In un’intervista con Il Sole 24 Ore del 5 giugno, il ministro per i Rapporti con il Parlamento e democrazia diretta Riccardo Fraccaro ha citato i vantaggi economici che verrebbero da una maggiore partecipazione dei cittadini italiani alla vita politica del Paese.
Per il deputato del Movimento Cinque Stelle, la democrazia diretta migliora “il benessere della popolazione”, aumentando il Pil e l’efficienza dell’apparato pubblico, con una riduzione della corruzione e dell’evasione fiscale.
Ma davvero i Paesi dove i cittadini sono coinvolti attivamente nella gestione della cosa pubblica hanno un’economia che funziona meglio? I numeri riportati sono realmente “dati di fatto”, come sostiene Fraccaro?
Vediamo se il ministro ha ragione o meno.
Che cos’è la democrazia diretta
La democrazia diretta è una forma di governo in cui i cittadini esercitano direttamente il potere legislativo senza l’intermediazione parlamentare, grazie a strumenti come i referendum e le iniziative popolari. Nella storia, dall’antica Atene alla Comune di Parigi del 1871, sono rarissimi gli esempi di democrazia diretta “totale”, cioè che hanno di fatto sostituito una qualche forma di rappresentanza.
Quando si parla di democrazia diretta, si fa quindi riferimento non a un concetto monolitico, ma a una serie di strumenti diversi tra loro, che sono implementati in modo differente in tantissimi Paesi.
A oggi, uno degli studi più completi sul tema è quello di David Altman, che nel 2011 ha pubblicato il libro Direct Democracy Worldwide. Altman ha analizzato gli esempi di democrazia diretta nel mondo, catalogando dodici meccanismi con cui i cittadini possono bloccare o proporre una nuova legge.
La Costituzione italiana prevede alcune forme di partecipazione diretta, come i referendum abrogativi (art. 75) e quelli costituzionali (art. 138). Inoltre, gli articoli 50 e 71 stabiliscono che i cittadini possono richiedere petizioni alle Camere e presentare disegni di legge al Parlamento.
In Italia si sono tenuti diversi referendum, a partire da quello sulla forma istituzionale – monarchia o repubblica – del 1946. Il referendum abrogativo è stato normato solo nel 1970 e si è svolto per la prima volta nel 1974, sulla legge sul divorzio. In totale, gli elettori italiani sono stati chiamati a votare su oltre 70 questioni.
La democrazia diretta in Italia
Com’è messo, in tema di democrazia diretta, il nostro Paese rispetto al resto del mondo? Qui c’è la prima sorpresa, perché l’Italia non è messa per niente male, almeno secondo alcuni dei ricercatori che si sono occupati del tema.
Nel 2007, gli studiosi Nadia Fiorino e Roberto Ricciuti hanno realizzato un indice per catalogare il diverso grado di “democraticità diretta” in 87 nazioni. In classifica, l’Italia si piazza tra le seconde posizioni, subito dietro alla Svizzera, e insieme a Paesi come la Danimarca e la Nuova Zelanda. In fondo alla graduatoria ci sono Paesi ritenuti poco democratici, come l’Afghanistan, la Russia e la Cina.
Questo buon risultato è confermato anche da uno studio del 2017 del già citato David Altman, che riporta risultati simili: l’Italia è addirittura definita, insieme alla Svizzera, come “l’epicentro dei referendum e delle iniziative popolari” nel mondo. Nonostante questo, il nuovo esecutivo potrebbe essere interessato a fare ancora di più, almeno stando ai programmi.
Quali sono le proposte del governo
Il “Contratto di governo”, sottoscritto dal Movimento Cinque Stelle e dalla Lega, contiene alcune proposte – non del tutto definite, in alcuni aspetti, e in parte simili a quelle del disegno di legge Renzi-Boschi – per “potenziare” la democrazia diretta in Italia.
Nello specifico, l’esecutivo vuole cancellare il quorum per i referendum abrogativi, così da scoraggiare l’astensionismo elettorale; vuole introdurre il referendum propositivo, con cui i legislatori saranno vincolati ad approvare una legge se votata dai cittadini; e vuole obbligare il Parlamento a pronunciarsi sui disegni di legge di iniziativa popolare.
Per giustificare queste iniziative, Fraccaro sostiene che dal punto di vista economico ci siano benefici a implementare nuove misure di partecipazione diretta. Nell’intervista, il ministro non dice però quale sia la fonte dei dati elencati.
Ci viene in aiuto la Proposta di legge costituzionale n. 3124 del 19 maggio 2015, presentata da tutto il gruppo parlamentare del Movimento Cinque Stelle per modificare gli articoli 73, 75, 80 e 138 delle Costituzione. Nella proposta viene citata come riferimento bibliografico il libro del 2009 Guida alla democrazia diretta – In Svizzera e oltre frontiera, di Bruno Kaufmann, Rolf Büchi e Nadja Braun. La pubblicazione, sostenuta dalle autorità svizzere, è consultabile online, e contiene la probabile fonte dei numeri elencati dal ministro.
Cosa dicono gli studi da cui Fraccaro ha preso i dati
La “guida” di Kaufmann e colleghi riassume in due sezioni alcuni studi sulle “ripercussioni economiche della democrazia diretta”.
Il Capitolo 9 raccoglie in un paragrafo i “risultati sorprendenti” di uno studio del 2000 condotto da due economisti, Gebhard Kirchgässner e Lars Feld. In esso si dice che i cantoni svizzeri – ossia gli stati federali della Svizzera – che riconoscono più diritti decisionali ai propri cittadini registrano: un Pil pro capite maggiore del 15 per cento rispetto a quelli con meno democrazia diretta; il 30 per cento in meno di evasione fiscale; spese pubbliche inferiori del 10 per cento; un debito pubblico inferiore del 25 per cento; e costi per i servizi pubblici, come la nettezza urbana, più bassi del 20 per cento.
Nella stessa guida, il foglio tecnico 27, a pagina 195, entra nel dettaglio e descrive brevemente gli studi da cui Fraccaro ha preso i dati. Per quanto riguarda la maggiore efficienza dell’apparato pubblico, la ricerca presa in esame risale al 1997 e venne curata da Lars Feld e Marcel Savioz. Un’analisi comparativa sui 26 cantoni svizzeri, con dati dal 1982 al 1993, ha mostrato che il Pil pro capite è più alto del 5 per cento nei Cantoni con ampi diritti democratici diretti.
Sul costo dei servizi pubblici, viene citato erroneamente uno studio del 1990 di Werner Pommerehne. In realtà, Pommerehne aveva stimato in una ricerca del 1983 che, in alcuni cantoni della Svizzera, il binomio servizi privati e democrazia diretta fa calare il costo della nettezza urbana del venti per cento circa.
Infine, per quanto riguarda il legame tra minore corruzione percepita e democrazia diretta, lo studio descritto – ma non citato nelle note – è quello del 2003 di James Alt e David Lassen. In questo paper, i due ricercatori evidenziano che, negli Stati Uniti, gli stati con più iniziative di democrazia diretta hanno livelli di corruzione percepita più bassi rispetto agli altri.
I dubbi della letteratura scientifica sul tema
Questi studi – alcuni di oltre vent’anni fa – prendono in considerazione per lo più la Svizzera, Paese che ha un sistema politico unico al mondo. La letteratura sugli effetti della democrazia diretta sull’economia e sul benessere di una nazione, in realtà, è ampia, e contiene studi che invitano a una maggiore cautela vista la complessità del tema.
Un primo problema riguarda il famoso adagio secondo cui “correlazione non significa causazione”. Gli articoli scientifici – tra cui quelli citati – cercano di trovare legami di causa-effetto tra due variabili: la democrazia diretta e l’economia. Ma in un ambito del genere, è difficile riuscire a escludere del tutto altri fattori causali in gioco.
Altri studi mettono in dubbio gli effetti positivi della democrazia diretta sull’economia, almeno nell’ordine di grandezza citato da Fraccaro. In una ricerca del 2009, Lorenz Blume e colleghi hanno evidenziato che Paesi con più iniziative popolari spendono di più e sono più corrotti, rispetto a quelli con meno interventi di democrazia diretta. Un paper del 2008 arriva a una conclusione simile: la democrazia diretta sembra non aumentare l’efficacia delle politiche di un Paese.
Per quanto riguarda la partecipazione al voto, diversi studi mostrano che, paradossalmente, i cittadini tendono comunque a non presentarsi alle urne, anche con più democrazia diretta. Questo è ancora più evidente negli esempi di democrazia diretta declinati al digitale. Nel libro del 2014 Critica della democrazia digitale, il ricercatore Fabio Chiusi ha infatti evidenziato che il numero dei votanti online nelle piattaforme di partecipazione attiva è molto basso rispetto a quello degli aventi diritto, e che il rischio di polarizzazione delle parti nel dibattito è elevato.
Il verdetto
Il ministro Riccardo Fraccaro ha dichiarato che “i servizi pubblici costano il 20% in meno, il Pil pro capite è maggiore in media del 5%, vi è minor evasione fiscale e una minor corruzione percepita” nei Paesi con maggior democrazia diretta. La sua dichiarazione ha alcuni limiti importanti.
Il primo è quello di semplificare molto il concetto di democrazia diretta, creando una dicotomia tra “Paesi con” e “Paesi senza” strumenti di partecipazione più attiva alla vita pubblica. Dall’intervista, sembra che l’Italia sia poco dotata di questi strumenti: ma uno dei maggiori esperti del tema ritiene anzi che il nostro Paese ne faccia ricorso molto più di altri.
Le cifre citate da Fraccaro si riferiscono probabilmente ai risultati di uno studio fatto sui cantoni svizzeri, dunque alle condizioni particolari di un Paese. Ma esistono anche studi che mettono in guardia sui mancati effetti positivi della democrazia diretta sull’economia. In conclusione, la questione presenta problemi piuttosto grandi di definizione, ma i benefici economici della democrazia diretta sembrano meno netti di quanto presenta il ministro: per lui un “Nì”.