La Corte Costituzionale smentisce Roccella sui figli nelle coppie con due madri

La ministra per la Famiglia ha criticato la recente sentenza sulla procreazione medicalmente assistita, ma le sue obiezioni sono state affrontate dai giudici 
ANSA
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Il 22 maggio la Corte Costituzionale ha pubblicato una sentenza riguardante le famiglie formate da due donne. La Corte ha stabilito che è illegittimo che la legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita (PMA) consenta il riconoscimento di un figlio nato in Italia, grazie alla PMA praticata all’estero, solo da parte della madre biologica (quella che ha partorito il bambino) escludendo invece la cosiddetta “madre intenzionale”, ossia la compagna della madre biologica. In sintesi, la Corte ha affermato che negare a quest’ultima la possibilità di riconoscere il figlio lede il «miglior interesse del minore».

Con una nota, la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità Eugenia Roccella ha criticato la sentenza della Corte Costituzionale, sollevando due obiezioni principali. Da un lato, secondo Roccella, «l’interesse del bambino a vedersi riconosciute due figure genitoriali viene sancito, nella sentenza sulle “due mamme”, prescindendo completamente dai fondamenti biologici della riproduzione e della generazione, come se l’estromissione e la cancellazione programmata della figura del padre non fosse a sua volta un disvalore e una scelta contraria al miglior interesse del minore». Dall’altro lato, la ministra ha aggiunto che «in Italia nessun bambino ha una limitazione di diritti, perché anche in caso di coppie dello stesso sesso c’è l’adozione in casi particolari che garantisce il rapporto del minore con entrambi, la responsabilità di entrambi nei suoi confronti e l’inserimento in una rete di parentela anche sotto il profilo patrimoniale».

Al di là delle legittime opinioni sul tema, le cose non stanno esattamente come sostiene la ministra. Le due obiezioni di Roccella – sia sul miglior interesse del minore sia sull’adozione in casi particolari – sono state affrontate e di fatto smentite dalla Corte Costituzionale nella sua sentenza.

I fatti

La legge n. 40 del 2004, che disciplina la PMA, consente l’accesso a questa tecnica solo alle «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». Di conseguenza, una coppia formata da due donne non può accedervi. Per superare questo divieto, molte coppie di donne scelgono di ricorrere alla PMA “eterologa” – cioè con gameti (ovociti o spermatozoi) donati da una persona esterna alla coppia – in Paesi in cui questa pratica non è loro preclusa.

La sentenza della Corte Costituzionale è nata proprio da un caso di questo tipo. Due donne avevano fatto ricorso alla PMA all’estero, nel rispetto della legge vigente nel Paese in cui si erano recate, e avevano avuto una prima figlia, il cui atto di nascita riportava sia il nome della madre biologica sia quello della madre intenzionale. Un anno e mezzo dopo, con la stessa tecnica, la coppia aveva avuto un secondo figlio, il cui atto di nascita indicava nuovamente entrambe le madri. Ma la Procura aveva impugnato l’iscrizione della madre intenzionale nel secondo certificato, presentando al Tribunale di Lucca un’azione di rettificazione. La legge italiana, infatti, non prevede che due persone dello stesso sesso possano essere indicate entrambe come genitori in un atto di nascita.

Il Tribunale aveva trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale, chiedendole di pronunciarsi sullo stato giuridico dei figli voluti da due donne e nati in Italia grazie alla PMA praticata all’estero. La Corte si era già occupata di questo tema nel 2021, dichiarando la questione inammissibile perché, secondo i giudici, ogni valutazione spettava al legislatore. Già allora, però, la Corte aveva avvertito che non sarebbe stato «più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore».

Il mancato recepimento delle sollecitazioni della Corte Costituzionale da parte dei governi e del Parlamento, unito all’urgenza di garantire tutele giuridiche ai bambini, ha prodotto due conseguenze. Da un lato, ha spinto il Tribunale di Lucca a sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte. Dall’altro, ha indotto la stessa Corte ad accoglierla.

Nella sentenza del 22 maggio, la Corte Costituzionale ha dichiarato di non aver potuto esimersi «dal porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, garantendo il livello di protezione che la Costituzione esige che sia assicurato», di fronte all’«esigenza di assicurare la tutela effettiva di diritti fondamentali, incisi dalle scelte, anche omissive, del legislatore» e alla sua «inerzia protrattasi per anni».

L’interesse del minore

Nella sentenza del 22 maggio, la Corte Costituzionale ha richiamato una precedente sentenza del 2020, in cui aveva già riconosciuto come giuridicamente rilevante la volontà che «porta alla nascita una persona che altrimenti non sarebbe nata», e da cui discende «il diritto del nato a vedersi riconosciuto come figlio di chi quella nascita ha voluto». 

Nel caso della procreazione diversa da quella naturale, la volontà di chi intraprende il percorso genitoriale «si svela e si esprime attraverso il “consenso” prestato al ricorso alle tecniche di PMA». «Il consenso ha un valore tale da rappresentare un adeguato fondamento per il sorgere della responsabilità genitoriale» – aveva scritto la Corte Costituzionale – e «dal comune impegno volontariamente assunto» discendono gli obblighi legati al vincolo genitoriale. L’articolo 30 della Costituzione stabilisce che «è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli».

In questa prospettiva va inquadrato l’interesse del minore, o, come lo definiscono le fonti internazionali, il “miglior interesse del minore”. «Qualora vi sia una coppia di persone che ha intrapreso il percorso genitoriale, non è sufficiente il solo riconoscimento del rapporto con la madre biologica», hanno sottolineato i giudici costituzionali.

Il figlio ha diritto a essere riconosciuto da entrambe le madri, fin dalla nascita, indipendentemente dalle vicende successive. «L’interesse del minore consiste nel vedersi riconoscere lo stato di figlio di entrambe le figure (la madre biologica e la madre intenzionale) che abbiano assunto e condiviso l’impegno genitoriale attraverso il ricorso a tecniche di procreazione assistita», ha scritto la Corte Costituzionale. «Il riconoscimento, per sua natura, opera da subito e indipendentemente dalle vicende della coppia e da eventuali mutamenti, al momento della nascita, della stessa volontà delle due donne che hanno fatto ricorso alla PMA e in particolare della madre intenzionale». 

In altre parole, chi presta il proprio consenso alla fecondazione eterologa non può, dopo la fecondazione, sottrarsi ai doveri genitoriali: il consenso, infatti, è irrevocabile.

È vero – hanno riconosciuto i giudici costituzionali – che «l’interesse del minore, per quanto centrale, non è un interesse “tiranno”, che debba sempre e comunque prevalere». Secondo la Corte, infatti, «al pari di ogni interesse costituzionalmente rilevante, esso può essere oggetto di un bilanciamento in presenza di un interesse di pari rango». Ma nel caso specifico, «non si pone un problema di bilanciamento, in quanto non è ravvisabile alcun controinteresse di peso tale da richiedere e giustificare una compressione del diritto del minore a vedersi riconosciuto il proprio stato di figlio (della madre intenzionale) automaticamente sin dal momento della nascita».

L’omosessualità della coppia non è un ostacolo al riconoscimento del legame genitoriale. «Il carattere omosessuale della coppia che ha avviato il percorso genitoriale non può costituire impedimento allo stato di figlio riconosciuto per il nato», ha spiegato la Corte. L’orientamento sessuale, infatti, «non evoca scenari di contrasto con princìpi e valori costituzionali», né «incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale».

Ricapitolando: non è fondata l’affermazione della ministra secondo cui «l’estromissione e la cancellazione programmata della figura del padre» costituirebbe un «disvalore» e il riconoscimento del bambino da parte di due madri rappresenterebbe «una scelta contraria al miglior interesse del minore». Al contrario, secondo quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, l’interesse del bambino è quello di essere riconosciuto da chi «si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità» nell’ambito del progetto genitoriale.

L’adozione in casi particolari

Per escludere il riconoscimento automatico della madre intenzionale, non vale sostenere – come fa Roccella – che questa possa ricorrere alla cosiddetta “adozione in casi particolari”. Questa forma di adozione è disciplinata dalla legge n. 184 del 1983.

È vero – ha sottolineato la Corte – che alcune criticità legate a questa forma di adozione sono state attenuate nel tempo. Nel 2022, per esempio, è stata dichiarata incostituzionale la norma che impediva l’instaurarsi di rapporti civili tra il minore adottato in casi particolari e i parenti dell’adottante. Nel 2023, la Corte di Cassazione ha chiarito che il rifiuto dell’assenso all’adozione da parte del genitore biologico è valido solo se espresso nell’interesse del minore, ossia quando tra quest’ultimo e il genitore intenzionale non si sia sviluppato quel legame esistenziale che costituisce il presupposto per l’adozione.

Ciò nonostante – ha rilevato la Corte – l’adozione in casi particolari continua a presentare un significativo «deficit di tutela» per il minore. Da un lato, l’avvio del relativo procedimento «è rimesso all’esclusiva iniziativa dell’adottante». Dall’altro, né il minore né la madre biologica dispongono di strumenti di protezione «per l’eventualità in cui la madre intenzionale decida di non procedere all’adozione», con la conseguenza che proprio a quest’ultima è consentito sottrarsi ai doveri assunti nel momento in cui ha deciso, insieme alla partner, di intraprendere il percorso genitoriale. «Ancora, in caso di morte della madre intenzionale o di intervenuta crisi della coppia, nessun diritto potrà configurarsi in capo al minore nei confronti della madre intenzionale», ha aggiunto la Corte.

Non solo: il procedimento dell’adozione in casi particolari è «caratterizzato da costi, tempi e alea». Tutto ciò, ha rilevato la Corte, «non risponde alle esigenze del riconoscimento dello stato di figlio sin dal momento della nascita», come avviene nella generalità dei casi, «quale conseguenza che discende dal comune impegno genitoriale assunto all’inizio del relativo percorso attraverso la PMA».

La Corte ha evidenziato anche un ulteriore limite dell’adozione in casi particolari. «Il lasso di tempo intercorrente tra la nascita e il perfezionamento dell’(eventuale) adozione – hanno scritto i giudici costituzionali – lascia il minore in uno stato di incertezza e imprevedibilità in ordine al suo stato, e, quindi, alla sua identità personale, esponendolo alle vicende della coppia e comunque alla mera volontà di uno dei due soggetti, e in particolare della madre intenzionale».

Peraltro, questa condizione di incertezza sarebbe destinata a non avere una fine. Anche nel caso in cui l’ufficiale di stato civile iscriva l’atto di nascita indicando la madre intenzionale e il pubblico ministero non ne chieda subito la rettifica, «la situazione resta soggetta a una perpetua precarietà», poiché «l’istanza di rettificazione da parte del pubblico ministero non è soggetta a limiti temporali».

In conclusione

Secondo la Corte Costituzionale, il divieto per il figlio di essere riconosciuto dalla madre intenzionale vìola diversi princìpi costituzionali. In particolare: l’articolo 2 della Costituzione, per la lesione dell’identità personale del nato e del suo diritto a vedersi riconosciuto, sin dalla nascita, uno stato giuridico certo e stabile; l’articolo 3, per l’irragionevolezza della disciplina attuale, che non è giustificata da alcun interesse costituzionalmente rilevante; e l’articolo 30, perché lede il diritto del minore a vedersi riconosciuti, sin dalla nascita e da parte di entrambi i genitori, i diritti connessi alla responsabilità genitoriale e ai conseguenti obblighi verso i figli.

La sentenza non riguarda le condizioni di accesso alla PMA in Italia né i divieti attualmente previsti dall’ordinamento in materia. Su questo punto, il 22 maggio la Corte Costituzionale ha stabilito che il divieto per le donne single di accedere alle tecniche di fecondazione assistita – come previsto dalla legge n. 40 del 2004 – è costituzionalmente legittimo. Ma ha anche precisato che un’eventuale estensione del diritto alla fecondazione assistita alle persone singole non incontra «ostacoli costituzionali», ma spetta al Parlamento decidere se intervenire per modificare la legge.

La sentenza non affronta nemmeno i profili legati alla cosiddetta “gestazione per altri” (GPA, chiamata anche “maternità surrogata”), che in Italia resta sanzionata come reato universale.

Le questioni relative alla PMA per donne single e alla GPA riguardano, secondo la Corte, «l’aspirazione alla genitorialità». Al contrario, il tema della PMA praticata all’estero da due donne riguarda l’interesse di un bambino già nato, cioè il suo «interesse a che sia affermata, in capo a entrambe le donne che abbiano fatto ricorso a questa tecnica, la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali agli interessi del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati alla scelta di divenire genitori».

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