Il Parlamento lascia spesso in sospeso i trattati internazionali

Finora sono state presentate oltre 100 proposte di ratifica di accordi, ma solo un terzo è stato approvato e alcune riguardano patti siglati decenni fa. Dietro a queste lentezza c’è inerzia e mancanza di volontà politica
ANSA/ GIUSEPPE LAMI
ANSA/ GIUSEPPE LAMI
C’è il trattato con gli Emirati Arabi sul trasferimento delle persone condannate e un accordo economico con il Ghana. C’è un trattato con la Cina per evitare le doppie imposizioni fiscali per i cittadini italiani e cinesi e una convenzione del Consiglio d’Europa contro il traffico di esseri umani. E poi ancora: un protocollo per la salvaguardia dei diritti umani e un accordo di cooperazione con la Bolivia. Questi sono solo alcuni dei trattati internazionali che l’Italia ha firmato in questi anni, ma che la Camera e il Senato non hanno ancora ratificato. Come vedremo, infatti, dopo la firma da parte dei governi, alcuni trattati internazionali per entrare in vigore richiedono il via libera proprio del Parlamento.

Secondo le verifiche di Pagella Politica, in questa legislatura sono stati presentati in Parlamento oltre 100 disegni di legge di ratifica di accordi internazionali sottoscritti dal nostro Paese, ma solo un terzo è stato approvato definitivamente. Alcuni disegni di legge si riferiscono a volte allo stesso trattato, e in molti casi riguardano accordi firmati dall’Italia decine di anni fa, ma mai ratificati e di conseguenza mai entrati di fatto in vigore. Questi accordi, spesso molto tecnici, avrebbero se ratificati delle ricadute dirette sulle vite delle persone, e porterebbero anche potenziali benefici. Per esempio, lo scorso 8 gennaio la Camera ha approvato in via definitiva la ratifica di un trattato per evitare le doppie imposizioni fiscali per i cittadini con la Libia e prevenire l’evasione fiscale, agevolando i rapporti economici e le attività degli imprenditori italiani nel Paese nordafricano, e viceversa. C’è però un dettaglio non da poco: il trattato con la Libia è stato sottoscritto dal governo italiano nel 2009, ossia 16 anni fa, quando la situazione nel Paese nordafricano era completamente diversa rispetto a ora e al potere c’era ancora il generale Mu’ammar Gheddafi.

Insomma, spesso i governi firmano trattati che poi non entrano mai in vigore, o comunque vengono attuati solo parecchi anni dopo. Dietro a questa lentezza ci sono vari fattori, dalla mancanza di volontà politica al calendario dei lavori delle camere, fino alle diatribe tra i partiti, che a volte hanno trasformato i trattati internazionali in terreno di scontro politico.

Di che cosa stiamo parlando

I trattati internazionali sono accordi tra l’Italia e altri Stati su materie specifiche. Dopo essere stati firmati dai governi nazionali, per entrare in vigore gli accordi internazionali devono essere ratificati dal presidente della Repubblica ed entrano quindi in vigore a tutti gli effetti. Per alcuni trattati, però, è richiesto un passaggio in più. Secondo la Costituzione, infatti, la ratifica dei trattati di natura politica, di quelli che intervengono su questioni giudiziarie, quelli che comportano variazioni dei confini, quelli che richiedono maggiori spese per le casse dello Stato e quelli che in generale modificano delle norme deve essere autorizzata dal Parlamento. Per ratificare questo tipo di trattati il Parlamento deve approvare un disegno di legge, che di solito contiene il testo del trattato e pochi articoli che ne autorizzano la ratifica e specificano gli eventuali costi per lo Stato dal punto di vista economico. 

Ma come mai se un trattato è già stato firmato dal governo deve essere approvato di fatto anche dal Parlamento? «Il fatto che alcuni tipi di trattati debbano passare per forza per l’approvazione di Camera e Senato è una sorta di garanzia, introdotta nella Costituzione, per far sì che anche il Parlamento sia partecipe delle scelte del governo sul piano internazionale», ha spiegato a Pagella Politica Alfonso Celotto, professore di diritto costituzionale all’Università Roma Tre. In concreto, però, nei casi in cui i trattati vengono esaminati, spesso la discussione parlamentare è molto veloce e assume il carattere quasi di una formalità. Su questo ci torneremo più avanti. 

Secondo le verifiche di Pagella Politica, dall’inizio di questa legislatura, ossia dal 13 ottobre del 2022, sono stati presentati in Parlamento 103 disegni di legge di ratifica di accordi internazionali. Tra questi, quelli approvati definitivamente sono stati 35, solo un terzo. Al momento, questa percentuale è la seconda più bassa negli ultimi trent’anni, ossia dal 1996. Nella scorsa legislatura, tra il 2018 e il 2022, il Parlamento aveva approvato il 59 per cento dei disegni di legge di ratifica di trattati internazionali, una percentuale simile alla legislatura precedente, quella tra il 2013 e il 2018. Prima ancora, dal 2008 al 2013, questa percentuale era pari al 54 per cento. Nella quindicesima legislatura, ossia dal 2006 al 2008, la percentuale di disegni di ratifica approvati è stata pari al 32 per cento, mentre nelle due precedenti era stata rispettivamente dell’86 per cento e del 77 per cento. 

Insomma, negli anni, fatta eccezione per il periodo tra il 2006 e il 2008, è diminuita la percentuale di disegni di legge di ratifica approvati dal Parlamento. Questo non vuol dire però che ci siano meno trattati da ratificare. Basti pensare che, ad oggi, almeno 40 disegni di legge di ratifica presentati si riferiscono ad accordi risalenti a oltre dieci anni fa. E tra questi c’è anche l’accordo con la Libia sulle doppie imposizioni fiscali, approvato di recente dopo 16 anni dalla firma.

Inerzia e mancanza di volontà politica

I motivi dietro a questa lentezza sono diversi. «I ritardi nell’approvazione dei trattati sono dovuti sicuramente a un’inerzia e una mancanza di volontà politica, spesso determinate dalle priorità che si manifestano man mano nei lavori del Parlamento e del governo, che fanno slittare la ratifica di questi accordi», ha spiegato a Pagella Politica il deputato di Più Europa Benedetto Della Vedova, in Parlamento per quattro legislature dal 2006 a oggi. 

Un esempio di quanto affermato da Della Vedova è proprio il trattato da poco ratificato con la Libia. Il trattato è stato infatti firmato a Roma il 10 giugno del 2009 dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e dall’allora leader libico Gheddafi. L’accordo rientrava nelle relazioni molto strette che lo stesso Berlusconi aveva creato in quegli anni con Gheddafi, di fatto dittatore della Libia dal 1977.  

In seguito, però, il disegno di legge di ratifica del trattato è stato presentato in Parlamento solo a maggio del 2021, durante il governo Draghi, di cui ha fatto parte lo stesso Della Vedova come sottosegretario al Ministero degli Esteri. All’epoca il ministro degli Esteri era l’ex capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio, oggi rappresentante speciale dell’Unione europea per il Golfo Persico. Nel frattempo, il trattato è stato anche modificato nel 2014 con l’introduzione della dicitura «Stato di Libia», anziché «Gran Giamahirya Araba Libica Popolare Socialista», il nome ufficiale dello stato libico all’epoca di Gheddafi. Quest’ultimo ha infatti governato il Paese fino a ottobre 2011, quando il suo governo è stato rovesciato in seguito alla scoppio di una guerra civile.
La tenda beduina installata a Villa Pamphili a Roma il 10 giugno 2009 in occasione della visita dell’allora leader libico Gheddafi, in un articolo del quotidiano l’Unità – Fonte: Archivio storico l’Unità
La tenda beduina installata a Villa Pamphili a Roma il 10 giugno 2009 in occasione della visita dell’allora leader libico Gheddafi, in un articolo del quotidiano l’Unità – Fonte: Archivio storico l’Unità
Nella scorsa legislatura, il disegno di legge di ratifica del trattato con la Libia non ha comunque concluso nemmeno l’esame in Commissione Esteri al Senato. Il testo è stato quindi ripresentato dal governo Meloni a maggio del 2024, per poi essere definitivamente approvato otto mesi più tardi. «Il fatto che il trattato con la Libia sia stato ripreso in mano ovviamente non è un caso. Fa parte del piano del governo sull’Africa, per favorire la crescita e gli investimenti in quei Paesi», ha spiegato a Pagella Politica il capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione Affari Esteri alla Camera Giangiacomo Calovini. Da quando è in carica, il governo Meloni sta infatti portando avanti intense relazioni con diversi Paesi del Nordafrica, con l’obiettivo soprattutto di limitare le partenze di migranti in direzione del nostro Paese. 

Finora, la stessa presidente del Consiglio è stata più volte a Tripoli, la capitale della Libia: per esempio, a gennaio del 2023 ha incontrato il primo ministro del Governo di Unità Nazionale della Libia, Abdulhameed Mohamed Dabaiba, mentre più di recente, a ottobre del 2024, ha partecipato a un Business Forum Italia-Libia in cui erano presenti imprenditori sia italiani che libici, che hanno discusso di diverse tematiche, dall’energia alle infrastrutture, dalla farmaceutica all’agricoltura. In più, come si legge nel comunicato stampa della Presidenza del Consiglio dei ministri, nella riunione c’è stata anche «una sessione dedicata all’illustrazione delle forme di sostegno pubblico alle società italiane che intendono impegnarsi in Libia da parte di ICE, SACE e SIMEST». Quest’ultime sono tutte società pubbliche, che si occupano in vario modo di sostenere economicamente le imprese italiane all’estero. L’ICE è l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane; SACE è il Gruppo assicurativo-finanziario italiano controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze; mentre SIMEST è una società del Gruppo Cassa Depositi e Prestiti che sostiene la crescita delle imprese italiane nel mondo. 

Insomma, il trattato per evitare le doppie imposizioni con la Libia è  stato firmato nel 2009 ma poi, sia per inerzia, sia per mancanza di volontà politica, è stato ratificato solo a gennaio di quest’anno su iniziativa del governo Meloni.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni con il primo ministro Dabaiba al Business Forum Italia-Libia a Tripoli – Fonte: Presidenza del Consiglio dei ministri
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni con il primo ministro Dabaiba al Business Forum Italia-Libia a Tripoli – Fonte: Presidenza del Consiglio dei ministri

Diatribe politiche

Se alcuni trattati sono di fatto dimenticati per molto tempo e vengono ratificati decenni dopo, altri sono diventati un vero e proprio terreno di scontro politico. E proprio per questo motivo il Parlamento non è mai riuscito a ratificarli. 

Un esempio in questo senso è la ratifica della riforma del trattato che nel 2012 ha istituito il Meccanismo europeo di stabilità (MES). Il MES è stato creato nel 2012 per aiutare i Paesi che adottano l’euro (oggi sono 20) nel caso di crisi economica. Per questo motivo il MES è noto anche con il nome di “Fondo Salva-Stati”. All’inizio del 2021, sul finir del secondo governo di Giuseppe Conte, i Paesi dell’area euro hanno firmato un accordo per riformare il trattato con cui è stato istituito il MES, introducendo alcune novità sugli strumenti che il MES può fornire per supportare gli Stati in difficoltà. Per entrare in vigore, la riforma del trattato del MES deve essere però ratificata da tutti i Parlamenti nazionali dei suoi Paesi membri. A oggi l’Italia è l’unico membro del Mes a non aver ratificato la riforma. Chi volesse chiedere aiuto al MES potrebbe farlo chiedendo l’attivazione di uno degli strumenti già a disposizione dal 2012. Le novità messe in campo dalla riforma restano invece bloccate.

Dietro alla mancata ratifica della riforma del MES c’è il fatto che non c’è mai stata unità tra i partiti al governo, né nel secondo governo Conte, né in quelli successivi, ossia il governo Draghi e ora il governo Meloni. In generale, tra i partiti oggi al governo, Fratelli d’Italia e la Lega sono stati sempre contrari alla ratifica della riforma del MES, considerato sostanzialmente uno strumento che costituirebbe un pericolo per l’Italia. Al contrario Forza Italia ha assunto negli anni una posizione più favorevole alla riforma di questo meccanismo. Per quanto riguarda le opposizioni, il PD è favorevole alla ratifica della riforma, così come Italia Viva e Azione, mentre il Movimento 5 Stelle si è detto contrario, nonostante Conte fosse presidente del Consiglio in occasione della firma della riforma a livello europeo. In ogni caso, in questi anni sul MES tutti i partiti hanno diffuso informazioni sbagliate, scambiandosi accuse reciproche per non avere ratificato la riforma o, viceversa, per avere contribuito alla firma della riforma a livello europeo. Di recente, a dicembre del 2023, lo scontro tra i partiti a livello parlamentare ha portato addirittura alla creazione di un Giurì d’onore alla Camera per verificare la fondatezza delle accuse sul MES fatte da Meloni a Conte. Alla fine però, il Giurì d’onore chiesto dal presidente del Movimento 5 Stelle non è di fatto servito a nulla, perché lo stesso Conte ne ha chiesto lo scioglimento prima ancora che la commissione speciale potesse esprimere i suoi risultati. 

In questa legislatura sono stati presentati cinque disegni di legge per la ratifica della riforma del MES, tutti da parte di partiti all’opposizione. Tra questi, due disegni di legge, uno del PD e uno di Italia Viva, sono stati respinti alla fine di dicembre del 2023, mentre per gli altri tre non è ancora iniziato l’esame parlamentare.
La sede del Meccanismo europeo di stabilità (MES) a Lussemburgo – Fonte: Ansa
La sede del Meccanismo europeo di stabilità (MES) a Lussemburgo – Fonte: Ansa
Un caso simile al MES è la ratifica del Comprehensive economic and trade agreement (in italiano “Accordo economico e commerciale globale) tra il Canada, l’Unione europea e i suoi Stati membri, più conosciuto con l’acronimo “CETA”. Il CETA è stato firmato nel 2017, quando in Italia il governo era guidato da Paolo Gentiloni. Il CETA è stato finora ratificato da tutti gli Stati membri dell’Unione europea, a eccezione dell’Irlanda, della Francia e, per l’appunto, dell’Italia. 

«Io ho lavorato sul CETA nel 2017. All’epoca riuscimmo a far approvare a fatica la ratifica del trattato dalla Commissione Esteri del Senato, ma poi è finita la legislatura e da lì si è bloccato tutto», ci ha raccontato Della Vedova, che è stato sottosegretario agli Esteri anche nel governo Gentiloni. Dopo le elezioni politiche del 2018, si è insediato il primo governo Conte, quello sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle, entrambi molto critici nei confronti del trattato. Nel “contratto di governo” firmato da Lega e Movimento 5 Stelle era presente una netta critica di alcuni aspetti del CETA e la promessa di opposizione ad alcuni aspetti di questo e altri trattati commerciali. Dopo la caduta del primo governo Conte, il trattato con il Canada non è stato ratificato comunque né dal secondo governo Conte, né dal governo Draghi, dato che in entrambi i partiti che sostenevano i governi avevano posizioni diverse in merito. In ogni caso, a differenza della riforma del MES, alcune parti del CETA sono già in vigore nonostante il trattato non sia stato ratificato. Il testo del CETA prevede infatti che, in attesa della ratifica da parte di tutti i Paesi dell’Ue, l’accordo sia applicato in via provvisoria su specifici punti. Per esempio, sono applicate in via provvisoria alcune disposizioni riguardo gli investimenti tra il Canada e gli Stati membri dell’Ue. 

In questa legislatura sono state depositate in Parlamento due proposte di ratifica del CETA, una da parte di Azione alla Camera, l’altra da parte del PD al Senato. La proposta del PD al Senato non è stata ancora esaminata. Per quanto riguarda la proposta di Azione, a giugno del 2023 la Commissione Esteri della Camera ha iniziato l’esame del testo svolgendo una serie di audizioni di esperti e di associazioni di categoria. Il ciclo di audizioni si è concluso a febbraio del 2024, ma da lì in poi l’esame non è più proseguito.

Calendari affollati

Come anticipato, al di là della mancanza di volontà politica, la lentezza con cui il Parlamento ratifica i trattati internazionali dipende dal fatto che in molti casi questi testi vengono scavalcati da questioni più urgenti nel dibattito pubblico.

Spesso i calendari dei lavori di Camera e Senato sono dunque organizzati per esaminare più trattati internazionali in un’unica seduta d’aula, in cui nella maggior parte dei casi non c’è di fatto un vero e proprio dibattito. Per esempio, l’8 gennaio, oltre al trattato con Libia, il Parlamento ha approvato allo stesso tempo la ratifica di altri tre trattati internazionali: uno con l’Albania sul tema della sicurezza sociale firmato dal governo l’anno scorso; uno con gli Emirati Arabi per il trasferimento delle persone condannate siglato nel 2022; e un altro con la Francia firmato l’anno scorso per la manutenzione di una ferrovia che collega Ventimiglia, Cuneo e Breil-sur-Roya, una cittadina francese al confine con la Liguria. Per tutti quest’ultimi trattati la discussione è stata molto rapida, tanto che alcuni gruppi parlamentari non sono nemmeno intervenuti in dichiarazione di voto, lasciando depositate le loro intenzioni alla presidenza della Camera. Le dichiarazioni di voto sono la fase in cui un rappresentante espone all’aula l’intenzione di voto del proprio gruppo, motivandola ed è il momento immediatamente precedente appunto alla votazione finale su un provvedimento. 

Solo il trattato con la Libia ha suscitato una certa discussione tra i parlamentari. In particolare, i deputati del Partito Democratico hanno presentato un ordine del giorno per chiedere al governo di dare maggiori informazioni al Parlamento rispetto a come sarà applicato il trattato, visto che è stato siglato nel 2009. Sull’ordine del giorno il governo ha però espresso parere contrario e la maggioranza di centrodestra lo ha bocciato.

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