Quando un politico italiano vuole sottolineare l’importanza di un settore per l’economia del Paese, spesso ricorre a una strategia molto semplice: dice agli elettori quanto pesa quel settore sul Pil prodotto in Italia. O, detta altrimenti, sottolinea quanta ricchezza viene prodotta ogni anno in Italia grazie a quel settore. Gli elettori devono però stare attenti quando sentono frasi di questo tipo: spesso i politici tendono a esagerare le stime, facendo risultare alcuni settori più importanti per l’economia italiana rispetto a quanto lo sono davvero.
Prendiamo un esempio recente. Lo scorso 16 febbraio il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso (Fratelli d’Italia) ha criticato il Parlamento europeo per aver approvato il divieto di vendere auto a benzina e diesel nell’Unione europea a partire dal 2035. Secondo Urso questa norma danneggia l’Italia: a sostegno della sua posizione il ministro ha dichiarato che l’automotive «rappresenta circa il 20 per cento del Pil italiano». A grandi linee il Pil italiano vale intorno ai 1.800 miliardi di euro: se la dichiarazione di Urso fosse corretta, vorrebbe dire che circa 360 miliardi di euro sarebbero generati grazie all’industria e al commercio di automobili. Le cose non stanno così: secondo le stime più affidabili, l’automotive in Italia genera poco meno del 5 per cento del Pil. Nel complesso l’intera filiera produce un fatturato annuale di oltre 90 miliardi di euro. Se si prendono gli occupati, l’automotive pesa solo per il 7 per cento su tutti gli occupati del settore manifatturiero italiano. Sono numeri significativi, ma lontani dal 20 per cento indicato da Urso.
Per avere un ordine di paragone, secondo i dati Istat ci sono altre industrie che hanno numeri simili: le industrie alimentari hanno un fatturato di oltre 120 miliardi di euro, la fabbricazione di prodotti chimici di oltre 70 miliardi, quella di prodotti in metallo di quasi 90 miliardi di euro e così via altri settori. Calcolare quanto ogni singolo settore impatta sul Pil non è semplice: servono stime e calcoli specifici. Ma questi numeri danno comunque l’idea di quanto impattano altri settori sull’economia italiana.
Una percentuale che spesso è stata ripetuta dai politici negli ultimi anni, anche dall’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, riguarda poi il turismo. Secondo molti questo settore genererebbe tra il 13 e il 15 per cento del Pil italiano. Non è vero: secondo Istat, le attività turistiche contribuiscono a generare circa il 6 per cento del Pil del nostro Paese. Se si considerano tutte le altre attività dell’indotto, questa percentuale sale al 13 per cento. Ma in questo numero rientra un po’ di tutto, ossia il contributo di settori economici come la ristorazione e i trasporti che producono beni e servizi non imputabili esclusivamente al turismo.
Durante la prima ondata della pandemia di Covid-19, nella primavera del 2020, alcuni politici hanno invece rilanciato un curioso dato sul contributo dato dal calcio all’economia italiana. Tra questi c’era l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Simone Valente (Movimento 5 stelle), secondo cui «il calcio professionistico è un’industria che vale il 7 per cento del Pil italiano». Anche qui siamo di fronte a un dato parecchio gonfiato: a essere generosi, il contributo può al massimo arrivare all’1 per cento, tenendo però dentro una parte della ristorazione e dei trasporti coinvolti dagli eventi sportivi. Se si considerano solo le società professionistiche, il giro di affari è intorno allo 0,2 per cento del Pil.
Un altro errore commesso da vari politici riguarda le esportazioni, e più nello specifico confondere il loro valore con il contributo che danno al Pil. Negli ultimi anni l’ex capo politico del Movimento 5 stelle ed ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha più volte ripetuto che più del 30 per cento del Pil italiano è prodotto dal settore dell’export. È vero che il valore delle esportazioni italiane, nel loro complesso, equivale più o meno a un terzo del valore del Pil italiano, ma questo non significa che il nostro Pil sia composto per un terzo dalle esportazioni. Nel calcolo del prodotto interno lordo rientrano infatti solo le “esportazioni nette”, ossia le esportazioni al netto delle importazioni.
Infine ci sono i teatri, i cinema e i concerti, che secondo Lucia Borgonzoni (Lega), oggi sottosegretaria alla Cultura, a ottobre 2020 generavano il 17 per cento del Pil italiano. È falso: secondo i dati più affidabili, i teatri e i concerti valgono circa l’1 per cento del Pil. A essere generosi si arriva al 6 per cento del Pil se si considera il totale delle attività culturali: cinema, radio, tv, editoria, stampa, musica, patrimonio storico-artistico, arti performative, architettura e design e il lavoro dei creativi impiegati in settori non strettamente legati alla filiera.
Fossero vere le dichiarazioni viste finora dei politici, vorrebbe dire che quasi il 90 per cento del Pil italiano è prodotto solo da cinque settori: dalle auto, dal calcio, dal turismo, dall’export e dai teatri, i cinema e i concerti. Come è evidente, non è così.
Prendiamo un esempio recente. Lo scorso 16 febbraio il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso (Fratelli d’Italia) ha criticato il Parlamento europeo per aver approvato il divieto di vendere auto a benzina e diesel nell’Unione europea a partire dal 2035. Secondo Urso questa norma danneggia l’Italia: a sostegno della sua posizione il ministro ha dichiarato che l’automotive «rappresenta circa il 20 per cento del Pil italiano». A grandi linee il Pil italiano vale intorno ai 1.800 miliardi di euro: se la dichiarazione di Urso fosse corretta, vorrebbe dire che circa 360 miliardi di euro sarebbero generati grazie all’industria e al commercio di automobili. Le cose non stanno così: secondo le stime più affidabili, l’automotive in Italia genera poco meno del 5 per cento del Pil. Nel complesso l’intera filiera produce un fatturato annuale di oltre 90 miliardi di euro. Se si prendono gli occupati, l’automotive pesa solo per il 7 per cento su tutti gli occupati del settore manifatturiero italiano. Sono numeri significativi, ma lontani dal 20 per cento indicato da Urso.
Per avere un ordine di paragone, secondo i dati Istat ci sono altre industrie che hanno numeri simili: le industrie alimentari hanno un fatturato di oltre 120 miliardi di euro, la fabbricazione di prodotti chimici di oltre 70 miliardi, quella di prodotti in metallo di quasi 90 miliardi di euro e così via altri settori. Calcolare quanto ogni singolo settore impatta sul Pil non è semplice: servono stime e calcoli specifici. Ma questi numeri danno comunque l’idea di quanto impattano altri settori sull’economia italiana.
Una percentuale che spesso è stata ripetuta dai politici negli ultimi anni, anche dall’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, riguarda poi il turismo. Secondo molti questo settore genererebbe tra il 13 e il 15 per cento del Pil italiano. Non è vero: secondo Istat, le attività turistiche contribuiscono a generare circa il 6 per cento del Pil del nostro Paese. Se si considerano tutte le altre attività dell’indotto, questa percentuale sale al 13 per cento. Ma in questo numero rientra un po’ di tutto, ossia il contributo di settori economici come la ristorazione e i trasporti che producono beni e servizi non imputabili esclusivamente al turismo.
Durante la prima ondata della pandemia di Covid-19, nella primavera del 2020, alcuni politici hanno invece rilanciato un curioso dato sul contributo dato dal calcio all’economia italiana. Tra questi c’era l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Simone Valente (Movimento 5 stelle), secondo cui «il calcio professionistico è un’industria che vale il 7 per cento del Pil italiano». Anche qui siamo di fronte a un dato parecchio gonfiato: a essere generosi, il contributo può al massimo arrivare all’1 per cento, tenendo però dentro una parte della ristorazione e dei trasporti coinvolti dagli eventi sportivi. Se si considerano solo le società professionistiche, il giro di affari è intorno allo 0,2 per cento del Pil.
Un altro errore commesso da vari politici riguarda le esportazioni, e più nello specifico confondere il loro valore con il contributo che danno al Pil. Negli ultimi anni l’ex capo politico del Movimento 5 stelle ed ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha più volte ripetuto che più del 30 per cento del Pil italiano è prodotto dal settore dell’export. È vero che il valore delle esportazioni italiane, nel loro complesso, equivale più o meno a un terzo del valore del Pil italiano, ma questo non significa che il nostro Pil sia composto per un terzo dalle esportazioni. Nel calcolo del prodotto interno lordo rientrano infatti solo le “esportazioni nette”, ossia le esportazioni al netto delle importazioni.
Infine ci sono i teatri, i cinema e i concerti, che secondo Lucia Borgonzoni (Lega), oggi sottosegretaria alla Cultura, a ottobre 2020 generavano il 17 per cento del Pil italiano. È falso: secondo i dati più affidabili, i teatri e i concerti valgono circa l’1 per cento del Pil. A essere generosi si arriva al 6 per cento del Pil se si considera il totale delle attività culturali: cinema, radio, tv, editoria, stampa, musica, patrimonio storico-artistico, arti performative, architettura e design e il lavoro dei creativi impiegati in settori non strettamente legati alla filiera.
Fossero vere le dichiarazioni viste finora dei politici, vorrebbe dire che quasi il 90 per cento del Pil italiano è prodotto solo da cinque settori: dalle auto, dal calcio, dal turismo, dall’export e dai teatri, i cinema e i concerti. Come è evidente, non è così.