No, non è stato introdotto un matrimonio egualitario europeo

Ecco che cosa dice davvero la nuova sentenza della Corte di giustizia dell’Ue
ANSA
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Nei giorni scorsi diversi partiti e politici hanno commentato la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea sul riconoscimento dei matrimoni dello stesso sesso. Da un lato, c’è chi ha detto che l’Italia deve introdurre il matrimonio egualitario e adeguare le proprie leggi alla decisione dei giudici. Tra questi ci sono il deputato del Partito Democratico Alessandro Zan, il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto e il coportavoce di Europa Verde Angelo Bonelli. Dall’altro lato, c’è chi ha denunciato il rischio di un’ingerenza europea nelle competenze nazionali, come il vicesegretario della Lega Roberto Vannacci, che ha comunque parlato di una «flessibilità» concessa dalla sentenza.

Ma come stanno davvero le cose? Che cosa ha stabilito davvero la Corte di giustizia dell’Ue? Quali sono le conseguenze pratiche della sua sentenza? Facciamo un po’ di chiarezza.

I fatti

Per capire meglio le conseguenze della sentenza bisogna partire dal caso su cui il 25 novembre si è espressa la Corte di giustizia dell’Ue. Questo organismo ha il compito di interpretare il diritto europeo e di garantirne l’applicazione uniforme negli Stati membri.

Il caso è nato dalla vicenda di due cittadini polacchi – di cui uno ha anche la cittadinanza tedesca – che si sono sposati in Germania nel 2018 e si sono poi trasferiti in Polonia. Per ottenere il riconoscimento del matrimonio da parte delle autorità polacche, i due hanno chiesto la trascrizione dell’atto tedesco nei registri nazionali. La richiesta, però, è stata respinta con la motivazione che il diritto polacco non autorizza il matrimonio tra persone dello stesso sesso e che la trascrizione violerebbe i principi fondamentali dell’ordinamento nazionale polacco.

Questo rifiuto ha comportato conseguenze concrete per i due cittadini polacchi, come hanno sottolineato anche i giudici europei nella loro sentenza. Per esempio, in un periodo in cui uno dei coniugi viveva e lavorava in Polonia, l’altro era disoccupato ma privo di copertura sanitaria pubblica, a cui avrebbe avuto diritto se il matrimonio fosse stato riconosciuto. In più, la richiesta di aggiornare il cognome nei registri immobiliari ha ricevuto risposte opposte per due immobili diversi, proprio perché alcuni giudici non consideravano valido, ai fini giuridici, un matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero.

La coppia ha così fatto ricorso allora alla Corte amministrativa suprema della Polonia (la massima autorità giudiziaria del Paese), che ha sospeso il giudizio e ha sottoposto la questione alla Corte di giustizia dell’Ue attraverso il cosiddetto “rinvio pregiudiziale”. Quest’ultimo consente ai giudici nazionali di chiedere alla Corte di giustizia dell’Ue se il diritto nazionale – in questo caso quello polacco – sia conforme al diritto europeo. La Corte di giustizia dell’Ue non decide sullo specifico caso, ma l’interpretazione che essa fornisce è vincolante sia per il giudice che ha effettuato il rinvio pregiudiziale sia per tutti gli altri giudici nazionali a cui venga sottoposta una questione analoga.

La domanda rivolta alla Corte di giustizia dell’Ue era se la legge polacca – che non permette né il riconoscimento né la trascrizione di un matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto in un altro Stato membro – sia compatibile con il Trattato sul funzionamento dell’Ue (TFUE) e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Il primo attribuisce ai cittadini europei la libertà di circolare e soggiornare nell’Ue, mentre la seconda tutela la vita privata e familiare e vieta la discriminazione basata sull’orientamento sessuale. 

Con la sua sentenza, la Corte di giustizia dell’Ue ha stabilito che il rifiuto polacco di registrare il matrimonio celebrato in Germania è incompatibile con il diritto europeo.

Che cosa stabilisce la sentenza

I giudici europei, infatti, hanno stabilito che «uno Stato membro ha l’obbligo di riconoscere il matrimonio tra due cittadini dell’Ue dello stesso sesso, legalmente contratto in un altro Stato membro, in cui essi hanno esercitato la loro libertà di circolazione e di soggiorno». Questa frase, riportata dalla Corte in un comunicato stampa, non istituisce però un matrimonio europeo tra persone omosessuali né impone agli Stati membri di introdurre nei propri ordinamenti il matrimonio egualitario. 

La sentenza ha chiarito un principio fondamentale: se una coppia dello stesso sesso, sposata in uno Stato dove ciò è consentito, esercita la libertà di circolazione e di soggiorno all’interno dell’Ue, gli altri Stati Ue devono permetterle di vivere come coppia coniugata, godendo dei diritti collegati a questo status. In altre parole, la Corte ha affermato che sia la libertà di circolazione e soggiorno sia il diritto a una vita familiare normale – che sono principi fondamentali dell’Ue – valgono pienamente anche per le coppie dello stesso sesso che hanno contratto un matrimonio valido in un altro Stato membro.

La Corte di giustizia dell’Ue è arrivata così alla seguente conclusione: la disciplina del matrimonio resta competenza degli Stati membri, ma questi «sono tenuti a rispettare il diritto dell’Ue nell’esercizio di tale competenza». 

I due cittadini polacchi che hanno fatto ricorso, in quanto cittadini europei, «godono della libertà di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri e del diritto di condurre una normale vita familiare» sia durante l’esercizio di tale libertà sia al ritorno nel proprio Paese. Se una coppia ha acquisito lo status di coniugi in uno Stato membro, deve poterlo conservare anche negli altri Stati, altrimenti la libertà di circolazione verrebbe compromessa. Da qui la conclusione secondo cui «il rifiuto di riconoscere il matrimonio tra due cittadini dell’Ue, legalmente contratto in un altro Stato membro», vìola la libertà di circolazione e il diritto al rispetto della vita privata e familiare.

La Corte di giustizia dell’Ue ha affrontato anche il tema dell’identità costituzionale nazionale e dell’ordine pubblico, spesso invocato dai singoli Stati per giustificare deroghe alle libertà europee. I giudici hanno ricordato che l’Ue rispetta l’identità nazionale degli Stati membri, tant’è che non ha imposto di introdurre il matrimonio egualitario nei rispettivi ordinamenti. E che l’ordine pubblico deve essere inteso in senso restrittivo, e non può essere determinato unilateralmente dagli Stati senza controllo europeo. 

In parole semplici, la Corte ha chiarito che uno Stato non può invocare la propria identità nazionale o ragioni di ordine pubblico come scusa per non applicare le regole europee. Poiché l’Ue non impone agli Stati di introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma chiede soltanto di riconoscerne gli effetti quando è stato celebrato altrove per garantire la libertà di circolazione, non c’è alcuna violazione né dell’identità nazionale né dell’ordine pubblico. Dunque, gli Stati mantengono la libertà di non prevedere il matrimonio egualitario nei propri ordinamenti, ma non possono usare questa scelta come pretesto per negare effetti a un matrimonio valido in un altro Paese dell’Ue.

I giudici europei hanno anche richiamato i diritti contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Una restrizione alla libertà di circolazione può essere giustificata solo se: persegue un obiettivo di interesse generale; è proporzionata; e rispetta i diritti fondamentali, in particolare il diritto alla vita privata e familiare e il divieto di discriminazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo aveva già condannato la Polonia per aver lasciato le coppie dello stesso sesso, incluse quelle sposate all’estero, in un vuoto giuridico privo di qualsiasi protezione. 

La Corte di giustizia dell’Ue ha così concluso che il mancato riconoscimento, da parte dello Stato di cittadinanza, del matrimonio contratto all’estero da due cittadini Ue dello stesso sesso, solo perché il diritto interno non prevede il matrimonio egualitario, vìola i loro diritti fondamentali.
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Che cosa cambia adesso

Quanto alle conseguenze della sentenza per gli Stati membri, la Corte di giustizia dell’Ue ha chiarito che ciascun Paese conserva un margine di discrezionalità sulle modalità di riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. 

«La trascrizione dell’atto di matrimonio straniero è solo una delle modalità possibili», ha sottolineato la Corte. Ma le modalità scelte non possono «rendere il riconoscimento impossibile o eccessivamente difficile né discriminare le coppie di persone dello stesso sesso a causa del loro orientamento sessuale». 

La sentenza non implica invece una piena equiparazione rispetto a tutti gli aspetti del matrimonio interno, come l’adozione, che resta materia nazionale. Nel caso polacco, poiché la trascrizione è l’«unico mezzo» amministrativo di riconoscimento, la Polonia è tenuta ad applicarla anche ai matrimoni tra persone dello stesso sesso.

Che cosa cambia per l’Italia

In questo scenario si colloca la situazione italiana, che la sentenza non modifica. 

Con la cosiddetta “legge Cirinnà” del 2016, l’Italia ha introdotto l’unione civile tra persone dello stesso sesso, dopo la condanna del 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo per l’assenza di tutela delle coppie omosessuali.

Un decreto legislativo del 2017 ha poi stabilito che «il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana». Nel 2018, la Corte di Cassazione ha chiarito a sua volta che un matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero, se almeno uno dei coniugi è italiano, non viene trascritto come matrimonio ma produce gli effetti di un’unione civile.

Letta in questo contesto, la sentenza della Corte di giustizia dell’Ue non determina un cambio di paradigma: ribadisce l’obbligo per gli Stati di riconoscere, ai fini dei diritti europei, lo status matrimoniale acquisito altrove. L’Italia già adempie a tale obbligo, riconoscendo alle coppie omosessuali quasi tutti i diritti delle coppie sposate sul piano personale e patrimoniale. Le principali differenze riguardano la filiazione, dove manca un riconoscimento automatico della genitorialità e l’adozione congiunta non è prevista.

In futuro, però, non è escluso che qualcuno possa portare davanti alla Corte di giustizia dell’Ue un caso per contestare se la “conversione” del matrimonio estero in unione civile comporti una disparità di trattamento contraria al diritto europeo. Ma, appunto, per il momento si tratta solo di un’ipotesi.

In ogni caso, su questo fronte l’ordinamento italiano sta evolvendo. Con una sentenza dello scorso maggio, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale il divieto di riconoscere alla nascita la madre intenzionale nelle coppie lesbiche che ricorrono alla fecondazione eterologa all’estero: oggi un figlio nato in Italia da due donne può essere riconosciuto subito come figlio di entrambe. Per le coppie di uomini, invece, rimane praticabile solo la cosiddetta “adozione in casi particolari”, tuttora la soluzione prevista dalla giurisprudenza italiana.

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