Il 30 aprile i presidenti delle 13 regioni governate da coalizioni di centrodestra hanno inviato un documento al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro degli Affari regionali Francesco Boccia per chiedere maggiore autonomia in vista della cosiddetta “Fase 2” dell’emergenza coronavirus, che inizierà il prossimo 4 maggio.

Lo stesso giorno, durante un’informativa alla Camera, Conte ha dichiarato che «l’introduzione di misure meno restrittive di quelle disposte su base nazionale non sono possibili» e che sono «da considerarsi, a tutti gli effetti di legge, illegittime».

Conte fa riferimento ad alcune iniziative prese a livello regionale. Il 29 aprile, ad esempio, la presidente della Regione Calabria Jole Santelli (centrodestra) ha firmato un’ordinanza per permettere, dal giorno seguente, la riapertura di attività come bar e ristoranti, prevista invece a livello nazionale solo a partire dal 1° giugno. Il giorno prima il governatore leghista della Regione Veneto Luca Zaia ha invece autorizzato gli spostamenti verso le seconde case, non consentiti nel resto d’Italia.

Anche il ministro Boccia ha annunciato che lo Stato è pronto a impugnare davanti «al Tar o alla Consulta» eventuali ordinanze regionali «non coerenti» con il decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) dello scorso 26 aprile sulle regole per la Fase 2.

In generale, con la riduzione dell’epidemia da coronavirus, alcune regioni vogliono rendere meno stringenti le disposizioni previste dal governo a livello nazionale. Uno scenario inverso rispetto a quanto accaduto all’inizio e durante l’emergenza, quando diverse regioni hanno introdotto singoli provvedimenti per rendere più stringenti le misure via via approvate dall’esecutivo Conte.

Per esempio, la Regione Veneto del leghista Luca Zaia ora è favorevole a una riapertura più veloce, mentre a inizio epidemia era per una chiusura totale più veloce rispetto a quanto deciso dal governo.

In questa nuova Fase 2, dunque, quali sono i poteri delle regioni? Possono ora approvare provvedimenti che vanno contro quanto stabilito a livello centrale, o no?

Come vedremo meglio, le risposte a queste domande dipendono da una serie di fattori. Da un lato, il rapporto tra Stato e regioni è da decenni oggetto di dibattito nel nostro Paese – e di riforme costituzionali. Dall’altro lato, è la prima volta che il nostro Paese, e il suo sistema normativo, si trovano ad affrontare un’emergenza di questo tipo, sollevando domande su cui anche i costituzionalisti si stanno dividendo.

Ricostruiamo prima di tutto quanto è successo nelle ultime settimane tra Stato e regioni, per poi vedere più nel dettaglio quanto sarebbero legittimi interventi locali presi in autonomia rispetto alle disposizioni nazionali.

Stato e regioni, alla prova del nuovo coronavirus

Lo scontro tra Stato e regioni, durante questa emergenza coronavirus, ruota intorno il decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020, convertito in legge dal Parlamento il 5 marzo. Questo decreto, all’articolo 3, ha autorizzato Conte a introdurre con i decreti del presidente del Consiglio (Dpcm) l’attuazione a livello nazionale delle varie misure di contenimento per il coronavirus.

Un Dpcm deve avere alla propria base delle leggi (o dei decreti-legge) ma non necessita di approvazione parlamentare. Formalmente quindi è uno strumento legislativo con cui si decidono nel dettaglio alcune cose già contenute in linea generale in leggi approvate dal Parlamento o in decreti-legge (che devono essere convertiti in legge dal Parlamento entro 60 giorni).

Sulla base del decreto del 23 febbraio, quindi, Conte ha disposto nelle settimane successive diverse misure attraverso il solo ricorso dei Dpcm, uno strumento molto contestato dalle opposizioni e su cui i costituzionalisti hanno espresso pareri discordanti, come abbiamo spiegato di recente.

Lo stesso decreto-legge del 23 febbraio ha però stabilito (art. 3) che le misure di contenimento adottate via Dpcm dovessero richiedere il parere dei Presidenti delle regioni competenti («nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni») oppure il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni («nel caso in cui riguardino il territorio nazionale»), oltre a quelle dei singoli ministeri.

I primi scontri tra Stato e Regioni

Dopo la creazione delle due “zone rosse” in alcuni comuni del Lodigiano e a Vo’, in Veneto, sono però nati i primi problemi di intervento tra Stato e regioni.

Il 25 febbraio infatti il presidente della Regione Marche Luca Cerisioli (centrosinistra) ha firmato un’ordinanza per chiudere scuole e università, andando in una direzione più restrittiva rispetto a quanto previsto a livello nazionale e attirando già all’epoca le critiche del ministro Boccia.

Dopo un ricorso presentato dal governo, il 27 febbraio il Tar delle Marche, con un decreto urgente, aveva disposto la riapertura degli istituti scolastici (chiusi poi il 4 marzo in tutto il Paese).

Nelle settimane successive – dopo l’approvazione del Dpcm dell’8 marzo, che introduceva il lockdown a livello nazionale, e quello del 22 marzo, per la chiusura delle attività produttive – diverse regioni, di entrambi gli schieramenti, hanno introdotto con singole ordinanze misure più stringenti rispetto a quelle previste su base nazionale (come per esempio la Regione Lombardia del leghista Attilio Fontana o la Regione Campania governata dal centrosinistra con Vincenzo De Luca).

Per fare fronte a questa situazione di incertezza, il decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020 (al momento all’esame del Senato) ha cercato di fare un po’ chiarezza sulla questione, stabilendo (art. 3) che «le regioni […] possono introdurre misure ulteriormente restrittive» rispetto a quelle imposte dal governo, se si verificano «specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario».

Questo può essere fatto «esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale», oltre che nel rispetto degli intervalli di tempo regolati dai singoli decreti del presidente del Consiglio.

Il decreto del 25 marzo 2020 è stato citato dallo stesso Conte durante la sua informativa in Parlamento del 30 aprile per giustificare la sua dichiarazione (e la posizione del governo) secondo cui le ordinanze regionali approvate nella direzione di allentare le misure stabilite a livello nazionale sarebbero «illegittime».

In questi giorni c’è una nuova fase dello scontro tra lo Stato, che vuole fare rispettare le disposizioni nazionali a partire dal 4 maggio, e le regioni, che chiedono più autonomia decisionale.

Vediamo qual è lo scenario che si sta configurando.

Che cosa succede adesso?

«In condizioni di normalità il rapporto fra Stato e Regioni si muove in un quadro costituzionale (integrato da legislazione, prassi e giurisprudenza costituzionale) che, se lascia agli organi dei due livelli di governo margini di movimento adattabili alle diverse situazioni concrete, prevede una divisione dei ruoli abbastanza chiara», ha scritto il 10 aprile sul Quotidiano giuridico Marco Olivetti, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università Lumsa di Roma.

Da un lato, in materia di salute e sanità, lo Stato stabilisce dei principi fondamentali che tutte le regioni devono rispettare; dall’altro lato, però, le istituzioni regionali possono adottare strutture organizzative diverse e in autonomia rispetto a quanto stabilito a livello centrale.

Come abbiamo già sottolineato, però, siamo di fronte a una situazione di emergenza e senza precedenti, che solleva problemi di competenza tra autorità centrali e quelle locali.

Secondo Antonio Bartolini, professore ordinario di Diritto amministrativo all’Università di Perugia, il decreto del 25 marzo 2020 è chiaro nel non consentire alle regioni di approvare ordinanze locali per alleggerire le misure di contenimento.

«Non vi è dubbio che le ordinanze regionali siano illegittime quando […] non adottino misure ulteriormente restrittive, ma misure volte ad affievolire le misure del Dpcm», ha detto Bartolini il 23 aprile, in un’intervista a Giustizia insieme, un portale online dedicato alla divulgazione giuridica. «Il campo del potere di ordinanza è, infatti, chiaramente delimitato dal decreto-legge», sulla base dei limiti visti prima.

Che cosa succede dunque se in questa nuova fase dell’emergenza una regione approva un’ordinanza che il governo centrale ritiene illegittima, dal momento che va contro quanto stabilito a livello nazionale?

Il governo – ha spiegato Bartolini – «ha, sempre, la possibilità di chiedere al giudice amministrativo la sospensione e l’annullamento delle ordinanze regionali illegittime», come è avvenuto a fine febbraio per la chiusura delle scuole nelle Marche.

«Se ci sono ordinanze non coerenti invio una diffida, una lettera con la scheda indicando le parti incoerenti e la richiesta di rimuoverle (solo in caso di allentamento delle misure)», ha detto il 29 aprile in videoconferenza con le regioni il ministro Boccia, ribadendo dunque l’arma in mano all’esecutivo per “bloccare” decisioni autonome delle regioni (come quella della Calabria sulla riapertura anticipata di bar e ristoranti). «Se non avviene sarò costretto a ricorrere all’impugnativa al Tar o alla Consulta».

Il 30 aprile lo stesso Boccia ha ribadito in un’intervista al Corriere della Sera la posizione del governo, commentando la decisione del presidente leghista della Regione Veneto Luca Zaia che due giorni fa ha autorizzato gli spostamenti verso le seconde case.

«Impugnare le ordinanze è l’ultima ratio sulla base della Costituzione. Tutto qui», ha detto Boccia. «Ma per il bene della nazione invito i presidenti delle Regioni a seguire ciò che dico a me stesso, unità, serietà, responsabilità».

Nell’eventualità di un ricorso ai tribunali amministrativi o alla Corte costituzionale, toccherà ovviamente ai giudici decidere caso per caso chi dovesse avere ragione o meno.

Ricordiamo poi che in base al Dpcm approvato il 26 aprile, a partire dal prossimo 4 maggio entreranno in vigore le indicazioni per la “Fase 2”, che prevedono ulteriori poteri di sorveglianza per le singole regioni.

Quest’ultime (in base all’art. 2, co. 10 del Dpcm) dovranno «tempestivamente» proporre al Ministero della Salute nuove misure restrittive «necessarie e urgenti» nei casi in cui dal monitoraggio quotidiano sull’epidemia «emerga un aggravamento del rischio sanitario». Un articolato diagramma descrive nel decreto i vari passaggi che le regioni dovranno seguire se si dovesse verificare una situazione simile.

Non è dunque da escludere la possibilità che nelle prossime settimane, in caso di un nuovo peggioramento dell’emergenza, alcune regioni possano introdurre misure più restrittive rispetto a quelle imposte dal governo. In questo caso però sarebbero supportate dai provvedimenti già approvati dall’esecutivo e dal Dpcm sulla prossima “Fase 2”.

In ogni caso, il rischio di confusione resta alto.

Provvedimenti contraddittori tra Stato e regioni sembrano pregiudicare infatti «gravemente l’esigenza di una conduzione unitaria dell’emergenza» e «quella di chiarezza e comprensibilità delle norme, specie in un momento come questo, in cui i cittadini hanno bisogno di certezza», come ha sottolineato il 10 aprile Massimo Luciani, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma, in un approfondimento pubblicato sulla Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti.

In conclusione

Con lo scoppio dell’epidemia da nuovo coronavirus, è nata – per così dire – un’emergenza nell’emergenza: ossia la necessità di delimitare con chiarezza non solo quali poteri ha il governo da un punto di vista normativo per gestire una crisi senza precedenti, ma quali poteri hanno le singole regioni per andare in una direzione opposta rispetto a quanto deciso a livello centrale.

Da decenni si discute di divisione di competenze tra Stato e regioni in termini di salute, e non solo, ma questa nuova epidemia ha allargato lo scontro anche ad altri ambiti, come quello delle attività produttive.

A inizio emergenza, e nelle settimane successive, il primo problema è stato che alcune regioni hanno voluto introdurre misure più restrittive rispetto a quelle decise dal governo. Questa scelta ha creato un po’ di confusione, ma un decreto di fine marzo ha cercato di chiarire che le singole autorità regionali possono approvare ordinanze più restrittive in caso di un peggioramento del contagio a livello locale.

Questa possibilità è stata ribadita e integrata con nuove disposizioni con il Dpcm del 26 aprile, che introduce le novità previste per la Fase 2, in partenza dal prossimo 4 maggio.

Il problema ora sono le regioni che decidono di allentare le disposizioni appena approvate dal governo. Quest’ultimo ha già annunciato che le ritiene «illegittime», per bocca del presidente del Consiglio Conte, e le sue dichiarazioni sono supportate, anche secondo gli esperti, in base a quanto stabilito dal decreto-legge di fine marzo.

Come ha ribadito anche il ministro Boccia, lo Stato ha a disposizione la possibilità di fare ricorso di fronte al Tar o alla Corte costituzionale nel caso in cui alcune regioni agissero con più autonomia, in contraddizione con le linee nazionali.

Ma in questo caso spetterà ai giudici decidere se bloccare o meno quanto deciso dalle singole regioni, come avvenuto a fine febbraio con la chiusura – e immediata riapertura – delle scuole nelle Marche.