Silvio Berlusconi sostiene che in Italia i poteri del Presidente del Consiglio dei Ministri siano praticamente limitati alla stesura dell’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri e, nello specifico, che egli non abbia il potere di “dimissionare” i ministri con cui si trovi eventualmente in conflitto, come invece sarebbe previsto “in tutte le democrazie occidentali”. Andiamo a vedere se è effettivamente così, partendo dalle fonti che normano i poteri e le funzioni del Presidente del Consiglio, in riferimento, specialmente, ai suoi rapporti con gli altri ministri: la Costituzione (artt. 92 e 95) e la legge n. 400/1988 (come successivamente modificata dal decreto legislativo n. 303/1999).
Quali sono i poteri del Presidente del Consiglio dei Ministri?
Stando alla lettera e all’interpretazione corrente del dettato costituzionale e della legislazione vigente, nell’ordinamento italiano il Presidente del Consiglio ha sostanzialmente una posizione di preminenza sugli altri membri del governo, ma non di superiorità. Ha il compito di formare il governo, una volta ricevuto l’incarico da parte del capo dello Stato, e di sceglierne i ministri (art. 92 comma 2, Cost.). Le sue dimissioni inoltre provocano la caduta dell’intero governo. Egli dirige la politica generale del governo, mantiene l’unità dell’indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri (art. 95 comma 1, Cost.). Convoca le riunioni del Consiglio dei Ministri, ne stabilisce l’ordine del giorno e le presiede. Il Presidente del Consiglio non può impartire ordini ai singoli ministri nei settori di loro competenza, ma può impartire loro delle direttive in attuazione delle decisioni del Consiglio, può sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri e può chiedere loro di concordare con lui le dichiarazioni pubbliche che essi intendono rilasciare. Queste ultime disposizioni sono state introdotte dalla legge n. 400/1988, come modificata dal d.lgs. n. 303/1999, con l’intento di rafforzare la posizione del premier e di conferirgli una maggiore autorità nei confronti dei singoli ministri e quindi nei confronti dei diversi partiti che fanno parte della coalizione.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri può costringere alle dimissioni un suo ministro?
Come risulta già da una nostra precedente analisi, nelle fonti che normano le funzioni e i poteri del Presidente del Consiglio non è esplicitamente prevista la possibilità di costringere alle dimissioni uno dei propri ministri. Del resto, nell’ordinamento italiano – almeno formalmente – non è neanche riconosciuta al Presidente del Consiglio la facoltà autonoma di nominare i ministri, ma “solamente” di proporne la nomina al Presidente della Repubblica. Quest’utimo si “limiterà” a verificare i requisiti legalmente richiesti per la copertura della carica pubblica, con la preclusione di ogni controllo di merito politico. L’atto di nomina viene quindi definito in dottrina un atto a struttura compartecipativa diseguale, a favore del Presidente del Consiglio*.
Facciamo presente come, in merito alla facoltà di cui sopra, in dottrina c’è comunque un certo dibattito riguardo ai “poteri impliciti” che il potere di proposizione dei ministri e di indirizzo politico dell’attività governativa porrebbero in capo al Presidente del Consiglio. Se da un lato, infatti, si sostiene la tesi della “presidenzialità” (per cui i ministri sarebbero subordinati al loro presidente, avrebbero l’obbligo giuridico di eseguirne le direttive e in caso di divergenza potrebbero essere da lui costretti alle dimissioni), dall’altro si sostiene la tesi della “collegialità” (per cui il presidente sarebbe semplicemente un primus inter pares, senza alcuna preminenza gerarchica, e i ministri addirittura responsabili più verso i rispettivi partiti che verso il proprio presidente*). Tra i due filoni si inserisce poi un’ipotetica terza via, quella della “separazione delle attribuzioni”, che partendo dal dettato costituzionale arriva a considerare il Presidente del Consiglio un “quasi premier”. Infatti, se da un lato gli atti di indirizzo politico del Presidente del Consiglio possono essere considerati atti propri (cioè emanabili in tutta autonomia, senza l’interferenza dell’organo collegiale), dall’altro ogni suo intervento di autorità deve conciliarsi con l’autonomia costituzionalmente riconosciuta al Consiglio ed ai suoi ministri*. Secondo questa teoria, quindi, da un lato la natura precettiva dell’attività di indirizzo politico (che non potrebbe essere diversa, altrimenti non si capirebbe il perchè della previsione della medesima), dall’altro l’esistenza stessa del potere di proposizione (che per essere pienamente tale deve implicare anche il suo contrario) indurrebbero a ritenere cogenti le direttive rivolte ai ministri. Il risultato è che, in caso di dissonanza, il singolo ministro può essere revocato dal capo del governo.
Sta di fatto però che, poichè questo potere non è esplicitamente previsto dalla Costituzione, la dottrina non riconosce in capo al Presidente del Consiglio il potere di revoca dei singoli ministri. Il cosiddetto “rimpasto di governo” può essere considerato come la pratica che, nell’ordinamento italiano, più si avvicina a tale prerogativa.
Nelle altre principali democrazie occidentali il capo del governo può costringere alle dimissioni i propri ministri?
Nel Regno Unito il Primo Ministro, in virtù delle proprie prerogative in materia di indirizzo politico dell’attività di governo, ha storicamente il potere autonomo di nominare e revocare i propri ministri. In Francia invece è il Presidente della Repubblica che, in quanto eletto direttamente dal popolo, dirige l’attività del governo e ha il potere di nominare e revocare il governo (incluso il Primo Ministro), anche se è il premier a proporre la nomina e la revoca dei ministri al Presidente. In Germania il Cancelliere determina le direttive politiche dell’esecutivo e propone al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri federali. In Spagna il Presidente del governo propone al Re la nomina e la revoca dei ministri. Negli Stati Uniti, dove vige un sistema presidenziale puro, la situazione è leggermente diversa, quindi parzialmente incomparabile, ma la riportiamo comunque. I membri del gabinetto sono nominati direttamente dal Presidente e rispondono solo ad esso, senza la necessità di alcun voto di fiducia da parte del Congresso; non hanno quindi un ruolo politico, ma sono “semplicemente” i capi dei dicasteri tramite cui si esplica il governo dell’Unione (gli executive departments). Il loro incarico dura quanto la legislatura e possono essere rimossi a piacimento dal Presidente, senza che il Senato debba approvare o meno la decisione.
Ricapitolando…
1) non è vero che in Italia il capo del governo ha solamente il potere di stendere l’ordine del giorno;
2) è vero che in Italia il capo del governo non ha il potere autonomo di revocare i propri ministri;
3) è solo parzialmente vero che questa prerogativa sia presente in tutte le principali democrazie occidentali: infatti, ad esempio, se ciò è vero per i sistemi inglese e americano (e parzialmente anche per quello francese, che è semipresidenziale), ciò non vale in Germania e in Spagna, dove chi è a capo del governo può solamente proporre al Capo dello Stato (sia esso il Re o il Presidente della Repubblica) la revoca dei ministri, ma non dimissionarli in maniera autonoma (mentre in Italia la facoltà di proporre le dimissioni non è neanche prevista dal punto di vista formale).
Sulla base di queste considerazioni non ci sentiamo di dare a Berlusconi più di un “Nì”… Buona Costituzione a tutti!
* Le citazioni sono tratte da Daniele Trabucco, “Il rapporto tra il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i ministri: un difficile punto di equilibrio”, Forum di Quaderni Costituzionali.