentemente dalle misure messe in campo, l’epidemia ha il destino segnato.

Lo studio però aveva parecchi limiti. Il problema principale, come ha osservato il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, è che in quel momento l’Italia era già in lockdown ed era facile prevedere l’andamento calante delle infezioni. Inoltre, come emergeva dai grafici pubblicati, il modello di Gerli non aderiva neanche particolarmente alla realtà. Il professore di economia dell’Università Sapienza di Roma Fabio Sabatini aveva concluso allora che si trattava di un modello «intriso di fallacie logiche che giunge a conclusioni inaffidabili e fuorvianti».

Come avevamo spiegato già a novembre scorso, il lockdown di marzo e aprile in realtà ha sicuramente funzionato. I principali indicatori sull’andamento dell’epidemia hanno toccato il picco nel momento in cui era atteso sulla base dei dati a disposizione e della data di inizio del lockdown.

In generale non si capisce la logica secondo cui, a decidere l’andamento dell’epidemia, possano bastare solo i primi 17 giorni. Inoltre, quando si è di fronte a una crescita esponenziale, agire nei primissimi giorni o dopo diverse settimane può fare un’incredibile differenza. Proprio l’esponenzialità dovrebbe spingere a prendere rapide decisioni. Nonostante questo, Gerli ha continuano a rilanciare questa teoria nelle numerose interviste rilasciate nei mesi successivi.

Nel ribadire questa ipotesi, il 14 marzo 2021 Gerli ha sostenuto che le restrizioni adottate in questi giorni dal governo non faranno differenza perché la curva scenderà lo stesso, visto che secondo lui l’onda dei contagi dura 40 giorni. In realtà, un’analisi svolta dall’Associazione italiana di epidemiologia ha rilevato come le zone rosse si sono dimostrate efficaci nell’avere un «declino significativo ed omogeneo dell’incidenza di Covid-19 nelle quattro settimane successive al provvedimento». A conclusioni simili è arrivata anche una ricerca – per ora non ancora sottoposta a peer review – pubblicata lo scorso 24 febbraio e dedicata ad analizzare gli effetti del sistema a colori durante la seconda ondata di novembre.

In conclusione

Non sono chiari i criteri in base ai quali Alberto Giovanni Gerli sia stato nominato membro del nuovo Cts. Di certo, nonostante la visibilità mediatica negli ultimi mesi, le sue previsioni sull’andamento dell’epidemia sono state quasi sempre smentite dai fatti. Non solo, le loro basi di metodo sembrano avere diversi limiti.