Laura Boldrini si dimostra ancora una volta preparata su un tema a lei familiare, i diritti dei rifugiati, in occasione dello State of the Union ospitato dall’European University Institute di Firenze.





Tra “gli sforzi compiuti nel difendere le frontiere europee”, ai quali si riferisce probabilmente la presidente della Camera, possiamo includere il controverso “Regolamento Dublino”, che prevede un sistema di determinazione di responsabilità, in base a criteri specifici, per l’esame delle domande di asilo presentate nell’Unione Europea. Nella sua forma più recente, anche conosciuta come “Dublino II“, se il richiedente asilo ha varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro, è questo Stato ad essere competente per l’esame della sua domanda di asilo.



Mentre risulta difficile verificare le motivazioni degli “sforzi” messi in campo per difendere le frontiere europee, e del conseguente fallimento di alcuni Stati membri di rispettare la legge internazionale, è sicuramente possibile verificare se è effettivamente vero che alcuni Stati membri europei, tra i quali l’Italia, hanno respinto rifugiati che rischiano di subire trattamenti disumani, degradanti, tortura o persecuzione.



Nel diritto internazionale, il divieto di respingere forzatamente i rifugiati è protetto dal principio di “non-refoulement”, contenuto nella Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati del 1951 – anche conosciuta come Convenzione di Ginevra – e nel suo Protocollo del 1967. La Convenzione esplicita che nessuno Stato contraente può espellere o rimandare (refouler) in nessun modo un rifugiato, contro la sua volontà, verso un territorio dove teme di essere perseguitato.





In Europa, la drammatica situazione greca ha addirittura spinto la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, che regola il diritto dei rifugiati attraverso la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a condannare due Stati membri, il Belgio e la Grecia, per la violazione dei diritti dei rifugiati e richiedenti asilo (M.S.S. contro Belgio e Grecia). Nel caso greco, la sentenza è dovuta alle inadeguate condizioni di assistenza per i rifugiati nel Paese, mentre il Belgio è stato condannato per aver respinto i richiedenti asilo ad uno Stato, la Grecia, dove le capacità di ricezione sono, appunto, talmente drammatiche che un respingimento costituirebbe una violazione del principio di “non refoulement”.



L’Italia è invece protagonista del caso Hirsi Jamaa ed altri contro l’Italia, nato dal ricorso di 24 profughi eritrei e somali che nel maggio 2009, a bordo di imbarcazioni provenienti dalla Libia, vennero intercettati dalla Marina italiana in acque internazionali. I migranti, tra cui donne incinte e bambini, furono trasbordati su imbarcazioni italiane e riaccompagnati in Libia contro la loro volontà. Secondo la Corte, l’Italia ha quindi violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (proibizione della tortura) e l’articolo 4 del Protocollo n. 4 della Convenzione, che proibisce le espulsioni collettive di stranieri.



Nei casi elencati, i tre Stati membri sono firmatari del Protocollo n.67 della Convenzione, con cui gli Stati aderenti si impegnano ad applicare ai rifugiati gli articoli della Convenzione. E’ la medesima Convenzione del 1951 – chiamata in causa anche dalla Corte europea – a condannare ben tre Paesi europei, in riferimento all’articolo 33 che proibisce, appunto, il refoulement.



“Vero” per l’ex portavoce dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite.