Il 20 e 21 settembre si è votato in Italia per rinnovare il governo di sette regioni e per confermare la riforma costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari da 945 a 600 (esclusi i senatori a vita).
Secondo i dati definitivi del Ministero dell’Interno, il “Sì” al taglio di deputati e senatori ha vinto con quasi il 70 per cento, tre regioni (Toscana, Puglia e Campania) sono andate a presidenti di coalizioni di centrosinistra e tre regioni (Veneto, Marche e Liguria) a presidenti di coalizioni di centrodestra. Alle ore 16 del 22 settembre mancano ancora i risultati definitivi della Valle d’Aosta, dove però non viene eletto direttamente il presidente, che sarà poi scelto dai membri del Consiglio regionale.
Da Nicola Zingaretti (Pd) a Matteo Salvini (Lega), passando per Luigi Di Maio (M5s) e Matteo Renzi (Italia Viva), abbiamo analizzato 11 dichiarazioni di politici sul voto regionale e referendario per vedere se corrispondono al vero o meno. In molti hanno commesso diversi errori.
Il fact-checking delle regionali
L’alleanza di governo insieme non avrebbe vinto «quasi» ovunque
Nicola Zingaretti (Partito democratico): «Dai dati emerge che se ci avessero dato retta di più i nostri alleati, l’alleanza di governo probabilmente avrebbe vinto quasi in tutte le regioni italiane» (min. 8:30)
Nelle competizioni elettorali, il tutto non è mai la somma delle parti: presentarsi o meno in coalizione influisce sulla scelta degli elettori di votare o meno per l’apparentamento (basti pensare a ragionamenti come “li avrei votati, se non si fossero alleati con…) e per questo motivo ha poco senso fare le somme aritmetiche tra due forze separate. Non è insomma possibile dire con certezza come sarebbero potute andare le elezioni se si fossero presentate coalizioni diverse ai blocchi di partenza.
Al di là di questo, facendo le somme, il segretario del Pd sbaglia: se la maggioranza che sostiene il governo Conte II (Partito democratico, Movimento 5 stelle, Italia viva e Liberi e uguali) avesse corso unita, non avrebbe vinto in «quasi» tutte le regioni al voto.
Nelle tre regioni in cui il centrosinistra ha vinto, la mancata alleanza tra i partiti di governo, in particolare tra Pd e M5s, è stata ininfluente.
In Campania Vincenzo De Luca è stato rieletto presidente con il 69,5 per cento dei voti, supportato, tra gli altri, da Pd e Italia Viva; in Toscana Eugenio Giani ha vinto con il 48,6 per cento dei voti, anche qui con il supporto di Pd e Italia Viva; in Puglia il presidente uscente Michele Emiliano è stato rieletto con il 46,8 per cento delle preferenze, appoggiato dal Pd.
Sempre in base alla sola somma dei voti presi dai partiti, in due delle tre regioni in cui il centrosinistra ha perso, la mancata alleanza non sembra aver fatto davvero la differenza.
In Veneto, la somma dei voti di Pd e M5s è arrivata al 19 per cento dei voti, contro il lontanissimo 76,8 per cento del presidente uscente e riconfermato Luca Zaia (Lega). Nelle Marche, la somma dei voti dei due partiti porta a un 45,9 per cento, che non sarebbe stato abbastanza per superare il 49,1 per cento del vincitore del centrodestra Francesco Acquaroli (Fratelli d’Italia).
In Liguria, ossia l’unica regione dove Pd e M5s si sono presentati insieme, Ferruccio Sansa ha preso il 38,9 per cento contro il 56,1 per cento del riconfermato Giovanni Toti (Cambiamo!). Anche sommando a Sansa il 2,4 per cento di Aristide Massardo supportato da Italia Viva (ma anche da +Europa, che è all’opposizione del governo), la maggioranza del Conte II resta lontana da numeri in grado di ribaltare il risultato.
No, Italia Viva non ha fatto il «5 per cento»
Matteo Renzi: «[Italia Viva] fa il 5 per cento a livello nazionale» (min. 1:53)
Ospite a L’aria che tira su La7, l’ex presidente del Consiglio ha gonfiato, e non di poco, il risultato del suo partito alle elezioni regionali.
In Liguria il candidato di Italia Viva Aristide Massardo ha preso il 2,4 per cento, con il sostegno però anche di +Europa e il Partito socialista italiano. In Veneto la candidata di Italia viva Daniele Sbrollini ha raggiunto lo 0,6 per cento. In Puglia Ivan Scalfarotto, appoggiato anche da +Europa e Azione, si è fermato all’1,6 per cento, con l’1,1 per cento di Italia viva.
Il risultato migliore è arrivato in Campania, dove la lista di Italia viva a supporto del presidente confermato Vincenzo De Luca ha preso il 7,4 per cento. In Toscana la lista di Italia viva e +Europa, a supporto del neo-eletto Eugenio Giani, ha preso il 4,5 per cento, mentre nelle Marche il partito di Renzi è arrivato al 3,1 per cento, in una lista però con altre sigle, a sostegno del candidato perdente di centrosinistra Maurizio Mangialardi.
La media delle percentuali dà circa il 3,1 per cento, e non il 5 per cento come indicato da Renzi.
Se si sommano tutti i voti presi dalle liste con dentro Italia Viva (dove in alcune, come abbiamo visto, c’erano però anche altri partiti), a livello nazionale otteniamo oltre 315 mila voti, che corrispondono a circa il 3,5 per cento degli oltre 8 milioni e 955 mila voti dati alle liste nelle sei regioni analizzate.
Quante regioni governa il centrodestra
Matteo Salvini (Lega): «15 regioni su 20 sono amministrate dalla Lega e dal centrodestra» (min. 16:17)
Nella conferenza stampa post-voto, il segretario della Lega ha fatto una dichiarazione leggermente imprecisa, ma sostanzialmente corretta.
Oggi sono governate da coalizioni di centrodestra, e di cui fa parte anche la Lega, 13 regioni, e non 15: il Piemonte di Alberto Cirio (Forza Italia); la Lombardia di Attilio Fontana (Lega); il Veneto del riconfermato Luca Zaia (Lega); il Friuli-Venezia Giulia di Massimiliano Fedriga (Lega); la Liguria del riconfermato Giovanni Toti (Cambiamo!); l’Umbria di Donatella Tesei (Lega); le Marche del neo-presidente Francesco Acquaroli (Fratelli d’Italia); l’Abruzzo di Marco Marsilio (Fratelli d’Italia); il Molise di Donato Toma (Forza Italia); la Basilicata di Vito Bardi (Forza Italia); la Calabria di Jole Santelli (Forza Italia); la Sicilia di Nello Musumeci (#DiventeràBellissima); e la Sardegna di Christian Solinas (Partito sardo d’azione).
È governata da una coalizione di centrodestra anche la Provincia autonoma di Trento, con Maurizio Fugatti della Lega. Il presidente della Provincia autonoma di Bolzano è invece Arno Kompatscher del partito autonomista Südtiroler Volkspartei, che dopo aver vinto le elezioni nel 2018, l’anno successivo si è alleato a livello provinciale con la Lega.
Salvini è dunque impreciso, se – come sembra – conta come due “regioni” separate le due Province autonome di Trento e Bolzano, e a considerare la seconda come amministrata dal centrodestra e dalla Lega: la Lega c’è ma in alleanza con un partito autonomista altoatesino, che per molti anni era stato alleato con il centrosinistra.
Cinque regioni sono invece in mano a coalizioni di centrosinistra: il Lazio di Nicola Zingaretti (Partito democratico); l’Emilia-Romagna di Stefano Bonaccini (Partito democratico); la Toscana del neo-presidente Eugenio Giani (Partito democratico); la Campania del riconfermato Vincenzo De Luca (Partito democratico); e la Puglia del riconfermato Michele Emiliano (ex Partito democratico, ora indipendente).
Alle ore 16 del 22 settembre, mancano ancora i dati definitivi delle elezioni in Valle d’Aosta, che fino ad oggi è stata governata ad interim da Renzo Testolin dell’Union Valdôtaine, dopo che nel 2019 si era dimesso il presidente Antonio Fosson dello stesso partito, per un’inchiesta a suo carico. In base a oltre l’80 per cento delle schede scrutinate, la Lega Salvini Vallée D’Aoste è il primo partito della regione, con il 23,9 per cento dei voti, su 12 liste presentate.
Fratelli d’Italia è l’unico partito che cresce
Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia): «Da nord a sud Fratelli d’Italia è l’unico partito che cresce in tutte le regioni al voto»
Se si guarda ai principali partiti che sono oggi rappresentati in Parlamento, Meloni ha ragione: il suo partito è l’«unico» a essere cresciuto in «tutte le regioni al voto», rispetto alle regionali di cinque anni fa.
In Liguria Fratelli d’Italia ha preso il 10,9 per cento, contro il 3,1 per cento delle scorse elezioni regionali del 2015. Rispetto a cinque anni fa, Lega, Pd, M5s e Forza Italia sono tutti calati.
In Puglia il partito di Meloni ha raccolto il 12,6 per cento dei voti (la percentuale più alta nella coalizione di centrodestra), mentre nelle scorse regionali del 2015 il 2,5 per cento.
In Toscana Fratelli d’Italia si è attestato intorno al 13,5 per cento dei voti, in crescita rispetto al 3,9 per cento del 2015. In questa regione, però, è salita anche la Lega, oggi al 21,8 per cento rispetto al 16,2 per cento di cinque anni fa. Sono invece calati il Pd, Forza Italia e il M5s.
In Veneto, rispetto al 2015, sono scesi in termini percentuali tutti i principali partiti in Parlamento, tranne Fratelli d’Italia, passato da un 2,6 per cento a un 9,6 per cento.
Il partito di Meloni è salito nei consensi anche in Campania (dal 5,5 per cento del 2015 al 6 per cento di oggi), unico partito principale con questo trend.
Infine ci sono le Marche, dove ha vinto il candidato di Fratelli d’Italia Francesco Acquaroli. Qui il partito di Meloni è stato il secondo della coalizione di centrodestra, con il 18,7 per cento, in aumento rispetto al 6,5 per cento del 2015. Anche la Lega ha visto crescere i suoi consensi, passando da un 13 per cento a un 22,4 per cento, mentre Pd, M5s e Forza Italia sono calati.
Italia vs Cina: il prosecco e la sfida sui siti patrimonio dell’Unesco
Luca Zaia (Lega): «[La mia amministrazione è quella] dell’ottavo sito patrimonio dell’umanità, che permette all’Italia di avere ancora un sito in più rispetto ai cinesi e quindi essere ancora il primo Paese per siti Unesco, con il sito delle colline del Prosecco» (min. 44:08)
Ospite alla maratona di Enrico Mentana su La7, il presidente riconfermato del Veneto Luca Zaia ha esagerato l’importanza “numerica” dell’inserimento delle Colline del prosecco di Conegliano e Valdobbiadene tra i siti patrimonio dell’umanità Unesco, avvenuto nel 2019.
Non è vero infatti che grazie alle Colline del prosecco l’Italia ha un sito Unesco in più rispetto alla Cina. Secondo il database ufficiale dell’agenzia delle Nazioni unite, il nostro Paese ha 55 siti patrimonio dell’umanità, ma il primo posto in classifica è condiviso proprio con la Cina, anch’essa con 55 siti in lista.
Prima dell’ingresso tra i siti delle Colline del Prosecco, l’Italia batteva la Cina 54 a 53, ma nel 2019 la Cina si è vista aggiungere due siti patrimonio, mentre il nostro Paese solo uno. Grazie al prosecco, il sorpasso è stato sventato, ma il primato in solitaria è andato comunque perso.
La vittoria del centrodestra in Liguria è un record?
Giovanni Toti (Cambiamo!): «Quello che si profila stando alle proiezioni è sicuramente il più importante successo che il centrodestra abbia mai avuto in questa regione nell’intera sua storia» (min. 10:21)
Il presidente riconfermato Toti, nel celebrare la sua vittoria, ha ragione solo a metà: il suo successo è «il più importante» del centrodestra in Liguria se si guarda alle percentuali, ma le cose cambiano considerando i voti in termini assoluti.
Il 56,1 per cento dei consensi preso il 20 e 21 settembre dalla coalizione di centrodestra in Liguria è in effetti un record. Nella vittoria di Toti del 2015, la percentuale era stata del 34,5 per cento, mentre nel 2000 Sandro Biasotti (Polo delle Libertà) prese il 50,7 per cento nella prima storica vittoria del centrodestra in Liguria. Nel 2010 e nel 2005 aveva vinto, in entrambe le occasioni, il centrosinistra con Claudio Burlando.
I 383.053 voti presi dal centrodestra di Toti in queste elezioni regionali non sono però un primato: se il presidente ligure ha battuto la sua precedente prestazione – nel 2015 raggiunse 226.710 voti – non è riuscito a ottenere più voti di quelli raccolti nel 2000 dalla coalizione di Biasotti, che ottenne 475.308 voti.
Il Pd è il «primo partito», ma in quattro regioni su sette
Emanuele Felice (Partito democratico): «Oggi, grazie alla segreteria di Nicola Zingaretti, siamo il primo partito»
Il responsabile economico del Pd, nel celebrare i risultati alle regionali del suo partito, dice una cosa più o meno corretta a seconda se si guarda ai voti percentuali nelle varie regioni o a quelli totali.
Il Pd è infatti «primo partito» in quattro regioni su sette andate al voto: in Campania (16,9 per cento), in Toscana (34,7 per cento), in Puglia (17,5 per cento) e nelle Marche (25,1 per cento), ma come abbiamo visto prima è calato in ognuna di queste regioni rispetto alle precedenti regionali.
In Liguria il primo partito è invece Cambiamo! di Toti, con il 22,6 per cento, davanti al Pd con il 19,9 per cento, mentre in Veneto il Pd è il terzo (11,9 per cento), dietro alla lista del presidente Zaia (44,6 per cento) e alla Lega (16,9 per cento).
Se si guarda ai voti in valori assoluti, sommando i risultati delle sei regioni, il Pd ha preso oltre un milione e 774 mila preferenze, più di tutti. Al secondo posto c’è la Lega, con quasi un milione e 240 mila e al terzo posto Fratelli d’Italia, con quasi 951 mila.
Alle ore 15 del 22 settembre mancano ancora i dati definitivi della Valle d’Aosta.
No, Italia Viva non è stata così «significativa» in Toscana e Campania
Elena Bonetti (Italia Viva): «Italia Viva ha contribuito in modo significativo al governo della Campania e della Toscana con due bravi governatori, che abbiamo convintamente sostenuto»
Secondo la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, il suo partito ha contribuito «in modo significativo» alle vittorie del centrosinistra in Toscana e Campania, ma i numeri le danno ragione solo in parte.
Anche senza il 7,4 per cento di Italia Viva, Vincenzo De Luca avrebbe comunque vinto in Campania, avendo staccato lo sfidante del centrodestra Stefano Caldoro di oltre 50 punti percentuali.
In Toscana, il 5,5 per cento di Italia Viva (in lista con +Europa) è stato comunque meno del distacco dalla seconda arrivata: il vincitore Eugenio Giani ha infatti preso l’8,2 per cento in più di Susanna Ceccardi della Lega.
La vittoria del sì al referendum
Il confronto con gli altri Paesi dopo il taglio
Luigi Di Maio (Movimento 5 stelle): «Da oggi in Italia il numero di parlamentari eletti torna in linea con quello di tutte le grandi democrazie occidentali» (min. 1:57)
Oggi l’Italia ha 945 parlamentari (senza contare i senatori a vita), ossia circa uno ogni 64 mila abitanti. Con la riduzione a 600 parlamentari – che entrerà in vigore con la prossima legislatura – il rapporto scenderà a uno ogni 101 mila abitanti.
Questi due dati, in valori assoluti e in rapporto alla popolazione, sono «in linea» con quello degli altri grandi Paesi europei, come sostiene l’ex capo politico del M5s Di Maio? La risposta è “dipende”, in base a quale dato si guarda.
Come abbiamo spiegato di recente, con 600 parlamentari l’Italia avrà il numero più basso tra i cinque grandi Paesi europei, dietro a Spagna (616), Germania (778), Francia (925) e Regno Unito (1.441). In confronto alla popolazione, invece, il rapporto 1/101 mila sarà il secondo più alto tra i grandi Paesi europei, davanti alla Germania (1/106 mila), ma dietro a Regno Unito (1/46 mila), Francia (1/73 mila) e Spagna (1/76 mila).
Le classifiche cambiano però se si guarda solo al numero dei parlamentari eletti direttamente.
Con un parlamentare eletto direttamente ogni 101 mila abitanti, l’Italia avrebbe il secondo rapporto più basso, dietro a Spagna (1/84 mila), ma davanti a Regno Unito (1/102 mila), Francia (1/116,5 mila) e Germania (1/117 mila). Se guardiamo al numero dei parlamentari eletti direttamente in valore assoluto, con il taglio l’Italia passerà dalla prima posizione alla terza. Viene cioè scavalcata da Germania, il cui Bundestag è attualmente composto da 709 deputati, e dal Regno Unito, la cui House of Commons è composta da 650 membri.
Ricapitolando: con il taglio dei parlamentari l’Italia avrà un numero di senatori e deputati più o meno in linea con gli altri grandi Paesi europei se si guarda al rapporto tra singolo abitante e parlamentari eletti direttamente.
Ma questi confronti vanno comunque maneggiati con cautela: al di là dell’elezione diretta o meno, deputati e senatori nei vari Paesi hanno compiti molto diversi tra loro. Basti pensare che l’Italia è l’unico grande Paese europeo dove vige un bicameralismo perfetto e in cui entrambi i rami del Parlamento devono dare la fiducia al governo.
Come erano andati gli scorsi referendum
Danilo Toninelli (Movimento 5 stelle): «Credetemi, non è un passaggio normale, è un passaggio storico […] se pensate ai referendum di Berlusconi del 2006 e di Renzi del 2016, sonoramente bocciati dai cittadini» (min. 0:15)
L’ex ministro delle Infrastrutture, in un video su Facebook, riporta correttamente i risultati dei due precedenti referendum costituzionali (che prevedevano però riforme ben più ampie rispetto al solo taglio dei parlamentari), ma si dimentica di citare una precedente vittoria dei sì.
Nel 2016 la riforma costituzionale voluta dal governo di Matteo Renzi fu bocciata con il 59,1 per cento dei no, mentre nel 2006 la riforma voluta dall’allora governo di Silvio Berlusconi venne respinta con il 61,3 per cento dei no.
Nel 2001 però i sì vinsero con il 64,1 per cento per confermare la riforma del Titolo V della Costituzione italiana, quello che regola i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali.
Quello del 20 e 21 settembre è stato il quarto referendum costituzionale confermativo del nostro Paese, e il secondo in cui hanno vinto i sì, a distanza di quasi vent’anni dal primo.
No, il Parlamento non è delegittimato
Riccardo Molinari (Lega): «Ora la logica conseguenza sarebbe che si sciogliessero le Camere per sperimentare finalmente l’efficienza conquistata con la riforma, anche perché, sarebbe strano avere un Parlamento non in linea con la Costituzione nella sua composizione e ancora più strano pensare che un Parlamento sfiduciato dai cittadini possa scegliere il prossimo Presidente della Repubblica»
Come abbiamo spiegato nel dettaglio in un’altra analisi, il commento arrivato dal capogruppo della Lega alla Camera Molinari è condiviso anche da diversi esponenti dell’opposizione, ma è privo di un fondamento normativo e costituzionale.
Al di là del legittimo giudizio politico, infatti, gli effetti del taglio dei parlamentari entreranno in vigore dalla prossima legislatura e la Costituzione non prevede lo scioglimento anticipato delle Camere in caso di sua riforma.
Diversi esperti in materia sono poi concordi nel dire che il Parlamento è a tutti gli effetti legittimato nel continuare le sue attività. Inoltre, se si andasse subito al voto e si votasse prima di 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge costituzionale, si avrebbe il paradosso di eleggere di nuovo un Parlamento composto da 945 membri.
– Leggi anche: Ma quindi dopo la vittoria dei “Sì” al referendum si dovrebbe sciogliere il Parlamento?
In conclusione
Abbiamo verificato 11 dichiarazioni di politici sul voto del 20 e 21 settembre e alcuni hanno commesso qualche errore. Partiamo dalle regionali.
Il primo errore è quello del segretario del Pd Nicola Zingaretti, secondo cui «l’alleanza di governo probabilmente avrebbe vinto quasi in tutte le regioni italiane» se si fosse presentata unita. Le cose non stanno così: nell’unica regione in cui Pd e M5s si sono presentati uniti, la maggioranza di governo ha perso; e dove il Pd ha perso, avrebbe perso anche sommando i voti del M5s.
La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha invece ragione quando dice che il suo partito è l’unico a essere cresciuto in «tutte le regioni al voto», rispetto alle regionali di cinque anni fa, mentre il presidente rieletto della Liguria Giovanni Toti (Cambiamo!) ha ragione a metà quando dice che la sua vittoria è il successo «più importante» del centrodestra nella storia della regione. In valori percentuali, è vero che il 56,1 per cento di Toti è un record, ma nel 2000 Sandro Biasotti prese più consensi in valori assoluti.
Il segretario della Lega Matteo Salvini è leggermente impreciso, ma ha sostanzialmente ragione quando dice che il centrodestra governa in 15 regioni su 20; in realtà sono 13, a cui va aggiunta la Provincia autonoma di Trento. A Bolzano la Lega è alleata con il partito autonomista che governa la provincia. Il responsabile economico del Pd Emanuele Felice ha poi ragione nel sostenere che il Pd è il «primo partito» se si guarda al totale dei voti raccolti dai vari partiti. A livello regionale invece il Pd è il primo partito in quattro regioni su sei (mancano ancora i dati della Val d’Aosta).
Il rieletto presidente del Veneto Luca Zaia sbaglia quando sostiene che grazie alle Colline del prosecco patrimonio dell’umanità siamo avanti di un sito rispetto alla Cina nella classifica Unesco. In realtà siamo 55 pari.
Infine, la ministra Elena Bonetti esagera nel valorizzare il contributo di Italia Viva nelle vittorie di De Luca in Campania e Giani in Toscana: anche senza i voti del suo partito, i due candidati avrebbero vinto comunque.
Passiamo ora al referendum. Con il taglio a 600 parlamentari, l’Italia sarà «in linea» con gli altri grandi Paesi occidentali, come ha detto l’ex capo politico del M5s Luigi Di Maio, se si guarda al rapporto tra abitanti e parlamentari eletti direttamente. L’ex ministro Danilo Toninelli ha ragione quando dice che nel 2016 e nel 2006 vinsero i no ai referendum costituzionali, ma si dimentica di citare la vittoria dei sì nel 2001. In totale, su quattro referendum costituzionali confermativi, due volte hanno vinto i no, e due volte i sì.
Infine, l’opposizione esagera nel sostenere, come fatto ad esempio dal leghista Riccardo Molinari, che il Parlamento ora sia delegittimato vista la vittoria del taglio dei parlamentari. Questo è un giudizio esclusivamente politico, dal momento che lo scioglimento delle Camere dopo il successo dei sì non ha fondamento né normativo né costituzionale.
Giustizia
Tutti ne parlano, ma sulla violenza contro le donne mancano ancora troppi dati