Caserme come carceri? Torna una soluzione inefficace dal passato

Ne ha parlato il ministro Nordio, dicendo che la costruzione di nuove strutture è «quasi impossibile». Le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo vanno però in un’altra direzione
ANSA/TINO ROMANO
ANSA/TINO ROMANO
L’Italia è il Paese della riedizione delle soluzioni a problemi annosi: questa volta tocca di nuovo alle carceri. Dopo i due suicidi avvenuti di recente nell’istituto di detenzione Le Vallette di Torino, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha proposto di utilizzare come carceri le caserme dismesse. Per raggiungere questo obiettivo Nordio ha annunciato che in autunno avvierà una ricognizione delle caserme disponibili a essere trasformate in luogo di detenzione differenziata, per chi è stato condannato in via definitiva a pene brevi per reati che non destano allarme sociale. 

Ma non è la prima volta che viene formulata la proposta di trasformare le caserme in istituti di detenzione: i risultati del passato sono stati tutt’altro che positivi.

I tentativi passati

Facciamo un passo indietro di dieci anni. Già nel 2013, a fronte del problema del sovraffollamento delle carceri, l’allora ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva suggerito l’utilizzo delle caserme. «Sto lavorando al progetto di creare un circuito di detenuti non pericolosi da sistemare in caserme distribuite in varie regioni», aveva dichiarato Cancellieri. «Ne abbiamo già individuate una decina da ristrutturare in tempi rapidi, senza grossi investimenti». La ministra aveva comunque aggiunto: «Bisogna depenalizzare (…). Servono sanzioni amministrative. Poi bisogna puntare sulle misure alternative, perché chi commette un reato non grave non deve per forza finire in carcere. Io, come cittadina, sarei più contenta se chi imbratta i muri li ripulisse, piuttosto che vederlo in prigione».

A dicembre 2013, alle dichiarazioni della ministra, era seguito il cosiddetto “decreto Svuotacarceri”, ma la proposta sulle caserme non si era tradotta in una norma di legge. L’iniziativa aveva comunque avuto un seguito con la caserma situata a San Vito al Tagliamento, in Friuli-Venezia Giulia, non senza difficoltà. La struttura era stata individuata nel 2013 e il bando per i lavori era stato pubblicato lo stesso anno. Ma siccome la caserma non era conforme ai criteri che le carceri devono rispettare in base alle norme in materia di ordinamento penitenziario (di cui parleremo tra poco), ne fu recuperata solamente una palazzina, per ospitare uffici amministrativi. I lavori per la costruzione di un nuovo carcere, dove prima c’era la caserma, sarebbero dovuti iniziare a maggio 2018, ma sono stati bloccati da ricorsi tra le ditte classificatesi come prima e seconda nella gara d’appalto. Il contenzioso si è risolto solo a dicembre 2022: la realizzazione del carcere è potuta iniziare a distanza di circa dieci anni. Insomma, non proprio una soluzione veloce, a fronte di un problema di pressante attualità.

Dopo Cancellieri è stata la volta dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (Movimento 5 Stelle), che nel 2018 aveva previsto un piano di riconversione delle caserme in luoghi di detenzione con il decreto “Semplificazioni”. Il provvedimento stabiliva che, ferme restando le competenze del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in materia di infrastrutture carcerarie, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) procedesse, tra le altre cose, alla «individuazione di immobili, nella disponibilità dello Stato o di enti pubblici territoriali e non territoriali, dismessi e idonei alla riconversione» in strutture carcerarie. Per dare seguito al progetto, Bonafede aveva siglato un protocollo d’intesa con l’allora ministra della Difesa Elisabetta Trenta, per individuare aree inutilizzate come, appunto, le caserme dismesse. 

Da quanto si sa, il piano di riconversione è rimasto inattuato.

Norme e carenze

Passano gli anni e le carceri italiane continuano ad avere gravi problemi. Il tasso di sovraffollamento degli istituti penitenziari supera il 110 per cento, con ampie differenze di regione in regione, mentre nel 2022 ci sono stati 85 suicidi tra i detenuti.

L’articolo 6 della legge sull’ordinamento penitenziario (la n. 354 del 1975) dispone che i locali dove «si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale». «I locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti», prosegue la legge. «Agli imputati deve essere garantito il pernottamento in camere a un posto a meno che la situazione particolare dell’istituto non lo consenta». 

Lo spazio minimo per detenuto deve essere di tre metri quadrati, in base all’interpretazione che nel 2009 la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) ha dato all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), ai sensi del quale «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». La Corte aveva accertato che la permanenza per circa due mesi e mezzo del ricorrente e altri cinque detenuti in una cella nel carcere di Rebibbia, a Roma, grande poco più di 16 metri quadrati (2,70 metri quadrati a testa), costituiva un trattamento contrario al citato articolo 3. 

Per calcolare la superficie dei tre metri quadrati – tema su cui nel tempo ci sono stati diversi orientamenti giurisprudenziali – dall’area della cella vanno sottratti gli spazi occupati dai servizi igienici e da tutti gli altri arredi tendenzialmente fissi, che costituiscono un ingombro e limitano la possibilità di movimento, mentre restano esclusi gli arredi facilmente amovibili. Quindi, tre metri quadrati per detenuto dovrebbero essere l’area in cui ogni persona ha libertà di muoversi nella cella. Ma questo spazio minimo, sotto il quale la Corte ritiene vi sia trattamento inumano e degradante, spesso non è rispettato.

Secondo l’Associazione Antigone, che da oltre quarant’anni si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, varie disposizioni del Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario «sono rimaste lettera morta», a cominciare «dalle indicazioni edilizie per adeguarsi alle quali era previsto un arco di tempo non superiore ai cinque anni». Per esempio nel 47,7 per cento degli istituti visitati dall’Associazione Antigone le celle non hanno le docce; nel 38,6 per cento le celle hanno schermature alle finestre che «non favoriscono l’ingresso di luce naturale»; nel 77,3 per cento «non è prevista una separazione dei giovani adulti (meno di 25 anni) dai detenuti più grandi»; e nel 79,5 per cento degli istituti «non c’è uno spazio ad hoc per i detenuti e gli internati di culto non cattolico». 

La situazione è più complessa e peggiore nelle strutture dove sono detenute le donne. Secondo l’Associazione Antigone, per esempio, solo il 63,2 per cento delle celle ospitanti donne nelle carceri visitate è dotato di bidet, così come previsto dal regolamento penitenziario, il 5,3 per cento ne è sprovvisto, mentre per il 31,6 per cento il dato non è disponibile.

La legge di Bilancio per il 2023, approvata dal Parlamento alla fine dello scorso anno, prevede (art. 1, comma 878) risparmi di spesa pari a circa 36 milioni di euro per l’amministrazione penitenziaria nei prossimi tre anni.

Nuove carceri sono la soluzione?

Nel gennaio 2013 la Corte Edu, con la sentenza nel “caso Torreggiani”, ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’articolo 3 della Cedu. Il caso riguardava sette persone detenute nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con uno spazio limitato a disposizione. La Corte ha qualificato la decisione Torreggiani come «sentenza pilota»: ciò significa che i principi indicati vanno applicati in ogni altro caso di sovraffollamento carcerario in Italia. 

La sentenza ha rilevato, infatti, che «la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone». La Corte ha quindi ordinato alle autorità nazionali di approntare, nel termine di un anno dalla definitività della sentenza, misure con effetti preventivi e compensativi, che garantiscano una riparazione effettiva delle violazioni. 

La Corte ha fornito anche una serie di indicazioni delle quali bisognerebbe tenere conto prima di ipotizzare di risolvere il problema del sovraffollamento con nuovi istituti di detenzione, la soluzione principale a cui il governo Meloni sembra voler ricorrere. Secondo la Corte, «l’ampliamento del parco penitenziario» dovrebbe essere però «una misura eccezionale in quanto, in generale, non è adatta a offrire una soluzione duratura al problema del sovraffollamento». 

Innanzitutto andrebbe considerato che la privazione della libertà dovrebbe essere reputata «come una sanzione o una misura di ultima istanza e dovrebbe pertanto essere prevista soltanto quando la gravità del reato renderebbe qualsiasi altra sanzione o misura manifestamente inadeguata». Inoltre occorrerebbe «esaminare l’opportunità di depenalizzare alcuni tipi di delitti o di riqualificarli in modo da evitare che essi richiedano l’applicazione di pene privative della libertà». E comunque, sempre secondo la Corte, «contro il sovraffollamento delle carceri e l’inflazione carceraria, dovrebbe essere condotta un’analisi dettagliata dei principali fattori che contribuiscono a questi fenomeni. Un’analisi di questo tipo dovrebbe riguardare, in particolare, le categorie di reati che possono comportare lunghe pene detentive, le priorità in materia di lotta alla criminalità, e gli atteggiamenti e le preoccupazioni del pubblico nonché le prassi esistenti in materia di comminazione delle pene». 

In particolare bisognerebbe applicare «il principio dell’opportunità dell’azione penale (o misure aventi lo stesso obiettivo)» e ricorrere a «transazioni come alternative alle azioni penali». Ancora, «l’applicazione della custodia cautelare e la sua durata dovrebbero essere ridotte al minimo», facendo un «uso più ampio possibile delle alternative (…) quali per esempio l’obbligo per l’indagato di risiedere a un indirizzo specificato, il divieto di lasciare o di raggiungere un luogo senza autorizzazione, la scarcerazione su cauzione» e altro.

I messaggi del Quirinale

A seguito delle sanzioni della Corte Edu contro l’Italia, a ottobre 2013 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affermò in un messaggio al Parlamento che «la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale». «Le istituzioni e la nostra opinione pubblica – aggiunse Napolitano – non possono e non devono scivolare nell’insensibilità e nell’indifferenza convivendo, senza impegnarsi e riuscire a modificarla, con una realtà di degrado civile e di sofferenza umana come quella che subiscono decine di migliaia di uomini e donne reclusi negli istituti penitenziari». 

A febbraio 2022 il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel discorso di insediamento per il suo secondo mandato, ha affermato che «dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti». E da ultimo, a giugno 2023 Mattarella ha ribadito, in un messaggio al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, la necessità di «rendere rispettosa della dignità della persona la restrizione, anche temporanea, della libertà derivante dall’applicazione di norme di legge poste a protezione del consorzio civile».

Le indicazioni del Quirinale non hanno determinato un cambio di rotta nella situazione carceraria. L’Italia ha evitato ulteriori condanne adeguandosi alle prescrizioni della Corte europea sul versamento di risarcimenti nei confronti dei detenuti costretti a vivere in condizioni né decorose né in linea con la legge.

La linea del governo Meloni

A oggi è improbabile che il governo Meloni recepirà le indicazioni della Corte Edu sull’adozione di misure, come la depenalizzazione e le misure alternative alla detenzione, per ovviare al problema del sovraffollamento carcerario. Fratelli d’Italia e la Lega hanno più volte promesso agli elettori che, una volta al governo, avrebbero costruito nuove carceri, mentre il ministro Nordio, in visita a Le Vallette di Torino, ha definito questa promessa «quasi impossibile» da realizzare, a causa dei costi, delle tempistiche e dei vincoli burocratici. 

Tra l’altro, in controtendenza rispetto a quanto annunciato dallo stesso Nordio all’insediamento del governo, il nuovo esecutivo ha già scelto di aumentare il numero dei reati: da quello contro i rave party al reato universale contro trafficanti e scafisti a quello, sempre universale, contro chi fa ricorso alla gestazione per altri.

Intanto, in mancanza di iniziative legislative che evitino il ricorso al carcere, nei giorni scorsi alcuni personaggi noti – scrittori, intellettuali, esponenti della politica e altri – hanno sottoscritto l’appello lanciato dal quotidiano Il Dubbio che chiede sia attuata «una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese». Tra questi, «la valorizzazione della giustizia riparativa e le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi».

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