Tutti i limiti del nuovo reato di femminicidio

La proposta del governo ha vari problemi: il principale è il rischio di incostituzionalità
Un momento della sentenza del processo, presso la prima Corte d’assise del Tribunale di Roma, per il femminicidio di Martina Scialdone, l’avvocata uccisa nel 2023 dall’ex compagno – ANSA/ANGELO CARCONI
Un momento della sentenza del processo, presso la prima Corte d’assise del Tribunale di Roma, per il femminicidio di Martina Scialdone, l’avvocata uccisa nel 2023 dall’ex compagno – ANSA/ANGELO CARCONI
Il 14 marzo, in un’intervista con La Verità, la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità Eugenia Roccella ha difeso il disegno di legge con cui il governo vuole introdurre nel codice penale il nuovo reato di femminicidio

Secondo Roccella, il disegno di legge «non stabilisce che uccidere una donna sia eticamente più grave che uccidere un uomo, neanche dal punto di vista giudiziario». Questo sarebbe dimostrato dal fatto che la pena prevista per il femminicidio «coincide con quella a cui si arriva con l’aggravante già prevista dall’articolo 577 del codice penale, che si applica per esempio all’omicidio del coniuge, del convivente o di una persona cui si è legati da una relazione affettiva». 

È vero che il governo vuole punire il nuovo reato di femminicidio con l’ergastolo, la stessa pena prevista attualmente dal codice penale per l’omicidio del partner, sposato o meno. Ma il ragionamento di Roccella non sembra tenere conto del fatto che il governo ha formulato il reato di femminicidio non considerando una situazione oggettiva (come il matrimonio o la relazione affettiva) valida sia per gli uomini sia per le donne, ma qualcosa di più sfumato, più difficile da dimostrare e potenzialmente incostituzionale, perché rischia di discriminare, appunto, gli uomini rispetto alle donne.

Il rischio discriminazione

A oggi non è ancora disponibile il testo ufficiale del disegno di legge approvato il 7 marzo dal governo, che propone di introdurre il reato di femminicidio. Il suo contenuto è stato riassunto in un comunicato stampa. Qui si legge che il nuovo articolo 577-bis del codice penale vuole punire con l’ergastolo «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità».

Di conseguenza, per configurare il reato di femminicidio non contano né l’eventuale legame familiare o affettivo tra l’omicida e la vittima, né il sesso di chi commette l’omicidio. Ciò che importa è il sesso della vittima – deve essere donna – e il motivo per cui è stata uccisa.

A differenza di quanto sostiene Roccella, questo crea il rischio che siano previste pene diverse in base al sesso della vittima. E questo potrebbe violare il principio costituzionale dell’eguaglianza davanti alla legge, stabilito dall’articolo 3 della Costituzione, in base al quale: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Facciamo un paio di esempi. Se un marito uccide la moglie per impossessarsi della sua eredità, la pena prevista dall’articolo 577, comma 1 del codice penale è l’ergastolo. Lo stesso vale se è la moglie a uccidere il marito. Le intenzioni dell’omicida – siano esse passionali, economiche o altre ancora – non importano. Insomma, il modo in cui è scritto l’articolo 577 del codice penale non discrimina sulla base del sesso, mentre lo stesso non sembra potersi dire per il nuovo reato di femminicidio.

Se un uomo uccidesse una donna sua conoscente, con cui non ha legami affettivi, «per reprimere l’esercizio dei suoi diritti», il reato di femminicidio prevederebbe l’ergastolo per l’assassino (questo vale anche se a uccidere la donna fosse un’altra donna con cui non esiste alcun legame affettivo, per esempio una collega, ma su questo punto torneremo tra poco). 

Se accadesse invece a un uomo di essere la vittima di un omicidio simile, la pena per il colpevole sarebbe quella prevista per il reato di omicidio, punito dall’articolo 575 del codice penale con la reclusione in carcere per almeno 21 anni. Si può ipotizzare che in questo caso possano essere applicate delle aggravanti, ossia le circostanze previste dall’articolo 61 del codice penale che aumentano la pena prevista, a seconda dei casi concreti. Tra le aggravanti, per esempio, c’è «l’avere agito per motivi abietti o futili».

Ma senza un’esplicita menzione nel codice penale delle stesse caratteristiche previste per il reato di femminicidio anche nel caso degli uomini – «atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto uomo o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità» – potrebbe esserci il rischio che due condotte identiche siano punite in modo diverso solo in base al sesso della vittima.

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Il rischio di applicazioni paradossali

In più, per come è stato formulato dal governo, il nuovo reato di femminicidio rischia di essere applicato in situazioni che con il femminicidio non hanno nulla a che vedere. Almeno per come è inteso il “femminicidio” nel dibattito pubblico, ossia l’uccisione di una donna da parte del partner o dell’ex partner per motivi passionali. Vediamo alcuni esempi.

Se due colleghe con idee politiche opposte litigassero il giorno delle elezioni, e se pur di non farla votare, la prima uccidesse la seconda, reprimendo così l’esercizio di un suo diritto, si applicherebbe il nuovo reato di femminicidio? O se una madre uccidesse la figlia perché non vuole che intraprenda una determinata carriera? O, ancora, se una nipote uccidesse la nonna vedova perché non vuole che si sposi con un nuovo marito? Si può ritenere che in questo caso l’omicida voglia reprimere l’espressione della personalità della vittima, e il reato sarebbe applicabile?

Il disegno di legge del governo potrà cambiare durante il suo percorso in Parlamento: il testo dovrà essere infatti esaminato, nel caso modificato e approvato sia dalla Camera sia dal Senato. Successivamente, nel caso in cui dovesse diventare un caso giudiziario, potrà finire sotto il giudizio della Corte Costituzionale. Per come è scritto ora, sembra evidente che il disegno di legge rischia di essere applicato a situazioni che con i femminicidi comunemente intesi non hanno a che vedere.

Uno scopo ristretto

Le parole della ministra Roccella rendono evidente un altro aspetto discutibile del disegno di legge proposto dal governo: il suo scopo limitato. Se l’articolo 577 del codice penale punisce già con l’ergastolo l’omicidio del coniuge, del convivente e in generale di chi ha una «stabile relazione affetiva», oltre che dell’ascendente e del discendente (madri, padri, figli, figlie, nonni eccetera), quanti sono i casi che restano scoperti?

Secondo le stime più aggiornate di ISTAT, nel 2023 in Italia ci sono stati 96 femminicidi su 117 omicidi volontari con una vittima donna. ISTAT usa come definizione di femminicidio quella concordata dalla Commissione statistica delle Nazioni Unite, che differisce da quella del governo Meloni. 

Dei 96 femminicidi conteggiati nel 2023, 48 – la metà esatta – sono stati commessi da partner. Dei rimanenti 48, 31 sono stati commessi da parenti (ISTAT non distingue tra ascendenti, discendenti, fratelli, sorelle e via dicendo), 15 da ex partner e due da conoscenti con moventi passionali.

Dunque, il nuovo reato di femminicidio si applicherebbe a 17 casi, più quelli commessi da parenti diversi da ascendenti e discendenti tra i 31 riportati dall’ISTAT. Una minoranza del totale.

Un’alternativa più semplice?

La quasi totalità degli omicidi per cui non è previsto l’ergastolo – come quelli che riguardano l’ex partner o parenti non ascendenti o discendenti – è poi già disciplinata dall’articolo 577, comma 2 del codice penale. Questo articolo stabilisce una pena compresa tra 24 e 30 anni di reclusione (il massimo previsto prima dell’ergastolo) per l’omicidio del coniuge divorziato, di una persona con cui il colpevole aveva avuto una stabile convivenza o relazione affettiva, del fratello o della sorella, e degli affini in linea retta, come suoceri, cognati e nuore.

Al governo si può obiettare che avrebbe potuto proporre una modifica dell’articolo 577, comma 2 del codice penale, equiparando la pena a quella prevista dal comma 1, per ottenere il risultato voluto: la pena dell’ergastolo per tutti i femminicidi. In questo modo si sarebbero evitati i rischi di incostituzionalità per discriminazione sessuale di cui abbiamo dato conto.

Ricapitolando: l’introduzione di un nuovo reato con le caratteristiche viste sopra solleva diversi problemi. Il principale è la probabile incostituzionalità di una pena che varia non in base alla condotta, ma al sesso della vittima.

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