Il nuovo ministro degli Esteri inaugura la propria carriera discettando su uno dei problemi più complessi che si trova ad affrontare attualmente il nostro Paese – la gestione dei flussi migratori che attraversano il Mediterraneo per entrare in Europa.
La Libia in disfacimento
Il disastro sulla sponda sud del Mediterraneo è ormai evidente agli occhi di tutti. Nel corso degli anni, dall’intervento internazionale in aiuto della rivoluzione, il Paese non è riuscito a dotarsi di un governo stabile ed è divenuto il teatro di scontri tra le tribù e i clan che si erano uniti per estromettere Muammar Gheddafi.
I problemi in Libia sono cominciati formalmente nel giugno del 2013, quando il fronte “islamista” del General National Congress (all’epoca la camera parlamentare post-rivoluzionaria) riuscì a far eleggere Nouri Abusahmain come presidente, successivamente accusato (insieme al GNC a maggioranza islamista) di favorire un clima di terrore e di intimidazioni, specialmente in seguito al sequestro temporaneo del Primo Ministro Ali Zeidan. Tali accuse hanno portato alla ribellione del generale Khalifa Haftar, al costituirsi di due camere parlamentari rivali (una a Tobruk, eletta nel giugno di quest’anno, dominata dalle forze “liberali” e sostenuta dal generale Haftar, e l’altra il vecchio GNC, dominata dagli “islamisti” e di sede a Tripoli), a due governi rivali (Al-Thinni a Tobruk e Al Hasa a Tripoli) e alla sparizione totale dello Stato, divenuto ormai preda della volontà delle milizie tribali.
Lo scontro che vede protagonisti i due parlamenti e le due coalizioni (la “islamista” e la “liberale”) è infatti frutto di complicatissimi equilibri tra le tribù che compongono la società libica, coinvolte ormai in uno zero-sum game di dominio delle risorse petrolifere del Paese, e schierate a sostegno di una o l’altra camera parlamentaria. In tutto ciò si profila l’intervento di Paesi arabi opposti, dall’Egitto anti-islamista al Qatar che sostiene il GNC di Tripoli (per un buon riassunto dei tre anni trascorsi dalla caduta di Gheddafi all’attuale guerra civile, vi invitiamo a consultare il rapporto-paese stilato dall’Unione Africana).
Il vuoto di potere e l’ondata di migranti
Nel clima di totale disfacimento dello Stato, la Libia è divenuta un corridoio di transito per i migranti che fuggono dal continente africano. Ed è qui che giungiamo alle dichiarazioni del nuovo ministro.
Innanzitutto il numero di sbarchi – gli ultimi aggiornamenti del Ministero dell’Interno (relazione annuale agosto 2013-agosto 2014) parlano di 117 mila sbarchi nell’arco dei dodici mesi presi in esame. Elaborazioni Ismu (Iniziative e Studi sulla Multietnicità) osservano periodi diversi (gennaio-settembre 2014) e parlano di 130 mila sbarchi. L’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), invece, riportava in ottobre più di 140 mila migranti accolti dall’Italia nel corso del 2014.
Insomma, prendendo in considerazione tutte le fonti possiamo stabilire che nel corso del 2014 sono sbarcate in Italia dalle 130 alle 140 mila persone.
Non riusciamo invece a trovare la cifra menzionata dal ministro, e per questo ci sorge il dubbio che volesse riferirsi alla cifra riportata dallo stesso bollettino dello Unchr, che parla di 165 mila migranti che hanno attraversato il Mediterraneo (in direzione Europa, non per forza Italia), oppure a periodi diversi o a dati non ancora resi pubblici. L’ordine di grandezza, in ogni caso, ci sembra corretto.
Dalla Libia provengono l’86% degli sbarcati (111 mila persone) ed il 77% degli sbarchi, secondo le stime Ismu. Una proporzione colossale. D’altronde, basta vedere l’evoluzione di questo dato nel corso degli ultimi 4 anni per accorgersi come il crollo dello Stato libico sia stato la principale fonte dell’aumento vertiginoso degli sbarchi.
Concludendo, il ministro non è precisissimo sui numeri ma individua il problema (d’altronde la proporzione da lui suggerita – 81% – si avvicina al dato reale): il crollo della Libia è una delle cause principali dell’aumento del numero dei migranti. “C’eri Quasi”.