Borghi ha ragione: il governo ha alzato tutte le pensioni

La crescita, regolata dalle ultime due leggi di Bilancio, è stata via via più bassa al crescere dei trattamenti pensionistici. Sul punto si dovrà esprimere la Corte Costituzionale
Ansa
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Il 1° ottobre, ospite a È sempre Cartabianca su Rete 4, il senatore della Lega Claudio Borghi si è confrontato (min. 1:58:50) con la vicepresidente del Movimento 5 Stelle Chiara Appendino. Quest’ultima ha accusato il governo Meloni di aver tagliato la rivalutazione delle pensioni dei cittadini, citando un paio di numeri a sostegno della sua tesi. «Una pensione che nel 2022 ammontava a 1.732 euro netti subirà un taglio complessivo di 968 euro. Questo avete fatto: voi tagliate e neanche vi rendete conto», ha dichiarato Appendino. In risposta Borghi ha subito replicato che, al contrario, il governo Meloni ha aumentato «tutte» le pensioni. «Chi ha una pensione alta gli è aumentata lo stesso, ma un po’ meno», ha aggiunto il senatore della Lega.

Abbiamo controllato come stanno davvero le cose e Borghi ha ragione: il governo Meloni ha alzato il valore di tutte le pensioni, con un meccanismo su cui però dovrà esprimersi la Corte Costituzionale.

La rivalutazione delle pensioni

Alla fine del 2022 il Parlamento ha approvato la prima legge di Bilancio del governo Meloni, quella per il 2023, con cui ha modificato le regole della cosiddetta “indicizzazione” delle pensioni. L’indicizzazione delle pensioni è l’adeguamento dell’importo delle pensioni all’aumento dell’inflazione, per mantenere il loro potere d’acquisto nel tempo. Con un decreto di novembre 2022, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha stabilito che nel 2023 il valore delle pensioni sarebbe dovuto aumentare del 7,3 per cento. La legge di Bilancio per il 2023 ha poi inserito alcune condizioni, che modificano questa percentuale a seconda del valore della pensione.

Le pensioni con un valore fino a quello della pensione minima (circa 525 euro lordi al mese) hanno avuto una indicizzazione del 120 per cento, ossia sono aumentate del 7,3 per cento (la percentuale vista sopra), più un ulteriore 1,5 per cento. In concreto, sono aumentate dell’8,8 per cento. Le pensioni con un valore tra la pensione minima e quattro volte la minima (circa 2100 euro lordi al mese) sono state indicizzate al 100 per cento, quindi sono aumentate del 7,3 per cento. Le pensioni con un valore più alto sono aumentate, ma con un’indicizzazione via via più bassa, e non piena. Per le pensioni con un valore tra quattro e cinque volte la minima, l’indicizzazione è stata dell’85 per cento; per quelle tra cinque e sei volte la minima, del 53 per cento; per quelle tra sei e otto volte la minima, del 47 per cento; per quelle tra otto e dieci volte la minima del 37 per cento; per quelle con un valore oltre dieci volte la minima, del 32 per cento. 

Come ha spiegato in un’audizione in Parlamento l’Ufficio parlamentare di Bilancio, un organismo dipendente che vigila sui conti pubblici, lo schema di indicizzazione introdotto dalla legge di Bilancio per il 2023 è stato più favorevole per alcune pensioni, e meno per altre, rispetto a quelli in vigore negli anni precedenti. In ogni caso, i risparmi di spesa ottenuti non indicizzando tutte le pensioni al 100 per cento (ossia non aumentandole tutte nel 2023 del 7,3 per cento) sono stati usati «per la copertura finanziaria di altri provvedimenti della manovra di bilancio».

La legge di Bilancio per il 2024, approvata alla fine dell’anno scorso, è intervenuta di nuovo sul meccanismo di indicizzazione delle pensioni, modificando la percentuale dell’indicizzazione per le pensioni con un valore superiore a dieci volte la minima (parliamo di oltre 5 mila euro lordi al mese). L’indicizzazione di quest’ultime è scesa dal 32 per cento al 22 per cento, mentre per tutte le altre è rimasta uguale a quella dell’anno prima. Per il 2024 l’aumento è stato del 5,4 per cento, più basso del 7,4 per cento in vigore nel 2023, quando però si è cercato di colmare l’aumento di inflazione registrato nel 2022, più alto rispetto ai due anni successivi.

Ricapitolando: Borghi ha ragione quando dice che il governo Meloni ha aumentato tutte le pensioni, con una crescita via via più bassa con l’aumentare del valore delle pensioni.

Da dove viene il dato di Appendino

In tv Appendino ha parlato invece di «tagli», facendo l’esempio di una pensione che nel 2022 valeva «1.732 euro netti subirà un taglio complessivo di 968 euro». Da queste parole può sembrare che un pensionato che percepisca 1.732 euro se ne troverà quasi mille euro in meno, vedendo la sua pensione scendere a 764 euro. In realtà non è così, visto che qui si sta parlando di rivalutazione delle pensioni.

Le cifre citate dalla vicepresidente del Movimento 5 Stelle sono contenute in un’analisi pubblicata il 13 settembre dal Dipartimento previdenza del sindacato CGIL e dello SPI-CGIL, ossia la sezione del sindacato che rappresenta i pensionati. In breve, il sindacato ha assunto che la rivalutazione delle pensioni nel 2025 sarà pari al +1,5 per cento (una percentuale ancora non ufficiale) e che nella prossima legge di Bilancio per il 2025 il governo riproporrà per le varie fasce di pensioni le percentuali di indicizzazione che abbiamo visto sopra (anche su questo non c’è nulla di ufficiale). Il sindacato ha calcolato poi nel triennio 2023-2025 quanti soldi in più avrebbero preso i pensionati se non fosse stato in vigore il meccanismo di indicizzazione approvato dal governo Meloni. Prendendo per buoni i calcoli del sindacato, i 968 euro di cui parla Appendino corrispondono a un ipotetico mancato aumento, non a una riduzione della pensione attuale.

Parola alla Corte Costituzionale

Sul tema è stata chiamata a esprimersi la Corte Costituzionale. Secondo la sezione regionale in Toscana della Corte dei Conti, «la penalizzazione dei titolari di trattamenti pensionistici più elevati» stabilita dal governo Meloni «lede non solo l’aspettativa economica ma anche la stessa dignità del lavoratore in quiescenza». La Corte ha così sollevato una questione di legittimità costituzionale sulla legge di Bilancio per il 2023. 

Il dibattito non è nuovo e non riguarda solo il governo Meloni. «Le regole di indicizzazione sono state ripetutamente riviste negli ultimi dieci anni, per rallentare la crescita della spesa e in risposta alle difficoltà dell’economia», ha spiegato l’Ufficio parlamentare di Bilancio, sottolineando che la Corte Costituzionale ha già preso una posizione sulla questione. In una sentenza del 2020, la Corte Costituzionale ha stabilito infatti che gli interventi di «raffreddamento dell’indicizzazione» sono ammissibili solo quando sono proporzionati, circoscritti nel tempo e giustificati dalla situazione. In quel caso aveva definito ammissibile un intervento contenuto nella legge di Bilancio per il 2019, ma non è detto che prenda la stessa decisione per i più recenti meccanismi di indicizzazione. Per esempio, nel 2015 la stessa Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale una norma con cui il governo Monti aveva disposto il blocco della rivalutazione automatica delle pensioni con un valore superiore a tre volte la minima per gli anni 2012 e 2013. Lo Stato ha così dovuto restituire 17,6 miliardi di euro di mancati aumenti. 

Lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio ha sottolineato che, al di là della decisione della Corte Costituzionale, c’è un’osservazione di fondo da tenere a mente e riguarda «le conseguenze di cambiamenti, ripetuti nel tempo e con carattere subitaneo, nelle modalità di indicizzazione delle pensioni». «Rispetto alle persone in età attiva, i pensionati hanno possibilità molto più ridotte di adottare scelte di immunizzazione o di recupero della dinamica inflattiva e, pertanto, il mantenimento del potere di acquisto dei loro redditi è affidato quasi esclusivamente allo schema di indicizzazione. Ne porta conferma il fatto che la capacità di difendere la pensione dall’inflazione è uno dei vantaggi comparati fondamentali di un sistema pubblico a ripartizione rispetto a uno basato su contratti assicurativi privati», ha sottolineato l’Ufficio parlamentare di bilancio. «Nel primo caso, la migliore capacità dei redditi degli attivi di tenere il passo dell’inflazione va anche a vantaggio dei pensionati, le cui pensioni sono pagate con i contributi raccolti da quei redditi. Nel secondo caso, una costante copertura dall’inflazione su archi temporali lunghi, come quelli pensionistici, risulta, a oggi, molto costosa da acquistare sul mercato o generalmente di proporzioni non sufficienti».

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