Negli ultimi giorni, due tra i principali fornitori italiani di servizi di identità digitale hanno annunciato l’introduzione di un canone annuale per continuare a offrire il Sistema pubblico di identità digitale (SPID), usato da milioni di cittadini per accedere ai servizi online della pubblica amministrazione.
A febbraio, Aruba ha annunciato che il suo servizio SPID sarebbe diventato a pagamento a partire dal secondo anno di attivazione, a un costo minimo di 4,90 euro, IVA esclusa. InfoCert ha comunicato che da luglio il proprio SPID costerà 5,98 euro, IVA inclusa ogni anno.
La possibilità per le aziende di servizi tecnologici di chiedere un canone ai cittadini per garantire il Sistema pubblico di identità digitale è prevista dall’accordo tra le singole aziende e l’Agenzia per l’Italia digitale (AgId), l’agenzia tecnica della Presidenza del Consiglio dei ministri che si occupa di innovazione tecnologica nella sfera pubblica e promozione delle competenze digitali in Italia.
Secondo il Sole 24 Ore, dietro la decisione di Aruba e InfoCert di optare per il servizio a pagamento c’è il ritardo da parte dello Stato dell’erogazione ai fornitori di un finanziamento da 40 milioni di euro che il governo Meloni aveva stabilito con un decreto-legge nel 2023, per finanziare i costi di gestione del servizio e non farli ricadere sui cittadini. Il decreto prevedeva che entro 30 giorni dall’entrata in vigore del testo, ossia entro il 22 maggio 2023, la presidenza del Consiglio avrebbe dovuto emanare un altro decreto per ripartire i fondi tra i vari fornitori di SPID. Questo decreto, però, è stato emanato solo a marzo di quest’anno, con quasi due anni di ritardo. A questo proposito, il 7 giugno il direttore generale dell’AgId Mario Nobile ha spiegato che i fondi ai fornitori di SPID «stanno per essere erogati», sottolineando comunque che per i cittadini «è possibile usare la carta d’identità elettronica per accedere gratis a tutti i servizi online».
I cittadini che utilizzano Aruba o InfoCert come identity provider, nel caso in cui non vogliano pagare il servizio, possono cambiare fornitore e fare lo SPID con una qualsiasi delle altre aziende erogatrici del servizio. Tra queste c’è Poste Italiane, che con PosteID detiene circa il 70 per cento delle identità digitali attive. La decisione delle due aziende di passare ai servizi a pagamento potrebbe quindi avere un impatto trascurabile nel breve periodo, ma ha riacceso il dibattito sul tema dell’equità digitale e sul diritto dei cittadini di accedere gratuitamente ai servizi pubblici digitali.
A dicembre 2022 il governo aveva già pensato di chiudere l’identità digitale tramite SPID, favorendo l’utilizzo della carta d’identità elettronica (CIE). All’epoca il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’innovazione digitale, Alessio Butti (Fratelli d’Italia), aveva avanzato una proposta di legge per «spegnere gradualmente lo SPID e avere la carta d’identità elettronica (CIE) come unico strumento di identità elettronica digitale per facilitare la vita degli italiani». La proposta però non ha avuto seguito, anche a causa delle proteste dell’opposizione.
A febbraio, Aruba ha annunciato che il suo servizio SPID sarebbe diventato a pagamento a partire dal secondo anno di attivazione, a un costo minimo di 4,90 euro, IVA esclusa. InfoCert ha comunicato che da luglio il proprio SPID costerà 5,98 euro, IVA inclusa ogni anno.
La possibilità per le aziende di servizi tecnologici di chiedere un canone ai cittadini per garantire il Sistema pubblico di identità digitale è prevista dall’accordo tra le singole aziende e l’Agenzia per l’Italia digitale (AgId), l’agenzia tecnica della Presidenza del Consiglio dei ministri che si occupa di innovazione tecnologica nella sfera pubblica e promozione delle competenze digitali in Italia.
Secondo il Sole 24 Ore, dietro la decisione di Aruba e InfoCert di optare per il servizio a pagamento c’è il ritardo da parte dello Stato dell’erogazione ai fornitori di un finanziamento da 40 milioni di euro che il governo Meloni aveva stabilito con un decreto-legge nel 2023, per finanziare i costi di gestione del servizio e non farli ricadere sui cittadini. Il decreto prevedeva che entro 30 giorni dall’entrata in vigore del testo, ossia entro il 22 maggio 2023, la presidenza del Consiglio avrebbe dovuto emanare un altro decreto per ripartire i fondi tra i vari fornitori di SPID. Questo decreto, però, è stato emanato solo a marzo di quest’anno, con quasi due anni di ritardo. A questo proposito, il 7 giugno il direttore generale dell’AgId Mario Nobile ha spiegato che i fondi ai fornitori di SPID «stanno per essere erogati», sottolineando comunque che per i cittadini «è possibile usare la carta d’identità elettronica per accedere gratis a tutti i servizi online».
I cittadini che utilizzano Aruba o InfoCert come identity provider, nel caso in cui non vogliano pagare il servizio, possono cambiare fornitore e fare lo SPID con una qualsiasi delle altre aziende erogatrici del servizio. Tra queste c’è Poste Italiane, che con PosteID detiene circa il 70 per cento delle identità digitali attive. La decisione delle due aziende di passare ai servizi a pagamento potrebbe quindi avere un impatto trascurabile nel breve periodo, ma ha riacceso il dibattito sul tema dell’equità digitale e sul diritto dei cittadini di accedere gratuitamente ai servizi pubblici digitali.
A dicembre 2022 il governo aveva già pensato di chiudere l’identità digitale tramite SPID, favorendo l’utilizzo della carta d’identità elettronica (CIE). All’epoca il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’innovazione digitale, Alessio Butti (Fratelli d’Italia), aveva avanzato una proposta di legge per «spegnere gradualmente lo SPID e avere la carta d’identità elettronica (CIE) come unico strumento di identità elettronica digitale per facilitare la vita degli italiani». La proposta però non ha avuto seguito, anche a causa delle proteste dell’opposizione.