La confusione del governo sugli atti “secretati” del caso Paragon

Il governo ha commesso alcuni errori dal punto di vista di diritto sulla segretezza delle informazioni che riguardano lo spionaggio di attivisti e giornalisti
Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano – ANSA
Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano – ANSA
Il 24 febbraio l’organizzazione non governativa (ONG) Mediterranea Saving Humans ha fatto sapere che il suo collaboratore don Mattia Ferrari è stato vittima di attacchi informatici come Luca Casarini, uno dei fondatori della ONG. Nelle scorse settimane, Casarini è stato avvisato da Meta, società proprietaria di WhatsApp, di essere stato spiato insieme ad altri attivisti e giornalisti attraverso il software Graphite, prodotto dalla società Paragon Solutions. Non è ancora chiaro chi abbia usato effettivamente questo software e il governo italiano, con cui Paragon Solutions aveva un contratto di fornitura, non ha dato finora informazioni sufficienti per fare chiarezza sulla vicenda. 

Nei giorni scorsi, lo stesso governo ha fatto confusione in merito ad alcuni presunti atti secretati riguardanti il caso Paragon. In un primo momento ha detto di non poter dare informazioni aggiuntive oltre a quelle già fornite dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, perché gli atti sarebbero “classificati”, ossia di fatto secretati. Nel giro di poche ore, però, il governo ha cambiato versione e nel question time del 19 febbraio il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha dato nuovi dettagli sulla vicenda. 

In più, oltre ad aver cambiato versione, i rappresentanti del governo, in particolare il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, hanno commesso imprecisioni dal punto di vista del diritto. 

Che cosa è successo

Il 18 febbraio il presidente della Camera Lorenzo Fontana ha reso noto ai capigruppo di aver ricevuto una lettera dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano in merito al caso Paragon. Tra i suoi incarichi, Mantovano è l’autorità delegata alla sicurezza della Repubblica ed esercita, per conto della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il controllo sull’operato dei servizi segreti. 

Nella lettera, Mantovano ha comunicato che il ministro Ciriani aveva fornito «le uniche informazioni pubblicamente divulgabili» sul caso Paragon nel question time alla Camera del 12 febbraio. Il sottosegretario ha fatto sapere che, pertanto, «ogni altro aspetto» sulla vicenda avrebbe dovuto «intendersi classificato» e non avrebbe potuto «formare oggetto di informativa da parte del governo se non nella sede del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir)». Di conseguenza, il governo non avrebbe potuto rispondere alle ulteriori interrogazioni presentate dal Partito Democratico e da Italia Viva su Paragon, in programma nel question time del 19 febbraio. A sostegno della sua posizione, Mantovano aveva citato l’articolo 131 del regolamento della Camera, in base al quale «il governo può dichiarare di non poter rispondere» a un’interrogazione indicandone il motivo. 

Sempre il 18 febbraio, in una riunione dei capigruppo alla Camera il governo ha poi cambiato versione, dichiarandosi disponibile a rispondere alle interrogazioni parlamentari, a patto che da esse fosse eliminata ogni richiesta specifica riguardo al caso Paragon e all’uso del software Graphite

Così, il giorno seguente il Partito Democratico ha chiesto a Nordio se fosse «in grado di assicurare alla polizia penitenziaria l’uso delle migliori tecnologie», eliminando ogni riferimento al caso Paragon. A sua volta, il ministro della Giustizia ha risposto citando i finanziamenti stanziati dal suo ministero per la polizia penitenziaria. 

Pur partendo dal caso Paragon, l’interrogazione di Italia Viva chiedeva invece di acquisire informazioni solo su intercettazioni e finanziamenti del ministero della Giustizia al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), al Gruppo operativo mobile (GOM) e al Nucleo investigativo centrale (NIC) – quest’ultimi due sono reparti specializzati della polizia penitenziaria. Sul tema, dopo aver elencato le spese del ministero per le intercettazioni, Nordio aveva precisato che «nessun contratto è mai stato stipulato dal DAP o dalle dipendenti direzioni generali GOM e NIC con qualsivoglia società», e che «nessuna persona è mai stata intercettata da strutture finanziate dal Ministero della Giustizia nel 2024» né «dalla polizia penitenziaria». In altre parole, nonostante la lettera di Mantovano, Nordio ha fornito informazioni inerenti al caso Paragon, o quantomeno rispetto all’attività di controllo eseguita da strutture controllate dal suo ministero. 

Dunque, che cosa intendeva il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dicendo che ogni elemento sul caso stesso fosse «da intendersi» come «classificato», e a quale tipo di segretezza faceva riferimento?

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Il segreto di Stato

Innanzitutto, è bene chiarire che cosa si intende per “segreto di Stato”. Come si legge sul sito del governo dedicato alla sicurezza nazionale, il segreto di Stato «è un vincolo posto dal presidente del Consiglio dei ministri» su «atti, documenti, notizie, attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato». 

Il presidente del Consiglio non può porre il segreto di Stato su qualsiasi atto: secondo la legge n. 124 del 2007, che stabilisce le regole sui servizi segreti, non possono essere secretati «notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale».

Tornando alle parole di Mantovano, non risultava e non risulta ancora oggi che la presidente del Consiglio abbia posto il segreto di Stato su atti che riguardano il caso Paragon. Né poteva farlo Mantovano in qualità di autorità delegata dalla presidente del Consiglio, sebbene le parole usate nella sua lettera potessero indurre a pensarlo. L’apposizione del segreto è infatti «un atto politico che può essere disposto esclusivamente dal presidente del Consiglio dei Ministri», spiega il sito del governo dedicato alla sicurezza nazionale.

Quindi Mantovano non è titolare di un potere di secretazione. E comunque, anche se fosse stato posto il segreto di Stato, sarebbe stato praticamente impossibile per Nordio dare qualsiasi tipo di informazione che poteva riguardare il caso Paragon, come invece ha fatto. Secondo l’articolo 261 del codice penale, chi viola il segreto di Stato è punito con almeno cinque anni di carcere.

Le classifiche di segretezza

Al di là del segreto di Stato, che può essere posto solo dal presidente del Consiglio, altre autorità dello Stato possono classificare e considerare come riservati gli atti la cui diffusione è considerata lesiva della sicurezza nazionale. Ogni atto può essere classificato secondo livelli crescenti di riservatezza, ossia come: riservato (R), riservatissimo (RR), segreto (S) e segretissimo (SS)».

Come si legge sul sito del governo, tali classifiche – a differenza del segreto di Stato, che può essere posto solo dal presidente del Consiglio – sono attribuite dai «soggetti originatori dell’informazione», come «le pubbliche autorità e gli operatori economici, in possesso di abilitazione di sicurezza industriale, che fanno parte dell’organizzazione nazionale di sicurezza». 

In altre parole, l’attribuzione della classifica è rimessa all’autorità – per esempio il ministero, la struttura governativa o l’ente – che forma il documento o l’atto, o acquisisce per prima la notizia su cui serve far calare il velo della riservatezza. Per esempio, nel caso Paragon la classifica sarebbe potuta essere messa dal Ministero della Giustizia, se qualche sua struttura avesse originato gli atti coperti da riservatezza. Il fatto che Nordio abbia dato informazioni aggiuntive sulla vicenda dimostra che non sia stato il suo ministero a procedere in questo senso.

Chi dà origine al documento assegna la classifica di segretezza in base alla rilevanza, per gli interessi nazionali, assunta dalle informazioni contenute nel documento stesso. Questo, di conseguenza, limita l’accesso a una determinata informazione ai soli soggetti che abbiano necessità di conoscerla nell’esercizio delle proprie funzioni, siano informati circa le regole per la sua corretta gestione e conservazione, siano muniti di abilitazione. Inoltre, l’attribuzione di una classifica impone l’applicazione di un sistema di misure per assicurare che la limitazione dell’accesso sia effettivamente realizzata. A ciascun livello di classifica, infatti, corrisponde una serie di prescrizioni intese ad assicurarne la protezione (per esempio sistemi di conservazione e di riproduzione), proporzionate alla rilevanza dell’interesse tutelato.

Affermare – come ha fatto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio – che ogni elemento relativo al caso Paragon e al software Graphite doveva «intendersi classificato», non comporta in automatico l’attribuzione di una formale classifica alle relative informazioni, anche perché non sarebbe nemmeno chiaro a quale livello di segretezza si faccia riferimento. Né queste stesse informazioni possono essere automaticamente secretate attraverso una lettera, come è sembrato fare intendere Mantovano, dato che dev’essere seguita la procedura prevista dalla legge n. 127 del 2007 e dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri (DPCM) attuativo. 

In altre parole, non basta comunicare che ogni informazione «deve intendersi» come classificata perché una qualche forma di segreto cali su ogni elemento della vicenda.

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