Varianti e coronavirus: perché l’Italia è ancora impreparata

Ansa
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In breve:

• Dalla variante inglese a quella sudafricana, diverse mutazioni del coronavirus preoccupano per la loro molto probabile maggiore contagiosità.

• Secondo diversi esperti, l’Italia deve fare di più per monitorare e sequenziare le nuove varianti in circolazione. Al momento, manca per esempio un sistema di sorveglianza attivo come quello presente in altri Paesi (vedi Regno Unito e Danimarca).

• Il Ministero della Salute ha invitato le autorità sanitarie locali a individuare e tracciare meglio i positivi al virus, ma da mesi il sistema è in forte difficoltà. In più, negli ultimi giorni si è chiesto ai laboratori di raccogliere evidenze più precise sulla diffusione delle mutazioni in Italia. Ma gli sforzi restano ancora limitati.



Al di là delle rassicurazioni del governo italiano, il nostro Paese ha ancora molto da fare sul fronte del sequenziamento e del monitoraggio delle varianti del coronavirus Sars-CoV-2, che nelle ultime settimane agitano la comunità scientifica internazionale e diversi Stati, in Europa e non solo.

Che il virus muti è una cosa normalissima: il problema è quando prende direzioni che lo possono rendere, per esempio, più contagioso. Sembra essere questo il caso della variante B.1.1.7 (nota soprattutto con il nome di “variante inglese”) che da dicembre ha preso il sopravvento nel Regno Unito, causando un forte aumento dei contagi e il ritorno del Paese in un lockdown nazionale. Ma anche altre varianti stanno destando non poche preoccupazioni, come quelle provenienti dal Brasile e dal Sudafrica, che si stanno diffondendo in giro per il mondo.

Dal governo sono arrivati inviti alla cautela, misti a ottimismo su quanto messo in campo finora. Il 13 gennaio, in un intervento alla Camera, il ministro delle Salute Roberto Speranza ha per esempio detto che «i nostri scienziati stanno approfondendo» la variante B.1.1.7 «anche grazie al lavoro di sequenziamento che è stato fortemente rafforzato nelle ultime settimane». Il ministro ha anche riportato i dati in crescita dell’epidemia in Italia, contenuti nell’ultimo monitoraggio del Ministero della Salute, senza però indicare un legame con la variante inglese.

Ma siamo davvero preparati a individuare la diffusione della variante inglese nel nostro Paese, e di altre mutazioni, e a intervenire in tempo per fronteggiare conseguenze molto gravi? Abbiamo fatto un po’ di chiarezza e, per il momento, la risposta è che su questo fronte siamo ancora impreparati: rispetto ad altri Paesi, dovremmo fare di più e meglio, visti i rischi e gli inviti arrivati dalle autorità sanitarie internazionali.

Il problema delle varianti

Non c’è nulla di strano o di segreto nel fatto che il coronavirus stia variando: dall’inizio dell’epidemia, sono state individuate dai ricercatori di tutto il mondo centinaia di migliaia di sequenze del Sars-CoV-2 (che accumulano ognuna circa 1-2 mutazioni al mese). Il sequenziamento è quel processo con cui si studia la sequenza, appunto, dei nucleotidi che compongono il genoma del virus.

Nella quasi totalità dei casi queste varianti non hanno conseguenze a livello epidemiologico, ma in rare occasioni possono portare a un virus con caratteristiche differenti. E sembra essere questo il caso della variante B.1.1.7 (chiamata anche Vui-202012/01), i cui primi casi sono stati individuati alla fine di settembre 2020 nel Regno Unito, per poi diffondersi a macchia d’olio nei mesi successivi (anche in altri Paesi, come Irlanda e Danimarca).
Grafico 1. La crescita dei contagi nel Regno Unito e in Irlanda – Fonte: Our world in data
Grafico 1. La crescita dei contagi nel Regno Unito e in Irlanda – Fonte: Our world in data
La particolarità di questa variante, rispetto ad altre studiate finora, è quella di avere un numero molto alto e inusuale di mutazioni, che ha fatto ipotizzare abbia avuto origine in un paziente immunodepresso trattato con il plasma. Se al momento questa variante non sembra causare forme di Covid-19 più gravi, è ormai dato per quasi certo che sia più contagiosa (circa il 50 per cento in più) rispetto alle altre varianti di Sars-CoV-2 in circolazione, in particolare tra i giovani.

La variante insomma, a parità di condizioni e di misure di contenimento, è in grado di diffondersi con maggiore facilità. Ciò ha gravi conseguenze nella gestione dell’epidemia (anche maggiori rispetto a una variante più letale). Con il rischio di avere un indice Rt di trasmissione del virus più elevato, un aumento sempre più veloce dei contagi e un sovraccarico più repentino delle strutture ospedaliere, con effetti inevitabili sulla mortalità. Di conseguenza, un problema per i governi sarà quello di dover molto probabilmente inasprire le misure di contenimento per ridurre ancora di più la trasmissione del virus.

Come abbiamo anticipato, ci sono anche altre varianti nel mondo che stanno destando preoccupazione. Tra queste, ce n’è una individuata in Sudafrica, che sembra anch’essa essere più contagiosa, e una proveniente dal Brasile; entrambe pongono dubbi da chiarire sull’eventuale efficacia dei vaccini sviluppati finora.

«Il Sars-CoV-2 muta da quando lo abbiamo scoperto, ma le chiusure e le riaperture, i tentativi di cure, i vaccini e altre misure hanno aumentato e aumenteranno la pressione selettiva sul virus, e di conseguenza è cresciuta la probabilità che questo muti ancora di più», ha spiegato a Pagella Politica Antonino Di Caro, oggi docente all’UniCamillus di Roma e fino alla fine del 2020 direttore del Laboratorio di microbiologia all’Istituto Spallanzani di Roma, il laboratorio di riferimento dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in Italia. «Ogni Paese deve dunque chiedersi quanto è preparato nell’individuare le mutazioni che destano maggiore preoccupazione», ha sottolineato Di Caro.

Come ha invitato a fare la stessa Oms lo scorso 12 gennaio, in un incontro con oltre 1.750 scienziati da 124 Paesi del mondo, a livello internazionale bisogna intensificare la ricerca per monitorare la nascita e la diffusione delle varianti del coronavirus. Su questo fronte, com’è messo il nostro Paese?

L’incertezza sulla diffusione delle varianti in Italia

Al momento non è possibile sapere quanto sia diffusa la variante inglese in Italia, nonostante quanto dichiarato di recente da alcuni politici italiani.

Il 9 gennaio, in un’intervista con La Repubblica, il presidente della Regione Veneto Luca Zaia ha sostenuto che la variante inglese «può essere il fattore» dietro ai numeri dei contagi molto alti nella sua regione. Secondo il microbiologo Andrea Crisanti, intervistato il giorno dopo da La Repubblica, non ci sarebbero ancora evidenze a supporto di questa ipotesi. Il 12 gennaio, ospite a DiMartedì su La7, l’ex ministro della Salute Pierpaolo Sileri ha invece detto (min. 8:56) che la variante inglese sta circolando «in alcune aree del nostro Paese», anche se non al livello di altri Stati europei, invitando alla cautela.

Secondo i dati di Gisaid – un database internazionale dove vengono depositate le sequenze del coronavirus individuate in tutto il mondo – al 14 gennaio 2021 sono stati individuati nel nostro Paese una trentina di casi di positivi alla variante B.1.1.7. Questo numero non ci dice granché: sì, qualche caso è stato individuato, ma sul totale dei positivi non ne conosciamo la diffusione e neppure una stima a grandi linee, a differenza per esempio di quanto avviene nel Regno Unito.

«I casi di variante inglese trovati in Italia sono stati cercati attivamente, nel senso che facevano riferimento a pazienti che si sapeva avessero un collegamento con il Regno Unito, per esempio perché risultati positivi di ritorno da un viaggio nel Paese», ha sottolineato Di Caro a Pagella Politica. «Questo però non è un campione statisticamente significativo sulla popolazione dei positivi: serve analizzare più campioni, scelti in maniera casuale, provenienti da vari territori italiani».

Qualche novità in questa direzione è arrivata negli ultimi giorni da parte del Ministero della Salute, ma il problema principale però resta a monte: l’assenza in Italia di un sistema attivo di sorveglianza delle varianti come quello presente in altri Paesi del mondo.

L’assenza di un sistema di sorveglianza come quello britannico

Secondo i dati del progetto Covid-Cg – che incrocia i numeri delle sequenze depositate su Gisaid con i contagi dei vari Paesi – ad oggi l’Italia ha depositato 0,7 sequenze ogni mille casi diagnosticati di Covid-19. Poco meglio di noi fanno la Francia, con 1,01 sequenze ogni mille casi, e la Germania (1,37), ma nelle prime posizioni della classifica ci sono nazioni europee con numeri estremamente più alti dei nostri. Il Regno Unito ha 44,9 sequenze ogni mille casi, la Danimarca 133 (Grafico 2).
Grafico 2. Sequenze per mille casi – Fonte: Covid-Cg
Grafico 2. Sequenze per mille casi – Fonte: Covid-Cg
«Questi due Paesi fanno un monitoraggio costante e metodico delle mutazioni del virus: analizzano un numero di sequenze scelte in maniera casuale tra i casi positivi per stimare la diffusione delle diverse varianti nella popolazione», ha spiegato Di Caro a Pagella Politica. «Nel Regno Unito, per le attività di sequenziamento del virus e di monitoraggio della diffusione delle varianti, hanno a disposizione molte più risorse rispetto all’Italia. Inoltre, in base anche alle risorse a disposizione, danno maggiore priorità a queste attività rispetto ad altre».

A marzo 2020 è stato finanziato il lancio del Covid-19 Genomics Uk Consortium (Cog-Uk), per aumentare la capacità di raccogliere, sequenziare e analizzare le varianti del coronavirus che iniziavano a diffondersi nel Paese. Il 20 dicembre 2020 il biologo evoluzionista Andrew Rambaut e colleghi hanno pubblicato le prime analisi sulla variante B.1.1.7 proprio partendo dai raccolti dal Cog-Uk.

«Sulla questione dei sequenziamenti, le differenze tra il Regno Unito e l’Italia sono in primo luogo strutturali, oltre che di risorse», ha spiegato a Pagella Politica Giorgio Gilestro, neurobiologo dell’Imperial College di Londra che si occupa anche di divulgazione sul coronavirus. «Non si può pretendere che dall’oggi al domani si metta in piedi un sistema di sorveglianza come quello britannico, ma si può chiedere al governo: “Perché negli scorsi mesi non si è migliorata la capacità italiana nel monitorare e controllare le varianti?”. Anche prima dei fatti recenti si era ripetuto più volte che questo era un punto su cui si doveva agire».

Si potrebbe obiettare che, nonostante fosse dotato di un sistema all’avanguardia, il Regno Unito è stato comunque travolto da una mutazione del virus. «La variante inglese è stata scoperta a fine settembre, ma quando trovi una sequenza nuova non puoi sapere subito se, per esempio, sarà più contagiosa o meno. Nelle settimane successive gli scienziati britannici, dopo aver raccolto le prime evidenze, avevano messo in guardia il governo dei pericoli, che però ha agito troppo in ritardo», ha sottolineato Gilestro. «Avere un sistema di sorveglianza efficiente non basta, è vero, ma dà sicuramente un grande vantaggio».

Che cosa ha detto il Ministero della Salute

Negli ultimi giorni le autorità italiane hanno introdotto alcune novità per quanto riguarda il monitoraggio delle varianti. Abbiamo visto che un’indicazione a fare di più è arrivata di recente dall’Oms, ma anche dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc). Da un lato, l’Ecdc ha detto che il rischio di diffusione in Europa della variante britannica e di altre mutazioni pericolose è “alto”; dall’altro lato, ha suggerito alcuni accorgimenti tecnici da seguire per monitorare meglio i cambiamenti del virus.

Lo scorso 8 gennaio il Ministero della Salute italiano ha pubblicato una circolare in cui sono contenute alcune indicazioni «operative» per contenere il rischio di diffusione delle varianti nel nostro Paese.

Più tracciamento…

In primo luogo, il Ministero ha «invitato» – una formula abbastanza sfumata, dunque – le autorità sanitarie locali a rafforzare le attività di identificazione dei casi e di tracciamento dei contatti.

Nella pratica, chi è entrato in contatto con un positivo di ritorno dal Regno Unito deve essere subito isolato e devono essere individuate le persone con cui è entrato in contatto. Deve inoltre essere effettuata la «sorveglianza attiva» dei viaggiatori provenienti dal Regno Unito, a prescindere da quale sia l’esito di un test effettuato all’arrivo in Italia. Chi torna dal Regno Unito, deve stare in isolamento ed essere contattato periodicamente dalle autorità sanitarie che ne verificano lo stato di salute.

Questo invito, però, non sembra essere di facile attuazione. Come ha sottolineato lo stesso Ministero della Salute nell’ultimo monitoraggio sull’epidemia in Italia, il livello del contagio nel nostro Paese è ancora così alto da non permettere «il completo ripristino sull’intero territorio nazionale dell’identificazione dei casi e tracciamento dei loro contatti». Già a fine ottobre avevamo verificato come il sistema di tracciamento fosse di fatto saltato in quasi tutto il Paese, mentre di recente è calato di molto il numero di tamponi eseguiti.

…più sequenziamento

In secondo luogo, nella circolare dell’8 gennaio il Ministero della Salute ha «invitato» (stesso termine visto sopra) i laboratori di riferimento – quelli certificati per l’analisi dei casi Covid-19 – a seguire una serie di accorgimenti. Per esempio, non utilizzare test che si sa non essere affidabili con le nuove varianti (perché non rilevano uno dei geni individuati con i tamponi molecolari) ed «eseguire in modo tempestivo il sequenziamento del genoma virale» di casi Covid-19 con una storia di viaggio dai Paesi più a rischio o con sospetta re-infezione da Sars-CoV-2.

Inoltre la circolare ha invitato i laboratori – non obbligato, dunque, da quanto si evince dal testo – a «inviare mensilmente un campione random di tamponi positivi per Sars-CoV-2 all’Istituto superiore di sanità, al fine di identificare mutazioni del virus circolante». Questo, in teoria, dovrebbe permettere di avere un quadro più fedele e statisticamente significativo della diffusione delle varianti di coronavirus nel in Italia.

«Questi sono tutte indicazioni di buon senso, ma che potevano già essere prese dopo il 20 dicembre: avremmo guadagno almeno un paio di settimane», ha spiegato Gilestro a Pagella Politica.

In generale, dunque, sembra che gli sforzi messi in campo siano ancora troppo limitati.

«La mia opinione personale è che dobbiamo implementare maggiormente un sistema di sorveglianza delle varianti, simile, anche se non con tutte le risorse che hanno loro a disposizione, a quello britannico», ha concluso Di Caro. «Qualche tentativo in questa direzione si sta facendo, ma si può sempre fare di più».

Con tutte le cautele del caso, il rischio concreto per l’Italia è quello di ritrovarsi tra alcune settimane nella situazione, per esempio, del Regno Unito, nonostante si avesse avuto modo di agire per tempo. «Questo scenario mi ricorda molto quanto avvenuto con noi a marzo 2020, quando mettevamo in guardia gli altri della gravità del virus», ha commentato Gilestro. «Ora al nostro posto ci sono i britannici, e anche altri Paesi iniziano a essere in una situazione simile. Ora come ora siamo davvero impreparati».

In conclusione

Nelle ultime settimane stanno destando molta preoccupazione alcune varianti del Sars-CoV-2, in particolare la B.1.1.7, che a causa di una maggiore contagiosità ha portato un forte peggioramento dell’epidemia nel Regno Unito.

Al di là delle rassicurazioni del governo, secondo due esperti contattati da Pagella Politica l’Italia è ancora impreparata nel monitoraggio e nel sequenziamento delle varianti del coronavirus. Al momento, non è per esempio possibile stimare quale sia la diffusione della variante B.1.1.7 nel nostro Paese e una delle ragioni principali è che in Italia non c’è un sistema di sorveglianza attivo delle mutazioni come quelli di altri Stati, come il Regno Unito appunto.

Rispetto ad altri Paesi, sequenziamo troppo poco e questo non è un problema soltanto di risorse. Il Ministero della Salute, per il momento, ha invitato le autorità sanitarie locali a rafforzare l’individuazione dei positivi e il sistema di tracciamento dei contatti, entrambi in forte crisi ormai da mesi. Inoltre, il ministero ha chiesto ai laboratori di prendere alcuni accorgimenti e ha messo in piedi un primo e limitato tentativo di monitorare la diffusione delle nuove varianti nel nostro Paese.

Vedremo che cosa succederà nelle prossime settimane, ma i numeri di altri Stati – come Regno Unito e Irlanda – sono tutto fuorché rassicuranti.

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