Il 20 e 21 settembre i cittadini saranno chiamati a votare al referendum costituzionale confermativo, quindi senza quorum, sul taglio dei parlamentari. La misura prevede una riduzione del numero dei deputati dagli attuali 630 a 400, e i senatori da 315 a 200.
Non è la prima volta che in Italia si parla di ridurre il numero dei parlamentari: già nelle scorse legislature diversi governi hanno avanzato proposte in questo senso, tutte però naufragate per diversi motivi. Vediamo quindi di ripercorrere brevemente come sono andate le cose fino ad ora.
I numeri attuali
Gli articoli 56 e 57 della nostra Costituzione fissano in 630 il numero di senatori e in 315 il numero di deputati che siedono in Parlamento, tutti eletti direttamente dai cittadini e con un mandato di cinque anni. Abbiamo quindi un totale di 945 parlamentari, a cui si aggiungono i senatori a vita nominati e i senatori a vita di diritto, cioè gli ex Presidenti della Repubblica.
Il Parlamento è composto così dalla riforma del 1963. In precedenza la Costituzione stabiliva che il numero di parlamentari dipendesse dalla popolazione del Paese: i deputati erano 1 ogni 80 mila abitanti (art. 56), e i senatori – che inoltre restavano in carica per sei anni invece che cinque – 1 ogni 200 mila (art. 57).
– Leggi anche: Referendum: che cos’è la rappresentanza e come cambia con il taglio dei parlamentari?
Oggi il rapporto – non fissato per legge, ma che deriva dal numero fisso di parlamentari stabilito in Costituzione e dalla popolazione – è di 1 deputato ogni 96 mila abitanti, e 1 senatore ogni 191 mila.
Le proposte di modifica
A partire dagli anni ‘80 diversi governi hanno provato a ridurre il numero dei parlamentari. I principali tentativi sono riassunti in un dossier del Parlamento diffuso a ottobre 2019, poco prima della pubblicazione in Gazzetta ufficiale dell’attuale proposta di riforma.
Partiamo da quelli che sono falliti a causa del voto contrario dei cittadini nei relativi referendum confermativi.
Il referendum del 2006
Nel giugno 2006, poco dopo l’inizio del governo Prodi II, i cittadini furono chiamati a votare, tramite un referendum costituzionale, la proposta di modifica alla Costituzione approvata pochi mesi prima dalla maggioranza parlamentare che sosteneva il governo Berlusconi III.
La riforma fu quindi fortemente sostenuta dal centrodestra, mentre il centrosinistra fece campagna a favore del “No”. La proposta prevedeva, tra le altre cose, la riduzione dei senatori a 232 e dei deputati a 518, per un totale di 750 parlamentari, e la fine del “bicameralismo perfetto”.
Al referendum vinse il “No” con il 61,3 per cento dei voti, e la riforma costituzionale quindi non entrò mai in vigore.
Il referendum del 2016
Un secondo importante tentativo di modifica della Costituzione, e della composizione del Parlamento, bocciato dagli elettori al referendum confermativo è arrivato 10 anni dopo, durante il governo Renzi.
La riforma – su cui si era cominciato a lavorare già nel 2013 – prevedeva che il numero dei deputati restasse fermo a 630, mentre i membri del Senato sarebbero stati ridotti a 95, eletti non direttamente dai cittadini ma dai dai Consigli regionali o provinciali autonomi. La durata del mandato dei senatori inoltre non sarebbe stata fissa, ma avrebbe coinciso con quella degli organi delle istituzioni territoriali che li eleggevano.
Al referedum del 4 dicembre 2016 il 59 per cento dei votanti scelse il “No”, facendo restare invariata la Costituzione e causando, tra le altre cose, le dimissioni dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi che aveva legato il suo incarico all’esito del voto.
Gli altri tentativi
Nel corso degli anni sono stati proposti altri progetti di riforma costituzionale mirati a ridurre il numero dei parlamentari ma, per diversi motivi, non sono mai stati approvati definitivamente dal Parlamento e poi sottoposti a referendum confermativo.
Questo è il caso, in particolare, dei lavori di tre commissioni bicamerali per le riforme istituzionali, istituite proprio per proporre modifiche alla Costituzione. La prima, la cosiddetta “commissione Bozzi” del 1983, esaminò alcune proposte di riduzione dei parlamentari – ad esempio il taglio di deputati e senatori rispettivamente a 514 e 282 – senza però formalizzarne nessuna. Nemmeno la seconda commissione, istituita nel ‘92, presentò un progetto concreto. La terza, nata nel ‘97 e presieduta dal futuro presidente del Consiglio Massimo d’Alema, stava invece esaminando un progetto che prevedeva un Parlamento composto da 200 senatori e tra 400 e 500 deputati, ma anche questo non andò in porto.
Nel 2007 la commissione Affari costituzionali della Camera approvò poi un testo, detto “bozza Violante” dall’allora presidente Luciano Violante, che prevedeva l’elezione diretta da parte dei cittadini di 512 deputati (gli unici inoltre a poter votare la fiducia al governo) e quella indiretta – da parte dei consigli regionali – di 186 senatori. Anche questo progetto però non ebbe seguito dopo la fine della legislatura.
L’anno successivo il senatore del Partito democratico Luigi Zanda presentò un disegno di legge costituzionale che voleva ridurre a 400 il numero dei deputati e a 200 quello dei senatori (come abbiamo scritto, gli stessi numeri della riforma che verrà sottoposta a referendum il 20 e 21 settembre 2020). L’iter della proposta però non è mai proseguito.
Infine, nel 2012 il Senato ha approvato una riduzione dei deputati a 508 e dei senatori a 250, ma la riforma non ha avuto seguito dopo fine della legislatura.
In conclusione
Il 20 e 21 settembre i cittadini italiani potranno votare, tramite un referendum costituzionale confermativo, una proposta di legge che ridurrebbe il numero dei deputati da 630 a 400, e quello dei senatori da 315 a 200.
Non è la prima volta che in Italia si discute di questo argomento: fin dagli anni ‘80 sono state fatte diverse proposte in merito, ma nessuna si è mai concretizzata. Due riforme costituzionali, del 2006 e del 2016, che avevano un oggetto molto ampio e che prevedevano – tra le altre cose – una riduzione del numero dei parlamentari, furono bocciate dagli elettori nei relativi referendum confermativi.
Altri progetti di riduzione, avanzati nelle commissioni o anche approvati (parzialmente) dal Parlamento, si sono susseguiti nel corso degli anni ma non sono mai stati approvati definitivamente da Camera e Senato e poi sottoposti a referendum confermativo.
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