Gli indennizzi per i balneari hanno parecchi problemi

Li ha messi in fila il Consiglio di Stato, esaminando la bozza di un decreto criticata anche dalla Commissione europea
ANSA
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Negli scorsi giorni è arrivato un ennesimo e doppio sviluppo sull’annosa vicenda che riguarda l’Italia, l’Unione europea e l’obbligo di mettere a gara le concessioni balneari. 

Una spiaggia è un bene pubblico che lo Stato può dare in concessione a un privato, che la usa per un’attività economica in cambio del pagamento di un canone. Per anni, in Italia le concessioni degli stabilimenti balneari sono state rinnovate senza gare, in violazione delle norme europee. In altre parole, chi aveva già una concessione se la vedeva rinnovare automaticamente, senza che lo Stato aprisse una gara per scegliere eventualmente un nuovo gestore. 

Per non scontentare i balneari, il governo Meloni ha introdotto una soluzione di compromesso: le gare saranno organizzate, ma chi le vincerà dovrà pagare un indennizzo, vale a dire una sorta di “compensazione”, a chi perde la concessione. Ma il decreto ministeriale che ha stabilito come calcolare questi indennizzi è stato di recente criticato da due istituzioni.

Il 22 luglio, Il Giornale ha divulgato il contenuto di una lettera in cui la Commissione europea sostiene che gli indennizzi creino un vantaggio ingiustificato per i gestori uscenti. Un portavoce della Commissione Ue ha confermato che il «dialogo con le autorità italiane» sta proseguendo per trovare una «soluzione costruttiva» a questo problema. 

Sempre il 22 luglio, è stato pubblicato un parere del Consiglio di Stato, l’ultimo grado della giustizia amministrativa in Italia, che però in questo caso si è espresso in sede consultiva. Il parere, pur non essendo vincolante, dovrà essere tenuto in considerazione dal governo, poiché alcuni dei rilievi sollevati evidenziano un possibile contrasto tra il decreto ministeriale e la normativa dell’Unione europea, tale da legittimare la disapplicazione del decreto stesso.

Un rinvio continuo

Prima di vedere che cos’ha scritto nel dettaglio il Consiglio di Stato, è utile fare un breve riassunto delle tappe precedenti. 

Nel 2006 la direttiva “Bolkestein” – che prende il nome dall’ex commissario europeo Frits Bolkestein – ha imposto agli Stati membri dell’Ue di garantire che l’accesso a un’attività economica su suolo pubblico, come le concessioni balneari, avvenga tramite procedure di selezione imparziali e trasparenti, vietando le proroghe automatiche.

La direttiva è stata recepita in Italia nel 2010, ma non ha mai operato: le concessioni demaniali marittime sono state di volta in volta prorogate.

Nel 2008 la Commissione Ue aveva avviato una procedura d’infrazione, a seguito della quale l’Italia aveva annunciato la revisione della materia, estendendo al contempo le concessioni in essere fino al 31 dicembre 2015. La Commissione aveva quindi archiviato la procedura, in attesa del riordino del settore. Nel 2016 il governo del tempo ha disposto una proroga ulteriore, e poi un’altra proroga è stata fissata da quello successivo, nel 2018, fino al 31 dicembre 2033. Ma la riforma delle concessioni non è mai stata varata.

Nel 2020 la Commissione Ue ha avviato una nuova procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, accusandola di non aver adottato misure adeguate per eliminare le proroghe automatiche delle concessioni balneari e per garantire l’indizione di gare pubbliche.

Un anno dopo, anche il Consiglio di Stato ha stabilito che le proroghe automatiche fossero in contrasto con la direttiva “Bolkestein”. Le concessioni dovevano essere assegnate tramite gara. Per cui i giudici hanno stabilito che quelle già in essere sarebbero rimaste valide fino al 31 dicembre 2023, diventando «prive di effetto» dopo tale data; e che eventuali proroghe successive avrebbero dovuto essere disapplicate sia dalla pubblica amministrazione che dai tribunali.

Il termine fissato dal Consiglio di Stato è stato recepito dal governo Draghi, con la legge annuale sulla concorrenza approvata nell’agosto del 2022, prevedendo però che la scadenza potesse slittare di un anno, qualora «ragioni oggettive» impedissero la conclusione delle gare entro la fine del 2023. 

All’inizio del 2023, durante la conversione in Parlamento del decreto-legge “Milleproroghe” varato dal governo Meloni, i partiti della maggioranza hanno posticipato i termini precedentemente fissati, rispettivamente al 2024 e al 2025. La motivazione è stata che questa ulteriore proroga di un anno serviva a completare una mappatura delle spiagge e a verificare se fossero un bene scarso. La scarsità del bene è, infatti, il presupposto per l’applicazione della direttiva “Bolkestein”. Per cui, se le spiagge nazionali fossero risultate un bene non scarso, la direttiva non sarebbe stata applicabile, e sarebbe decaduto così anche l’obbligo di mettere a gara le relative concessioni. Ma, poco dopo, il Consiglio di Stato ha ribadito che anche questa nuova proroga automatica delle concessioni andasse disapplicata, in continuità con quanto deciso nel 2021, per contrasto con la direttiva “Bolkestein”.

A sua volta, la Commissione Ue, alla quale il governo aveva trasmesso la mappatura delle spiagge, ne ha contestato la validità: erano state incluse tra le aree disponibili anche quelle dove era vietato o impossibile installare stabilimenti balneari (per esempio, aree industriali o protette), falsando la valutazione relativa alla scarsità del bene. La Commissione Ue ha, quindi, chiesto nuovamente all’Italia di adottare le norme necessarie per organizzare la messa a gara delle concessioni, pena la prosecuzione della procedura di infrazione.

Dopo un’interlocuzione tra l’esecutivo italiano e la Commissione Ue, e con un implicito via libera da parte di quest’ultima, nel settembre 2024 il governo Meloni ha approvato il decreto-legge “Salva infrazioni”, che, come suggerisce il nome, aveva l’obiettivo di evitare o risolvere procedure di infrazione aperte dall’Unione europea nei confronti dell’Italia, tra cui quella sui balneari. Questo decreto ha stabilito l’obbligo di avviare le gare per le concessioni entro il 30 giugno 2027 e ha prorogato l’efficacia di quelle attualmente in vigore fino al 30 settembre 2027.

Per evitare che la proroga venisse considerata generalizzata – e quindi contraria alla direttiva “Bolkestein” – il governo ha demandato agli enti locali la valutazione dei tempi necessari per avviare le gare. Ma nonostante l’approvazione del decreto “Salva infrazioni”, la Commissione Ue ha chiarito che la procedura di infrazione resterà aperta finché l’Italia non si sarà pienamente conformata alla normativa europea.

La trovata degli indennizzi

Il decreto-legge “Salva infrazioni” ha stabilito che, quando una concessione balneare viene assegnata dopo una gara, chi perde la concessione (il concessionario uscente) abbia diritto a ricevere dal nuovo gestore (il concessionario entrante) un indennizzo per gli investimenti fatti e non ancora recuperati, oltre a una somma (definita «equa remunerazione») che garantisca un riconoscimento finanziario sugli investimenti realizzati negli ultimi cinque anni. In questo modo, il governo ha cercato di tutelare i balneari – come promesso nel suo programma elettorale – che sono contrari all’obbligo delle gare perché potrebbero non vincerle, e quindi non vedersi assegnare ancora una volta le concessioni che gestiscono da tempo.

Il decreto ha dato al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti il compito di approvare entro il 31 marzo 2025 un decreto, «di concerto» (cioè insieme) al Ministero dell’Economia e delle Finanze, per stabilire i criteri con cui determinare e quantificare il valore degli indennizzi, e di aggiornare l’importo dei canoni delle concessioni. 

Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha inviato una bozza di questo decreto – ribattezzato “Indennizzi” – alla Commissione Ue e ha chiesto un parere al Consiglio di Stato, che come detto ha sollevato varie obiezioni.

Le critiche del Consiglio di Stato

Innanzitutto, i giudici del Consiglio di Stato hanno sottolineato che non ha fondamento la tesi del “legittimo affidamento” dei vecchi concessionari riguardo all’indennizzo, «se non per singoli e sporadici casi concreti». Il “legittimo affidamento” è un principio giuridico secondo cui chi ha ottenuto dallo Stato un diritto o un vantaggio – in base al quale ha fatto delle scelte operative o degli investimenti finanziari – può confidare che tale diritto o vantaggio non gli venga tolto all’improvviso.

L’articolo 49 del Codice della navigazione stabilisce infatti che alla fine della concessione lo Stato acquisisce automaticamente le opere che non si possono rimuovere, costruite sulla zona data in concessione, «senza alcun onere o rimborso», quindi senza alcun indennizzo.

Inoltre, secondo i giudici, far pagare un “compenso” al gestore subentrante contrasta con l’articolo 12 della direttiva “Bolkestein”, che vieta «di accordare vantaggi al prestatore uscente». È vero che nel 2021 il Consiglio di Stato, richiamando anche la giurisprudenza europea, ha riconosciuto la possibilità «di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti». Ma questo indennizzo, da prevedere al momento dell’assegnazione della concessione, dovrebbe gravare sull’ente concedente – cioè lo Stato – e non sul nuovo concessionario, potendo costituire per quest’ultimo un onere tale da disincentivarlo dalla partecipazione alle gare.

In più, ha sottolineato il Consiglio di Stato, l’indennizzo non dovrebbe essere automatico o calcolato in modo generico, ma limitarsi agli investimenti già fatti e non ancora recuperati. Se tali investimenti non venissero rimborsati, infatti, il nuovo gestore otterrebbe un vantaggio ingiusto. Tutte le altre spese, invece, rientrano  nel normale rischio d’impresa assunto dal precedente gestore, per cui non può essere quello nuovo a doverle “sostenere”.

Problemi di calcolo

I giudici si sono poi soffermati sulle componenti dell’indennizzo e dell’equa remunerazione, così come previste dalla bozza del decreto “Indennizzi”. Le prime, secondo quanto stabilito dal decreto, riguardano gli investimenti relativi a beni materiali «non ammortizzati» alla scadenza, mentre le seconde riguardano gli investimenti relativi a beni immateriali effettuati nei cinque anni precedenti la scadenza della concessione.

Per calcolare l’indennizzo vengono considerati gli investimenti in beni che non si possono rimuovere, in opere di «difficile rimozione» e in beni che invece si possono rimuovere. Tutti questi beni sono rilevanti ai fini della quantificazione dell’indennizzo solo se rispettano tre requisiti: devono avere carattere di strumentalità, cioè essere «parte integrante ed essenziale» della concessione, al punto che il loro trasferimento al nuovo gestore è necessario per «garantire la continuità nella fornitura del servizio»; devono essere legittimi, cioè autorizzati dal titolo concessorio (l’atto ufficiale che assegna la concessione); e devono essere regolari sotto il profilo urbanistico e, secondo i giudici, anche edilizio.

Il Consiglio di Stato ha rilevato che questi criteri, stabiliti dal decreto “Indennizzi”, sono confusi e poco definiti. Per esempio, «il criterio della strumentalità appare generico», così come i criteri dell’inerenza e della necessità. Non è poi chiara la distinzione tra i beni che rientrano negli «investimenti effettuati e non ancora ammortizzati al termine della concessione» e quelli invece riconducibili a «quanto necessario per garantire al concessionario uscente un’equa remunerazione sugli investimenti» degli ultimi cinque anni.

I giudici hanno aggiunto che non è neppure «dato comprendere se tra i beni immateriali cui si riferisce l’equa remunerazione sia annoverabile l’avviamento, che costituisce effettivamente un bene immateriale». Da un lato, l’avviamento – ossia il valore in più che un’azienda ha grazie alla sua reputazione, ai clienti fidelizzati e alla sua posizione sul mercato – non presuppone un investimento specifico in beni immateriali, come invece richiede lo schema di decreto ai fini della corresponsione di un’equa remunerazione, per cui sembrerebbe escluso da quest’ultima. Dall’altro lato, esso rappresenta anche «una qualità del patrimonio aziendale» che deriva «in via indiretta» dagli investimenti fatti nel tempo, e questo porterebbe a includerlo nell’equa remunerazione. Tuttavia, ne resterebbe escluso se tali investimenti fossero stati effettuati prima degli ultimi cinque anni.

I giudici hanno rilevato anche altre incoerenze. La bozza di decreto, per esempio, include tra i beni da indennizzare anche quelli che si possono rimuovere, i quali per definizione non sarebbero strettamente legati alla concessione. Questo significa che «l’accollo dei relativi costi sul gestore subentrante sembra risolversi, di fatto, in indebito vantaggio» per il vecchio concessionario, perché comporta «una traslazione del rischio di impresa». Il decreto considera rilevanti anche i beni «di difficile rimozione» – come pontili, scogliere artificiali, stabilimenti e ristoranti – ma per i giudici questa è una categoria «vaga e piuttosto elastica», e comunque si finisce per «trasferire indebitamente i costi di rimozione» al nuovo operatore.

Lo schema di decreto stabilisce poi che il pagamento dell’indennizzo dovuto al concessionario uscente sia garantito dal nuovo gestore tramite una cauzione. Ma siccome il concessionario uscente che partecipa alla gara non può corrispondere un indennizzo a favore di se stesso, non deve nemmeno versare alcuna cauzione, a differenza di tutti gli altri concorrenti. Questo rappresenta un potenziale vantaggio competitivo a suo favore, che secondo i giudici dovrebbe essere «sterilizzato».
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Il “concerto” che non c’è stato

Una delle obiezioni sollevate in via preliminare dal Consiglio di Stato riguarda il “concerto” previsto tra il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e il Ministero dell’Economia e delle Finanze nella predisposizione del decreto “Indennizzi”. Secondo i giudici, questo concerto si è concretizzato non in un lavoro condiviso e partecipato, ma in un «assenso puramente “formale”», da parte del Ministero dell’Economia, «alla prosecuzione dell’iter normativo», basato soltanto sul parere già espresso dalla Ragioneria generale dello Stato (un dipartimento dello stesso ministero), secondo cui il decreto non genererebbe «effetti finanziari negativi a carico della finanza pubblica».

In pratica, il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è limitato a prendere atto della verifica della Ragioneria generale dello Stato sulla neutralità finanziaria del provvedimento, senza fare una propria valutazione «degli interessi e delle complessive e prospettiche ricadute di ordine economico e finanziario dell’intervento normativo», come invece sarebbe stato necessario. Per il Consiglio di Stato, si è trattato di «una competenza sostanzialmente non esercitata».

Questa mancanza è ancora più grave – ha aggiunto il Consiglio di Stato – se si considera che le regole previste dal decreto “Indennizzi” hanno effetti anche sull’aggiornamento dei criteri per calcolare i canoni che devono essere pagati per l’uso dei beni demaniali. Su questo punto, la Corte dei Conti ha più volte sottolineato «la assai scarsa valorizzazione del principio della rimuneratività per l’ente concedente, a dispetto della legislazione di contabilità pubblica». Quest’ultima prevede che le concessioni vengano assegnate tramite gare pubbliche «anche allo scopo di massimizzare l’introito erariale».

Per questo motivo, secondo il Consiglio di Stato, prima di approvare in via definitiva il decreto, sarà «necessario acquisire» un «nuovo e motivato atto di concerto del ministro dell’Economia e delle Finanze».

Poca trasparenza

Secondo quanto affermato nel preambolo del decreto “Salva infrazioni”, che ne costituisce la base giuridica, il decreto “Indennizzi” ha l’obiettivo di rispondere alla «dichiarata necessità di “adottare misure urgenti” per “prevenire l’apertura di nuove procedure di infrazione o l’aggravamento di quelle esistenti”», attraverso «l’immediato adeguamento dell’ordinamento nazionale agli atti normativi dell’Unione europea e alle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea».

Ma, dice il Consiglio di Stato, «la richiesta di parere non è accompagnata dalla documentazione, né comunque integrata da idonei elementi informativi» sull’interlocuzione con le autorità europee. Questa carenza preclude al Consiglio, da un lato, la verifica a monte dell’efficacia delle misure previste dal decreto “Salva infrazioni” nel superare la procedura di infrazione tuttora in corso e volutamente non ancora conclusa; dall’altro lato, preclude la valutazione a valle della coerenza, pertinenza e adeguatezza dei criteri previsti per determinare l’indennizzo e l’equa remunerazione da riconoscere ai gestori uscenti, a carico di quelli subentranti.

Ciò nonostante, i magistrati evidenziano alcuni rischi legati a una possibile «non perfetta o non integrale compatibilità» delle misure in questione con la normativa europea e con le indicazioni della giurisprudenza – in particolare rispetto al divieto di concedere «vantaggi al prestatore uscente» stabilito dalla direttiva “Bolkestein” – avvertendo il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che, se ciò fosse effettivamente riscontrato, il provvedimento potrebbe essere disapplicato in tutto o in parte sia a livello amministrativo sia in sede giudiziaria. Non solo: anche la base giuridica del decreto “Indennizzi” – cioè il decreto “Salva Infrazioni” – potrebbe essere disapplicata dai giudici, se ritenuta in contrasto con il diritto dell’Ue.

Sempre in tema di trasparenza, il Consiglio di Stato ha lamentato l’assenza di informazioni complete sui contributi ricevuti dai soggetti auditi durante le consultazioni che hanno accompagnato la stesura del testo. Il ministero non ha indicato, per esempio, «gli argomenti portati a sostegno delle richieste» avanzate nelle audizioni, «quali istituzioni, enti o associazioni le abbiano formulate, nonché delle risposte date e delle motivazioni fornite a fronte del diniego o dell’accoglimento». Secondo il Consiglio di Stato, sarebbe stato utile dare «conto del contenuto dei chiarimenti richiesti e dell’esito degli approfondimenti operati per la redazione finale dello schema di provvedimento», per permettere l’elaborazione di un parere più informato.

Il Consiglio di Stato ha segnalato poi che «nelle relazioni a corredo della richiesta di parere non si fa alcun cenno a consultazioni intervenute con l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM)», un passaggio che – vista la materia trattata – sarebbe stato «assai opportuno» compiere.

Un’analisi d’impatto carente

Il Consiglio di Stato ha poi sollevato obiezioni sull’analisi di impatto della regolamentazione (AIR) effettuata in relazione al decreto “Indennizzi”. L’AIR è uno strumento che serve a valutare gli effetti di un provvedimento normativo prima che venga adottato. Il suo obiettivo principale è migliorare la qualità delle norme, assicurando che siano necessarie, proporzionate, coerenti con l’ordinamento e che i costi e i benefici per cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni siano ben valutati. Questa analisi è finalizzata a evitare regolazioni inutili o dannose, a confrontare diverse possibili soluzioni regolatorie, a stimare gli impatti economici, sociali e ambientali di una nuova normativa e di favorire la trasparenza e il controllo democratico, rendendo pubbliche le valutazioni fatte. L’AIR è obbligatoria per i disegni di legge e gli atti normativi del governo che hanno un impatto significativo, salvo alcune eccezioni.

L’analisi di impatto allegata alla bozza del decreto “Indennizzi” sostiene che ci sarà «assenza di effetti distorsivi sulla concorrenza» e un «impatto contenuto» per le piccole e medie imprese. Secondo il Consiglio di Stato, però, questa conclusione appare «non supportata da un’analisi sufficientemente approfondita». L’affermazione si basa infatti solo su due elementi: il fatto che le concessioni saranno affidate tramite procedure competitive e il fatto che «nessun soggetto è escluso ex ante dalla partecipazione alla gara, ivi compresi i concessionari uscenti».

Ma per i giudici questo non basta a giustificare l’assenza di effetti distorsivi e l’impatto contenuto dell’indennizzo per i nuovi operatori. Al contrario – ha sostenuto il Consiglio di Stato – «il relativo obbligo, potenzialmente elevato» rispetto alle capacità finanziarie di chi entrerà nel mercato «favorisce implicitamente i concessionari uscenti, che non sono tenuti a versarlo né a farne prima ancora oggetto di correlativo impegno». L’indennizzo resta un costo aggiuntivo che potrebbe scoraggiare i nuovi concorrenti, se non calibrato con attenzione e limitato in modo rigoroso.

Inoltre, hanno aggiunto i giudici, manca anche una valutazione degli «effetti differenziati» che gli indennizzi potrebbero determinare tra gli «operatori di piccole dimensioni e soggetti economici dotati di maggiore forza finanziaria». A questo proposito, secondo il Consiglio di Stato, sarebbe stata utile «un’analisi delle gare già espletate da alcuni comuni, con particolare riferimento all’impatto che gli investimenti in attivi immateriali possono aver avuto sul piano economico e concorrenziale».

L’aggiornamento dei canoni

Infine, lo schema di decreto ha previsto l’aggiornamento dei canoni di concessione attraverso un incremento lineare del 10 per cento rispetto ai valori attuali, al quale si aggiunge la rivalutazione degli importi a partire dal 1999. Su questo punto, l’analisi d’impatto si limita a dichiarare che si è ritenuto opportuno non discostarsi dalla scelta già adottata con il decreto “Salva infrazioni”, il quale, in caso di mancata adozione del decreto, ha previsto un aumento automatico di pari entità percentuale.

Il Consiglio di Stato ha criticato queste affermazioni perché troppo vaghe e non basate su dati numerici o analisi economiche, soprattutto considerando che da tempo molti, tra cui la Corte dei Conti, come detto sopra, denunciano il fatto che le risorse demaniali in Italia non siano valorizzate a sufficienza. I giudici hanno fatto anche notare che non è stato spiegato se siano state valutate altre possibili soluzioni e perché, eventualmente, siano state scartate.

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