Pescare e mangiare il granchio blu è davvero una buona idea?

Il governo sta incentivando questa strategia per fermare la diffusione dei crostacei molto invasivi, ma gli esperti hanno più di un dubbio
Pagella Politica
Uno dei temi più discussi negli ultimi giorni è la proliferazione nei mari italiani dei cosiddetti “granchi blu”, una specie di crostacei molto invasiva che sta danneggiando gravemente l’ecosistema costiero e le attività dei pescatori italiani.

Per combattere la diffusione di questi granchi, una delle proposte è quella di aumentare il loro consumo alimentare da parte degli esseri umani, ossia di mangiarli a tal punto da fermarne la riproduzione. Questa soluzione è stata proposta da alcuni chef stellati, da pescatori, ma anche da molti politici, tra cui il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida. 

Per esempio il 20 agosto il ministro ha pubblicato su Instagram una foto in cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni (i due sono cognati e sono in vacanza insieme) mostra un vassoio pieno di granchi blu, accompagnata dalla didascalia «Oggi mangiamo granchio blu! Eccezionale». Poche ore dopo Lollobrigida ha pubblicato anche un video in cui esorta i cittadini a fare lo stesso. «Il modo migliore [di fermare la proliferazione dei granchi, ndr], non avendo un predatore naturale nei nostri mari, è quello di spiegare come sia un ottimo nutrimento per l’essere umano», ha affermato il ministro nel video. 

Ma siamo sicuri che l’invasione dei granchi blu può essere fermata mangiandoli? In linea di massima sì, visto che la pesca intensiva potrebbe essere al momento l’unica soluzione per arginare la diffusione di una specie che gli studiosi hanno definito a Pagella Politica «una macchina da guerra». Questo approccio però non è privo di controindicazioni, e prendere scelte sbagliate in questa fase potrebbe avere gravi conseguenze sui nostri ecosistemi marini e sull’attività di tutte le persone che ci lavorano.

L’invasione dei granchi

Il granchio reale blu, noto anche come “granchio blu” o “granchio azzurro”, è un crostaceo decapode (cioè con dieci zampe) che appartiene alla famiglia dei Portunidae e il cui nome scientifico è Callinectes sapidus. I granchi blu sono originari delle coste occidentali del continente americano, ma negli ultimi anni sono arrivati anche nelle acque del Mar Mediterraneo trasportati dalle cosiddette “acque di zavorra” delle navi, ossia delle cisterne che le grandi navi transatlantiche riempiono di acqua marina per stabilizzare lo scafo e che poi scaricano nei porti di attracco. Dalle coste del continente americano i primi esemplari di granchio blu sono quindi arrivati in questo modo nel Mediterraneo, dove hanno iniziato a riprodursi a causa delle condizioni climatiche favorevoli. «In Italia i primi avvistamenti di questo animale risalgono al 1948», ha spiegato a Pagella Politica Manuela Falautano, ricercatrice dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), ma è solo da qualche anno che l’aumento della sua presenza è considerato una minaccia per i nostri ecosistemi costieri.

Tra luglio e agosto di quest’anno questa specie di crostaceo si è diffusa su tutte le coste italiane, specialmente quella adriatica, causando problemi alla pesca in Emilia-Romagna, in Toscana e nella zona del delta del Po, in Veneto. In particolare i granchi blu danneggiano l’attività dei pescatori perché tagliano le reti da pesca con le chele, si cibano degli avannotti (i piccoli dei pesci) e distruggono gli allevamenti di molluschi come cozze e vongole. Questo animale non ha un predatore naturale nelle nostre coste e si riproduce con molta facilità: per questo motivo in questi giorni si è parlato di “invasione”, come hanno evidenziato i nostri colleghi di Facta in un altro approfondimento sul tema.

Leggi anche: Perché stiamo parlando di una “invasione” di granchio blu in Italia

L’azione del governo

Per contrastare la diffusione del granchio blu il Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste ha adottato di recente una serie di iniziative, tra cui lo stanziamento di 2,9 milioni di euro per finanziare la cattura e lo smaltimento dei granchi blu e il permesso di utilizzare «nasse, cestelli e reti da posta fissa» entro una distanza di 0,3 miglia dalla costa e vicino alle foce dei fiumi. L’azione del governo e i messaggi sui social network del ministro dell’Agricoltura sembrano dunque rivolti a favorire la pesca e incentivare i cittadini a consumare questi crostacei come alimenti. 

«Il granchio blu è una specie aliena commestibile e dalle carni pregiate, tanto che lo stesso termine sapidus del nome scientifico significa “dalle carni buone”», ha specificato Falautano. «Ma molte persone ancora non sono propense a mangiarlo per via del fatto che è una specie aliena e il termine “alieno” può fare paura. Campagne come quella del ministro hanno proprio l’obiettivo di sfatare il mito per cui “alieno” vuol dire “non commestibile”». La ricercatrice Ispra ha comunque confermato che, nonostante il granchio blu non sia ancora stato inserito nella lista delle specie esotiche invasive, ne ha senza dubbio le caratteristiche, dal momento che «si riproduce velocemente, si adatta agli ecosistemi e danneggia la biodiversità dei luoghi che popola».  

Ma davvero per eliminare una specie invasiva come il granchio blu, basta iniziare a mangiarla? «Noi italiani alle domande più complesse rispondiamo sempre nei modi più semplici e veloci, e questo caso non fa eccezione», ha risposto a Pagella Politica Gianluca Sarà, professore di Ecologia del dipartimento di Scienze della terra e del mare dell’Università di Palermo. «Cercare di eradicare una specie invasiva come questa facendola entrare nella nostra dieta quotidiana è una soluzione quantomeno semplicistica di un problema che è in realtà molto complesso». Il problema principale, secondo Sarà, è la mancanza di dati sugli effetti che un prelievo massiccio di questi crostacei potrebbe avere sugli ecosistemi infestati. «Noi non sappiamo a che punto siamo della curva di invasione di questo animale, se abbiamo raggiunto il classico plateau oppure se la sua densità è destinata ad aumentare. Senza questo tipo di dati è difficile programmare un intervento mirato ed efficace». 

Di recente Sarà ha partecipato a progetti di studio sul granchio blu e sulla sua capacità di adattarsi alle diverse temperature, ma le ricerche sono ancora in una fase iniziale e secondo lo studioso non è chiaro che cosa potrebbe succedere se dovessimo ridurre la popolazione di Callinectes sapidus in poco tempo. In ogni caso Sarà ha spiegato a Pagella Politica che se anche dovesse andare a buon fine, l’eradicazione tramite pesca potrebbe avere effetti solo per un breve periodo e non in maniera definitiva. «Abbiamo dati sparuti, ma gli studi più attrezzati sono partiti solo pochi mesi fa ed è troppo presto per avere risultati soddisfacenti».

Al netto di queste difficoltà, Sarà è comunque d’accordo sul fatto che è necessario intervenire in fretta per arginare l’invasione dei granchi blu, che lo studioso ha definito «una macchina da guerra» per la voracità di questi crostacei e i danni che portano agli ecosistemi in cui vivono: «Io non contesto l’eradicazione in sé, che può essere una delle soluzioni, ma il fatto che non sappiamo in quanto tempo è possibile eradicare la specie, in che quantità e con quali modalità bisognerà intervenire. Per assurdo, potrebbe avere senso anche lasciare tutto com’è e aspettare che sia la competizione tra gli esemplari di questa specie a portare i granchi blu ad autolimitarsi per continuare a sopravvivere».

I rischi della pesca

Al momento, dunque, sviluppare la pesca del granchio blu sembra essere per gli studiosi una strategia «sensata» ma non priva di rischi. «Il granchio blu può avere diversi utilizzi oltre a quello alimentare, perché il suo carapace (la sua “corazza” esterna) è ricco di componenti come chitina e chitosano che possono essere usati nell’industria cosmetica e in quella farmacologica», ha spiegato Falautano di Ispra. «Ma per sfruttare al massimo questa risorsa va sviluppata una filiera industriale che al momento non esiste». 

Sviluppare una filiera vorrebbe dire però destinare tempo e risorse alla pesca e alla trasformazione del granchio blu in un prodotto commerciale, e il rischio è quello che con il tempo gli operatori possano adottare questa specie più come una risorsa che come un invasore da contenere. Oppure, al contrario, che una volta eradicato il granchio blu dalle nostre coste, tutte le attività impiegate nel settore della trasformazione rimangano senza lavoro. «Come si fa a investire in questo settore se ancora non sappiamo quanto questa risorsa perdurerà nel tempo?» si chiede Sarà. «Magari noi chiediamo agli allevatori di cozze dell’alto Adriatico di modificare le loro catene produttive e di specializzarsi nella raccolta e nella vendita del granchio blu, per poi lasciarli in una situazione peggiore di quella attuale se questa specie dovesse scomparire in un paio d’anni».

Il principale nodo da sciogliere rimane quindi quello relativo alla pesca di questi crostacei, se va promossa una pesca “incontrollata”, fatta al solo scopo di eradicare la specie, oppure se optare per una pesca sostenibile, per una conservazione controllata dei granchi blu e rendere la loro presenza una risorsa economica sfruttabile nel tempo. «Incoraggio fortemente la pesca del granchio blu», ha dichiarato a Pagella Politica Periklis Kleitou, ricercatore della società di consulenza Marine and Environmental Research Lab (MER) di Cipro che si è occupato a lungo delle strategie di pesca delle specie invasive. «Tuttavia esiste una linea sensibile rispetto alla quale dobbiamo essere cauti. Promuovendo la pesca del granchio blu, le comunità di pescatori potrebbero iniziare a fare affidamento su questi stock e puntare alla protezione di questa specie per sostenere i propri mezzi di sussistenza». Questo potrebbe avere delle controindicazioni, dal momento che la presenza di specie aliene come il granchio blu comporta spesso gravi danni all’ambiente. «Trascurare la valutazione di questi impatti e gli intricati compromessi tra equilibrio ecologico e potenziali benefici commerciali potrebbe allontanare da un approccio informato e sicuro».

L’esempio del pesce scorpione

Un esempio in questo senso è quello che è successo in altre zone del mondo con i pesci scorpione, una specie estremamente invasiva proveniente dall’Oceano Pacifico e dal Mar Rosso e i cui esemplari iniziano a essere avvistati anche in Italia. Per diminuire la presenza di questa specie nell’Oceano Atlantico e nel Mar dei Caraibi, in cui arrivarono a partire dagli anni Novanta, i pescatori messicani iniziarono a pescare i pesci scorpione per venderli sul mercato locale e su quello statunitense. In breve tempo però alcuni di essi si specializzarono in questa pesca, diventando di fatto dipendenti dal pesce scorpione per il loro sostentamento. «La nostra ricerca sugli sforzi di gestione dell’invasione dei pesci scorpione ci ha dimostrato che se la strategia di controllo non viene intrapresa in modo rigoroso e con chiari obiettivi di conservazione, può portare la comunità di pescatori a dipendere da questa nuova risorsa, creando quindi la necessità che la pesca di queste specie diventi in qualche modo “sostenibile”», ha detto a Pagella Politica Luis Malpica-Cruz, professore dell’Istituto di osservazione oceanologica dell’Università autonoma della Bassa California, in Messico. «Un programma di eradicazione tramite la pesca deve quindi essere ben strutturato già in partenza se vuole essere efficace dal punto di vista economico e ambientale». 

Dello stesso parere è Anastasia Quintana, ricercatrice dell’Università di Santa Barbara in California che ha indagato gli impatti ecologici e sociali dell’approccio If you can’t beat ‘em, eat ‘em (se non puoi batterli, mangiali) relativi alla pesca del pesce scorpione. «Il consumo di specie invasive di solito porta a effetti sia positivi che negativi, e i presunti scenari “win-win” raramente raggiungono i risultati sperati», ha detto Quintana a Pagella Politica. «È importante riconoscere che probabilmente si dovranno fare dei compromessi. Possono esserci alcuni aspetti positivi della pesca commerciale per le specie invasive quando le comunità di pescatori sono attivamente coinvolte nel processo decisionale e le strategie commerciali si adattano ai cambiamenti e alle esigenze della comunità».

Per gli studiosi la riuscita di una strategia di contenimento di una specie invasiva passa quindi dalla collaborazione tra i decisori politici e gli operatori del mercato: «La comunicazione aperta e la trasparenza con i pescatori sono fondamentali per prevenire ripercussioni indesiderate e promuovere la fiducia e la comprensione tra la comunità scientifica e quella della pesca», ha concluso Kleitou.

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