Perché il governo non elimina la “tassa occulta” sui redditi

Il drenaggio fiscale fa aumentare il gettito dell’IRPEF con l’inflazione: le soluzioni ci sono – e alcuni Paesi le adottano – ma serve la volontà politica
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
Negli scorsi giorni, vari esponenti del governo hanno promesso nuove misure per ridurre le imposte al ceto medio. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha detto che la già avviata riforma del fisco ha un «obiettivo di fondo»: «tagliare le tasse in modo equo e sostenibile» [1]. «Oggi intendiamo concentrarci sul ceto medio che, come tutti sappiamo, rappresenta la struttura portante del sistema produttivo italiano», ha dichiarato Meloni il 10 giugno, agli Stati generali dei commercialisti. 

Due giorni dopo, il viceministro dell’Economia e delle Finanze Maurizio Leo ha confermato che il governo vuole «mitigare» l’impatto del cosiddetto “drenaggio fiscale” (in inglese fiscal drag). In estrema sintesi, il drenaggio fiscale si verifica quando, a causa dell’inflazione, i redditi nominali aumentano determinando così un aumento dell’imposizione perché nel contempo la struttura dell’imposta non si è modificata.

Questo fenomeno non è nuovo e non colpisce solo l’Italia: altri Paesi, però, hanno strumenti per contenerlo. Perché, allora, non possiamo adottarli anche noi? La risposta non è così immediata come potrebbe sembrare.

Un problema chiamato fiscal drag

Per capire che cosa sia il drenaggio fiscale, bisogna prima avere chiaro come funziona l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF). 

Come suggerisce il nome, l’IRPEF è un’imposta che ogni contribuente in Italia deve pagare sui redditi guadagnati in un anno, tra cui prevalentemente quelli da lavoro e da pensione. Questa imposta è caratterizzata da una progressività per scaglioni e da detrazioni dall’imposta lorda. In altre parole, per determinarne il valore dell’IRPEF da pagare, non si applica un’unica percentuale su tutto il reddito del contribuente, ma percentuali diverse a seconda della fascia di reddito. 

Dal 2024 le aliquote dell’IRPEF (cioè le percentuali) sono tre. Semplificando un po’, chi ha un reddito fino a 28 mila euro determina l’imposta lorda applicando un’aliquota del 23 per cento. Tra i 28.001 euro e i 50 mila euro l’aliquota è del 35 per cento, oltre i 50 mila euro è del 43 per cento. Questo non significa che chi ha un reddito di 60 mila euro, determina l’imposta lorda applicando l’aliquota del 43 per cento a tutto il suo reddito. La determina applicando il 23 per cento fino a 28 mila euro, il 35 per cento al reddito tra i 28.001 euro e i 50 mila, e il 43 per cento sul reddito che eccede i 50 mila euro.

Dunque, sulla base di questo meccanismo, chi guadagna di più paga una percentuale più alta del reddito lordo di chi guadagna di meno.

Lo scenario visto finora è semplificato perché non considera le detrazioni e le deduzioni, cioè le agevolazioni fiscali che possono ridurre l’importo effettivo da pagare. Inoltre, vale per i lavoratori dipendenti, i pensionati e le partite IVA che non aderiscono al regime forfettario. Gli autonomi con ricavi fino a 85 mila euro, infatti, possono beneficiare della cosiddetta flat tax, l’imposta con un’unica aliquota fissa, pari al 15 per cento.

Come ha spiegato in un recente rapporto l’Ufficio parlamentare di bilancio, un organismo indipendente che vigila sui conti pubblici italiani, il drenaggio fiscale si verifica quando, a causa della struttura a scaglioni dell’IRPEF, un aumento del reddito fa salire un contribuente in una fascia più alta di imposizione. In questi casi, se i redditi aumentano in linea con il costo della vita – e quindi senza che ci sia un guadagno reale – i contribuenti possono finire in scaglioni più alti, pagando più imposte e subendo un incremento dell’aliquota media, nonostante il potere d’acquisto – prima delle imposte – sia rimasto lo stesso. Al contrario, se i redditi rimangono fermi o crescono meno dell’inflazione, il sistema fiscale non si adatta alla diminuita capacità economica del contribuente, e il peso delle imposte diventa più pesante.

Gli effetti del drenaggio fiscale tendono ad accumularsi nel tempo, soprattutto se l’inflazione, anche se moderata, dura a lungo e il sistema fiscale non viene aggiornato. Se gli scaglioni e altri parametri, come le detrazioni, restano fermi, anno dopo anno i contribuenti possono trovarsi a pagare sempre più imposte, anche senza un reale miglioramento economico. Per questo motivo, il fiscal drag è chiamato “la tassa occulta” in un linguaggio più colloquiale.

Secondo le stime di alcuni economisti, pubblicate lo scorso dicembre su lavoce.info, da quando l’inflazione è fortemente aumentata dopo l’inizio della pandemia di COVID-19, lo Stato ha incassato circa 25 miliardi di euro grazie al drenaggio fiscale. 

Il problema del fiscal drag si è fatto ancora più evidente dopo le nuove misure introdotte dalla legge di Bilancio per il 2025, ha sottolineato l’Ufficio parlamentare di bilancio. Le nuove misure hanno reso permanenti sia la riduzione del numero delle aliquote IRPEF da quattro a tre, sia il taglio del cuneo fiscale (cioè la riduzione della differenza tra la retribuzione lorda e il netto in busta paga), modificandone il meccanismo alla base e ampliando la platea dei beneficiari. L’ultima legge di Bilancio ha sì reso il sistema più progressivo – perlomeno per quanto riguarda l’IRPEF e secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio – ma al tempo stesso lo ha reso più sensibile agli effetti del drenaggio fiscale.

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Quale soluzione?

Il fiscal drag non è un problema inevitabile, insito in ogni sistema fiscale. Come ha spiegato l’Ufficio parlamentare di bilancio, questo fenomeno si manifesta nei sistemi con un’imposta progressiva sul reddito «i cui parametri non sono indicizzati all’inflazione». In parole semplici, in questi sistemi – come abbiamo visto per l’IRPEF – le soglie degli scaglioni e i valori di altri parametri, come le detrazioni, restano ferme, anche quando il costo della vita aumenta. 

Al contrario, alcuni Paesi hanno meccanismi che aggiornano automaticamente (quindi indicizzano) le soglie delle imposte sui redditi e le detrazioni in base all’inflazione. In questo modo, se i redditi crescono solo per compensare l’aumento del costo della vita, i contribuenti non finiscono in scaglioni più alti e il carico fiscale rimane stabile in termini reali. 

In base a una ricognizione dell’Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), nel 2022 17 Paesi sui 38 monitorati – tra cui gli Stati Uniti, il Canada e i Paesi Bassi – avevano sistemi che aggiornavano i parametri dell’imposta sui redditi delle persone fisiche per contenere l’impatto del drenaggio fiscale. Più nello specifico, in 15 Paesi il sistema si adegua in base all’andamento dell’inflazione. In due Paesi – Danimarca e Lituania – l’adeguamento viene fatto solo in base alla crescita dei salari. Dove l’indicizzazione è automatica, di solito avviene una volta all’anno all’inizio dell’anno fiscale. In alcuni Paesi, però, l’adeguamento scatta solo se l’inflazione supera una certa soglia.

Ai 17 Paesi conteggiati nel 2022 dall’OCSE va aggiunta l’Austria, che dal 2023 ha introdotto l’indicizzazione automatica. Quest’anno, con la nuova legge di Bilancio, anche la Francia ha indicizzato all’inflazione i parametri dell’imposta sui redditi, con una percentuale dell’1,8 per cento. 

Nel 1989 anche l’Italia ha introdotto un sistema simile, con un meccanismo automatico di revisione degli scaglioni e degli importi delle detrazioni quando il tasso di inflazione superava il 2 per cento. Dopo alcuni anni questa rivalutazione è stata applicata solo alle detrazioni, per poi essere eliminata.

Fino a oggi, il governo Draghi prima, e il governo Meloni dopo, hanno provato a sostenere i redditi degli italiani agendo sul cuneo fiscale e sul numero delle aliquote IRPEF. Questo, come detto, non ha impedito al drenaggio fiscale di manifestare i suoi effetti, anzi. Questo fenomeno ha contribuito all’aumento del gettito IRPEF, e le risorse incassate sono state usate anche per finanziare proprio le misure di sostegno ai redditi, come la decontribuzione o la riduzione delle aliquote. 

«A lungo andare, in assenza di un’indicizzazione dei parametri, l’effetto combinato dell’inflazione e della maggiore progressività dell’imposta tende a erodere i benefici che si intendevano apportare con le misure di sostegno al reddito, rendendole progressivamente meno efficaci», ha commentato l’Ufficio parlamentare di bilancio in proposito. 

Si potrebbe suggerire che, per evitare il drenaggio fiscale, basterebbe eliminare il sistema degli scaglioni e introdurre una vera e propria flat tax, valida per tutti i contribuenti. Un’imposta sui redditi con un’unica aliquota, però, causerebbe un’enorme perdita di gettito per le casse dello Stato.

Un’altra soluzione, come abbiamo visto, è seguire l’esempio di altri Paesi e legare il valore dei parametri con cui è determinata l’imposta sui redditi, come gli scaglioni, all’aumento dell’inflazione. Ma questa strada non è semplice da percorrere. 

«Nell’IRPEF italiana non contano solo gli scaglioni: ci sono decine di altri parametri, tra cui detrazioni, deduzioni e trasferimenti monetari, che complicano qualsiasi tentativo di indicizzazione automatica», ha spiegato a Pagella Politica Simone Pellegrino, professore di Scienza delle finanze all’Università di Torino. «Sarebbe forse più semplice applicare un altro metodo per neutralizzare gli effetti dell’inflazione, ovvero deflazionare i redditi a parità di struttura d’imposta». 

C’è infatti un’ulteriore strada per contrastare il fiscal drag. Si parte dal reddito complessivo del contribuente, cioè da quanto ha guadagnato in un anno. Si sottraggono le deduzioni e così si ottiene la cosiddetta “base imponibile”, cioè la parte del reddito su cui calcolare le tasse. «A questo punto si deflaziona il reddito: significa che lo si riporta al valore dell’anno precedente, togliendo l’effetto dell’inflazione», ha spiegato Pellegrino. In pratica si finge che il reddito sia quello che si sarebbe verificato senza l’aumento dei prezzi. «Si calcolano le imposte su questo reddito deflazionato, quindi come se l’inflazione non ci fosse stata. Infine, si rivaluta l’imposta ottenuta, cioè la si aumenta dello stesso tasso dell’inflazione», ha aggiunto l’economista. 

In questo modo, l’aliquota media non cambia, mentre aumenta se si lascia operare il fiscal drag

Quale che sia la soluzione migliore da percorrere, finora il governo non sembra aver preso in considerazione questa possibilità. Come mai? La ragione è molto probabilmente politica. Come ha sottolineato nel 2023 l’Ufficio parlamentare di bilancio, «il drenaggio fiscale ha avuto in passato un ruolo rilevante nel ridisegno, benché implicito, del prelievo sulle persone fisiche». 

In altre parole, al governo di turno fa comodo vedere le entrate aumentare non grazie all’aumento delle imposte, ma grazie all’inflazione. È in parte grazie anche al drenaggio fiscale se il governo Meloni è riuscito a ridurre il rapporto tra il deficit (la differenza in negativo tra entrate e uscite) e il Prodotto interno lordo (PIL). Secondo i calcoli degli economisti Marco Leonardi e Leonzio Rizzo, senza il fiscal drag l’obiettivo di portare questo rapporto sotto il 3 per cento del PIL sarebbe stato raggiunto nel 2029, con tre anni di ritardo rispetto alle previsioni del governo. 

Da un punto di vista politico e comunicativo, poi, è più efficace approvare misure che riutilizzano parte del gettito per finanziare interventi come il taglio del cuneo fiscale, piuttosto che agire in modo strutturale sul problema.

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