La difesa poco convincente di Meloni sull’aumento della pressione fiscale

Secondo la presidente del Consiglio è il lavoro che cresce, non le tasse che salgono. Questa giustificazione è traballante 
ANSA
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Il 3 marzo, ospite del programma Secolo XXI su Rai1, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è difesa dai partiti all’opposizione che, sulla base della crescita della pressione fiscale, accusano il governo di aver aumentato le tasse. Secondo ISTAT, infatti, nel 2024 le imposte e i contributi incassati dallo Stato hanno raggiunto un valore pari al 42,6 per cento del Prodotto interno lordo (PIL), oltre un punto percentuale in più rispetto al 2023. Secondo Meloni, però, questo non dimostra che il governo ha alzato le tasse, anzi: l’aumento della pressione fiscale sarebbe un segnale positivo, anche se il suo governo aveva promesso di abbassarla nel suo programma elettorale.

«Mi trovo un po’ in imbarazzo a dover spiegare a dei parlamentari della Repubblica una cosa del genere, ma forse ci aiuta con i cittadini. Quando aumenta la pressione fiscale, non è necessariamente perché aumentano le tasse», ha detto Meloni. «Quindi perché aumentano i dati sulla pressione fiscale? Perché c’è più gente che lavora, perché questo governo ha portato il record di proventi dalla lotta all’evasione. Quindi le entrate aumentano quando le tasse non aumentano».

Punto per punto, vediamo che cosa torna, e che cosa no, in questa dichiarazione della presidente del Consiglio.

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Come leggere la pressione fiscale

Partiamo dalle basi. La pressione fiscale è il rapporto tra l’intero ammontare delle imposte e dei contributi versati allo Stato da cittadini e imprese, e il Prodotto interno lordo (PIL). Un aumento della pressione fiscale, come quello registrato nel 2024, indica che è aumentato il peso delle tasse e dei contributi versati dai contribuenti sul reddito nazionale. In parole semplici, si sono pagate in media più tasse in percentuale sul reddito prodotto.
La pressione fiscale è un indicatore utile perché mostra in modo sintetico qual è il peso del fisco sui contribuenti e com’è cambiato nel tempo. Questo indicatore, però, non permette di capire se effettivamente un governo ha aumentato (o diminuito) il valore di singole imposte, e se sì, di quali. Per esempio, nel 2024 è rimasto in vigore il taglio del cuneo fiscale (la differenza tra il lordo e il netto in busta paga), diventato permanente dal 2025. Dall’altro lato, l’IVA su alcuni prodotti per la prima infanzia è stata aumentata. 

Ma com’è possibile che lo Stato incassi di più se sono state tagliate le tasse? Perché le entrate pubbliche non dipendono solo dalle tasse sul lavoro. L’IRPEF, la principale imposta sul reddito, raccoglie risorse soprattutto dal reddito da lavoro, ma ci sono molte altre tasse e imposte per cui le entrate possono aumentare. I dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze sulle entrate del 2024 arrivano fino allo scorso novembre: nei primi undici mesi dello scorso anno, sono aumentati non solo gli incassi sull’IRPEF rispetto allo stesso periodo del 2023, ma anche quelli dell’IVA.

Da quanto detto si capisce perché, come ha sottolineato correttamente Meloni, un aumento delle entrate fiscali non è necessariamente una cattiva notizia. Se una persona viene assunta, il fatto che percepisca uno stipendio significa che dovrà pagare delle imposte su quel reddito e questo farà aumentare le entrate fiscali. Nel corso del 2024 l’occupazione è cresciuta, e gli occupati sono aumentati di 274 mila unità. 

Ma come facciamo a capire se questo aumento è “positivo”, ossia se è legato a una crescita dell’attività economica, o “negativo”, ossia legato a una maggiore tassazione da parte dello Stato? Per capirlo dobbiamo trovare un indicatore che possa aiutarci: per questo usiamo il PIL.

Perché si usa il PIL

Il PIL rappresenta la somma di tutti i redditi distribuiti all’interno di un’economia nel corso di un anno. I redditi includono quelli da lavoro, ossia gli stipendi, e quelli da capitale, come i dividendi e i proventi finanziari. Dunque, se una persona trova un nuovo lavoro, il PIL cresce, perché lo stipendio si andrà a sommare a tutti gli altri redditi percepiti dagli occupati italiani. Lo stesso avviene se una società aumenta i propri profitti, che rappresentano il reddito d’impresa. Dall’altro lato, questi redditi vanno tassati, e questo fa aumentare le entrate dello Stato. Come facciamo a capire quale dei due effetti prevale?

Semplificando molto, immaginiamo un’economia con un solo lavoratore che guadagna mille euro al mese, e paga un’imposta del 50 per cento sul suo reddito, pari a 500 euro: questo vuol dire che la pressione fiscale è al 50 per cento. Se si aggiunge un altro lavoratore, che guadagna sempre mille euro al mese e paga un’imposta del 50 per cento, la pressione fiscale sarà del 50 per cento poiché si incassano due redditi da mille euro (per un totale di duemila) e due imposte da 500 euro (per un totale di mille). Mille euro (le entrate fiscali) diviso duemila euro (il PIL immaginario) indica che la pressione fiscale è rimasta la stessa. 

In teoria, se lo Stato non modifica le imposte o non ne introduce di nuove, la pressione fiscale rimane costante, ma ci sono vari casi in cui questo non avviene. Questo perché l’economia è molto più complessa di quanto rappresentato nell’esempio: il lavoratore potrebbe comprare meno beni e servizi, facendo calare le entrate dall’IVA, o potrebbe acquistare un’auto che consuma di più, per cui dovrà comprare più benzina e pagare più accise. Oppure, come ha detto Meloni, lo Stato potrebbe aumentare le entrate dalla lotta all’evasione, un fatto che farebbe crescere il gettito fiscale in generale. E in effetti, nel 2024 e nel 2023 il recupero dell’evasione fiscale è aumentato rispetto agli anni precedenti.
Per questo è importante considerare il livello in percentuale al PIL: se le entrate fiscali, ossia le tasse che devono pagare i contribuenti, aumentano, ma allo stesso tempo cresce anche il nostro reddito, rappresentato dal PIL, la situazione finanziaria rimane in equilibrio: si continuano a pagare la stessa percentuale di tasse, in media.

Dunque, il discorso di Meloni ha senso in termini matematici, ma non economici: se le tasse aumentano di un euro e il PIL aumenta di cinquanta centesimi, significa che i contribuenti devono pagare più tasse rispetto a quanto è cresciuto il reddito. Questo vuol dire che la quota pagata da ciascun cittadino crescerebbe, aumentando la pressione fiscale.

Nel 2024 il governo può vantare una crescita economica (del +0,7 per cento rispetto al 2023), ma ha anche richiesto maggiori risorse ai suoi cittadini, in una misura superiore rispetto alla dimensione di quella crescita stessa.

Le contraddizioni con il passato

C’è poi una contraddizione tra quanto detto da Meloni in televisione e quanto ripetuto per anni da lei stessa quando era all’opposizione. In più occasioni, infatti, la leader di Fratelli d’Italia ha accusato i governi di turno di «soffocare» i cittadini con le tasse, usando a sostegno delle sue accuse proprio l’indicatore della pressione fiscale.
In passato, l’attuale presidente del Consiglio aveva una «geniale» soluzione – per usare le sue stesse parole – contro l’aumento della pressione fiscale: fissare un limite in Costituzione. Nel 2013, insieme ad alcuni colleghi di partito, Meloni ha presentato una proposta di riforma costituzionale che chiedeva di inserire in Costituzione un tetto del 40 per cento della pressione fiscale. Limite superato sia nel 2023 sia nel 2024 sotto il suo governo. 

L’incipit della proposta di riforma poggiava proprio sulla stessa critica che ora le muovono contro i partiti all’opposizione: considerare l’aumento in valori assoluti delle entrate sul PIL per dire che il governo ha aumentato le tasse.

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