Secondo i dati più aggiornati dell’Osservatorio precariato dell’Inps, tra novembre 2018 e ottobre 2019 le trasformazioni a tempo indeterminato di rapporti a termine
sono stati in totale oltre 722.400. Queste trasformazioni, secondo il M5s, sarebbero state incentivate dal “decreto Dignità”, ma bisogna sottolineare che il passaggio da un contratto a tempo determinato a tempo indeterminato
non aumenta l’occupazione.
In ogni caso, la percentuale dei dipendenti con un contratto a termine sul totale degli occupati è rimasto pressoché invariata tra novembre 2018-2019 (
13,21 per cento) e novembre 2017-2018 (
13,20 per cento), segno che un significativo cambio di passo non c’è stato.
In generale, uno dei problemi di questi numeri è che
dicono qualcosa sulla quantità dell’occupazione – ma non abbastanza – e molto poco sulla sua qualità che, come suggerisce anche il nome stesso del “decreto Dignità”, è l’aspetto principale del mercato del lavoro su cui vuole incidere il provvedimento voluto dal M5s.
Per esempio, come
ha scritto a luglio 2019 su
lavoce.info il ricercatore dell’Ocse Andrea Garnero, l’Italia è ancora lontana dai livelli pre-crisi per quanto riguarda il numero di ore lavorate («il tempo parziale involontario è raddoppiato nei dieci anni passati dall’inizio della crisi», ha sottolineato Garnero) e la crescita dei salari, che «come la produttività del lavoro, rimangono al palo».
Ricapitolando: è possibile, secondo il parere di alcuni esperti, che il “decreto Dignità” abbia in parte contribuito all’aumento del numero di contratti a tempo indeterminato, ma non nella misura
rivendicata dal M5s. In ogni caso, ancora non sono stati pubblicati studi scientifici che quantifichino una relazione causa-effetto tra questo provvedimento e l’aumento degli occupati.
“Quota 100”
Veniamo adesso all’ultimo dei tre provvedimenti celebrati dal M5s sul
Blog delle Stelle.
“Quota 100”
è stato uno dei provvedimenti di bandiera del governo Lega-M5s, che nel triennio 2019-2021– in via sperimentale – permette ai cittadini con almeno 62 anni di età e 38 anni di contributi di andare in pensione prima, rispetto alla normativa vigente (secondo la quale per il 2019 gli anni minimi per andare in pensione erano circa 67).
In passato, alcuni politici della scorsa maggioranza – come il leader della Lega Matteo Salvini –
avevano difeso la misura dalle
critiche sugli elevati costi per le casse dello Stato, dicendo che in compenso avrebbe creato centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ma le cose, a un anno dall’introduzione del provvedimento, non sono andate per il verso sperato.
Le statistiche Inps più aggiornate
dicono che al 21 novembre 2019 avevano fatto domanda di pensione anticipata poco più di 205.200 persone, ma non sono riportati i dati sulle domande che hanno avuto effettivamente un esito positivo. In un fact-checking di settembre 2019, per calcolare questo numero,
avevamo utilizzato una stima delle domande respinte fatta dal
Centro studi e ricerche di Itinerari previdenziali (realtà che si occupa di ricerca in ambito pensionistico), secondo la quale non veniva accettata una richiesta per “quota 100” su 5.
Se si applica questa percentuale di bocciature al numero totale delle richieste, si ottiene che circa 160 mila persone hanno visto riconosciuta positivamente la loro domanda di “quota 100” (contro le
stime di 290 mila previste dal governo Lega-M5s al momento dell’approvazione del provvedimento).
Anche in questo caso non esistono studi che certifichino un aumento dell’occupazione grazie alle pensioni anticipate, o tassi di sostituzione di uno a uno, anche se esistono delle stime – e delle evidenze empiriche secondo la maggior parte degli economisti, come vedremo meglio – che riducono di molto questa possibilità.
A novembre 2019, l’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro – dell’ordine nazionale dei consulenti del lavoro –
ha per esempio calcolato che dopo sei mesi di applicazione di “quota 100”, alla fine del terzo trimestre del 2019 il ricambio generazionale si sarebbe attestato intorno al 42 per cento: quattro nuovi assunti circa ogni 10 pre-pensionamenti. Il bilancio tra nuovi assunti e cessazioni di contratti di lavoro sarebbe dunque fortemente negativo.
Come
abbiamo spiegato in passato, l’idea – seppur intuitiva – che a ogni pre-pensionamento possa corrispondere un nuovo assunto, secondo la maggioranza degli economisti, non è supportata dai fatti.
La prima ragione è che le forze di lavoro di diversa età non sono omogenee per capacità e vocazioni: le diverse generazioni sono complementari – più che sostituibili – all’interno degli organici.
Il secondo motivo – come
spiega un focus dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) pubblicato ad agosto 2016 – è che una spesa più alta per le pensioni probabilmente si traduce «in maggiori imposte e/o contributi obbligatori, con effetti distorsivi sia sul lato dell’offerta di lavoro sia sul lato della domanda». In sostanza, abbassare l’età pensionabile aumenterebbe le tasse pagate da ogni occupato – inclusi i giovani – e il costo del lavoro, con una conseguente crescita della disoccupazione.
Ricapitolando: ad oggi è impossibile stabilire con certezza quanti nuovi posti di lavoro abbia creato “quota 100”, ma alcune stime e le teorie in ambito economico dicono che non è vero che misure di pre-pensionamento simili portino a una sostituzione di uno a uno. Meno che mai, poi, ad un aumento degli occupati.