Perché il successo del Pnrr non riguarda solo l’Italia

Il piano italiano è di gran lunga il più ingente tra i Paesi europei. Se dovesse fallire, in futuro sarebbe a rischio la creazione di un nuovo strumento per l’emissione di debito comune
ANSA
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Il peso economico e politico dei piani nazionali di ripresa e resilienza, finanziati dall’Unione europea, non è lo stesso per tutti gli Stati membri. Mentre il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è un tema centrale del dibattito politico in Italia, negli altri principali Paesi europei i piani equivalenti hanno un’importanza inferiore.

Per finanziare questi piani, l’Ue ha creato il Recovery and Resilience Facility (RRF), un fondo da oltre 720 miliardi di euro, di cui 385 miliardi saranno distribuiti sotto forma di prestiti e 338 miliardi in sovvenzioni a fondo perduto. Questi soldi sono raccolti dall’Ue sui mercati, emettendo debito comune, garantito da tutti gli Stati membri. Per molti Paesi, come l’Italia, i prestiti hanno tassi di interesse più vantaggiosi rispetto a quelli che pagano finanziandosi da soli sui mercati.

A livello europeo i governi che sostengono la creazione di strumenti permanenti per l’emissione di debito comune, come il Recovery and Resilience Facility, vedono in questo fondo un potenziale modello da replicare in futuro. Ma è proprio dal successo o dal fallimento del Pnrr italiano che arriveranno gli argomenti rilevanti a favore o contro altri progetti di emissione di debito comune.

I numeri dietro al Pnrr

Viste le condizioni della sua economia, all’Italia è stata assegnata la quota maggiore di fondi del Recovery and Resilience Facility: 191,5 miliardi di euro, di cui 122,6 miliardi in prestiti e 68,9 miliardi in sovvenzioni a fondo perduto. Questi soldi saranno erogati al nostro Paese in dieci rate, entro il 2026, se saranno rispettati oltre 500 obiettivi, tra riforme, investimenti e progetti. I governi italiani si sono impegnati a spendere tutte le risorse messe a disposizione dall’Ue entro i prossimi quattro anni. E il governo di Mario Draghi ha creato un fondo complementare al Pnrr (il suo nome ufficiale è “Piano nazionale per gli investimenti complementari al Pnrr”), finanziato con oltre 30 miliardi di euro di risorse nazionali, non erogate dall’Ue. 

Le risorse per il Pnrr hanno un valore pari a circa l’11 per cento del Pil italiano, una delle percentuali più alte insieme a quelle di Croazia (11 per cento), Grecia (16,7 per cento) e Romania (12 per cento). L’Italia fa poi parte del gruppo ristretto di sette Paesi che hanno chiesto all’Ue di poter accedere ai prestiti del Recovery and Resilience Facility (oltre 122 miliardi di euro per il nostro Paese). Come si può verificare sul sito ufficiale della Commissione europea, la Romania ne ha chiesti 14,9 miliardi, la Grecia 12,7 miliardi, la Polonia 11,5 miliardi, il Portogallo 2,7 miliardi, la Slovenia 700 milioni di euro e Cipro 200 milioni.

Finora la Commissione Ue ha erogato agli Stati membri oltre 153 miliardi di euro, tra sovvenzioni (106 miliardi) e prestiti (47 miliardi). Di questi soldi, l’Italia ne ha incassati 67 miliardi suddivisi in circa 29 miliardi di sovvenzioni e quasi 38 miliardi di prestiti. Quasi il 40 per cento del totale dei soldi erogati finora dall’Ue agli Stati membri, dunque, è andato all’Italia. Se l’erogazione della terza rata da 19 miliardi di euro, richiesta dal governo Meloni cinque mesi fa, non fosse stata sospesa dall’Ue, a oggi le risorse incassate dall’Italia sarebbero potute essere di più: 86 miliardi di euro sui 191,5 miliardi dell’intero piano.

Questi numeri mostrano come la buona riuscita del Recovery and Resilience Facility gravita proprio intorno al Pnrr italiano.

I piani degli altri

Il secondo piano per entità di risorse stanziate è quello della Spagna, che visto il suo attuale stato di avanzamento rappresenta anche l’esempio più virtuoso. Il governo spagnolo ha concordato con l’Ue un piano da 69 miliardi di euro (poco meno di un terzo di quello italiano) fatto solo da sovvenzioni a fondo perduto. All’inizio la Spagna ha rinunciato alla sua quota di prestiti – e quindi di creare debito pubblico aggiuntivo – con l’idea di chiederla in un secondo momento, se necessario. Finora la Spagna ha già incassato 37 miliardi di euro in sovvenzioni, ossia più della metà del piano, ed è l’unico Paese ad aver ricevuto il pagamento della terza rata, avvenuta a marzo.

Il Portogallo ha un piano da 16,6 miliardi di euro: finora ha ricevuto 5 miliardi ed è fermo alla seconda rata. La Grecia ha pianificato spese per 30 miliardi di euro: finora ha ricevuto poco più di 10 miliardi ed è ferma alla seconda rata.

L’Italia non è quindi l’unico Paese europeo che deve ancora ricevere la terza rata, ma per il momento è quello che ha preso gli impegni più significativi sia dal punto di vista della spesa sia delle riforme e della pianificazione, senza riuscire a soddisfarli appieno. Viste le dimensioni e le ambizioni del suo piano, per l’Italia l’attuazione del Pnrr è diventata centrale nel dibattito politico interno e nelle relazioni tra il governo e le istituzioni europee.

La modifica del Pnrr

Anche la questione di un’eventuale modifica del Pnrr non è paragonabile alla situazione degli altri Stati membri. In campagna elettorale la coalizione di centrodestra ha promesso di cambiare il piano e da mesi gli esponenti del governo Meloni hanno ribadito questo impegno, finora senza trovare un accordo con l’Ue e senza aver presentato una richiesta ufficiale di modifica. 

Discorso diverso vale per gli altri due principali Paesi europei. Ad aprile la Francia ha presentato una richiesta per modificare il suo piano nazionale, integrando le risorse del piano REPowerEU, pensato per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia. A febbraio l’Ue ha invece approvato le modifiche al piano nazionale della Germania. In entrambi questi Paesi, però, il peso economico e politico dei due piani è marginale rispetto al valore del Pnrr per l’Italia.

La Francia ha un piano di rilancio (France relance è il suo nome ufficiale) da oltre 39 miliardi di euro di sovvenzioni, una cifra pari all’1,6 per cento del suo Pil. Fino a oggi la Francia ha ricevuto 12,5 miliardi di euro e non ha ancora richiesto la seconda rata. La Germania ha un piano da 26,3 miliardi di euro in sovvenzioni, pari allo 0,7 per cento del Pil. Finora il governo tedesco ha incassato i circa 2,3 miliardi di euro del prefinanziamento di agosto 2021.

Per un Paese come la Germania ha poco senso dedicare un eccessivo impegno amministrativo per chiedere e gestire i soldi del Recovery and Resilience Facility, dal momento che può finanziarsi per conto proprio sui mercati a condizioni già vantaggiose. Un discorso simile vale per gli altri Stati membri con i conti più solidi, come Danimarca, Svezia e Finlandia. In tutti e tre questi Paesi le risorse in arrivo dal Recovery and Resilience Facility valgono meno di un punto percentuale del loro Pil.

Se si guarda ai Paesi Bassi, tra i più restii a creare uno strumento di debito pubblico comune, questa asimmetria economica e politica è ancora più evidente. Il piano di rilancio del governo olandese, guidato da Mark Rutte, vale 4,7 miliardi di euro: meno dello 0,6 per cento del Pil nazionale. Di questi, finora non ha incassato nemmeno un euro, avendo deciso di non prendere il prefinanziamento erogato ad agosto 2021 agli altri Paesi.

Nel 2026, quando il Pnrr dovrà essere terminato, il giudizio politico sul Recovery and Resilience Facility si concentrerà su chi ha ricevuto più soldi, dunque sull’Italia. Se il Pnrr sarà un fallimento, le istituzioni europee e gli Stati membri saranno messe di fronte ad almeno due problemi. Da un lato sarà molto probabilmente più difficile in futuro creare uno strumento di debito comune europeo per far fronte ad altre emergenze. Dall’altro lato ci si chiederà perché l’Italia, terza economia dell’Ue, con un rapporto tra il debito pubblico e il Pil superiore al 150 per cento, non sia stata in grado di riformarsi e di investire le risorse in progetti di successo.

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