Ospite a Di Martedì, su La7, lo scorso 23 maggio Matteo Salvini ha duramente attaccato la religione islamica in quanto discrimina le donne e ha portato ad esempio il tribunale islamico di Manchester, luogo del sanguinoso attentato del giorno precedente.
Il contesto
È vero che a Manchester esista un “tribunale islamico”. Si tratta dello “Sharia Department” del Manchester Islamic Centre and Didsbury Mosque. Come si può leggere sul suo sito, svolge diverse funzioni: pronuncia fatwa (parere legale in base al diritto islamico), si occupa di diritto di famiglia (matrimoni, divorzi, violenze in famiglia etc.), di diritto delle successioni (testamenti, divisioni ereditarie etc.) e di dispute di carattere economico.
Questi “tribunali” non sono dei veri organi giurisdizionali e non possono sovvertire quanto decidono le corti britanniche, né sono in qualche modo “superiori” ad esse. Non è chiaro quanti ce ne siano sparsi in tutta la Gran Bretagna. Le stime vanno da un minimo di 30 a circa un centinaio.
Ad ogni modo, questi “tribunali” operano legalmente in quanto la loro attività è coperta dall’Arbitration Act del 1996, che garantisce la possibilità di ricorrere a tribunali alternativi – se tutte le parti coinvolte sono d’accordo – per risolvere determinate dispute. Una possibilità, questa, storicamente sfruttata anche dai tribunali ebraici, Beth Din, che operano nel Paese da oltre un secolo.
Il divorzio islamico
È falso che secondo il diritto islamico l’uomo possa divorziare e la donna no. Tutte le principali scuole giuridiche (malikita, hanafita, shafiita e hanbalita) sono concordi sul punto, anche se poi si differenziano su quali possano essere i motivi riconosciuti per chiedere il divorzio.
L’Islam, in particolare sunnita, è tuttavia una religione che non ha un vero e proprio clero gerarchicamente strutturato che dia un’interpretazione uniforme del testo sacro, ed esistono un’infinità di scuole e sette. Può darsi dunque che alcuni imam applichino (o distorcano, a seconda dei punti di vista) i contenuti del Corano in modo tale da negare alle donne il diritto al divorzio.
Come si può sciogliere il matrimonio secondo il diritto islamico
– il ripudio da parte del marito (Talaq), che deve essere ripetuto tre volte a distanza di tre mesi perché sia valido;
– il ripudio da parte della moglie (Tafwid), con il consenso del marito;
– il ripudio da parte della moglie senza consenso del marito (Hul), che abbandona lo sposo ma perde il diritto alla dote nuziale (Mahr).
In questi casi non serve l’intervento dell’arbitro (qadi). L’arbitro interviene su richiesta degli sposi (o di sua iniziativa se ci sono gravi impedimenti al matrimonio).
Secondo il diritto islamico, l’uomo può rivolgersi all’arbitro ed ottenere il divorzio in questi casi: se la moglie presenta gravi difetti fisici; se è mentalmente disturbata; se lui si converte e la donna no.
La donna può farlo se il marito soffre di gravi difetti fisici o mentali; se la accusa in modo infondato di non essere pura; se è scomparso; se lei si converte e il marito rifiuta di farlo; se il marito non è in grado di mantenerla in maniera adeguata; se la maltratta; se rifiuta l’ordine dell’arbitro di divorziare; se non può o non vuole avere rapporti sessuali; se la tratta diversamente rispetto alle altre mogli.
Il marito, dunque, è di certo in una posizione privilegiata rispetto alla moglie, nel diritto islamico. Ma non è vero che il divorzio e il ripudio siano una prerogativa esclusivamente maschile.
Il divorzio islamico nella legge britannica
Nella legge britannica il divorzio è una questione di status della persona, e non può quindi essere risolto dalle corti arbitrali. Una donna musulmana nel Regno Unito potrà sempre divorziare dal proprio marito secondo la legge dello Stato, che è l’unica valida per definire il suo status giuridico. Un divorzio avvenuto solo in una corte religiosa non è tale per la legge britannica.
Il tribunale islamico, in questi casi, interviene solitamente per regolare anche secondo il diritto islamico quanto è stato già deciso dai tribunali britannici. Una donna musulmana divorziata civilmente che non riesca a farsi concedere il divorzio religioso dal marito paga delle ripercussioni nella vita all’interno della sua comunità.
Magari viene percepita appunto come ancora sposata, con tutte le conseguenze negative immaginabili. In un simile caso la donna può ad esempio rivolgersi all’arbitrato di una corte islamica, perché persuada il marito.
Matteo Salvini, sulla carta, ha dunque torto.
La situazione in concreto
Alcune inchieste hanno però sostenuto che nella prassi siano numerosi i casi di discriminazione della donna. Uno studio di una ricercatrice olandese, Machteld Zee, divenuto poi un libro (Choosing Sharia, pubblicato nel 2016), cita diversi casi in cui il divorzio religioso non è stato concesso nemmeno a fronte di provate violenze da parte del marito, o di decisioni sull’affidamento dei figli che tendono a privilegiare sistematicamente l’uomo.
Lo ribadiamo: non si tratta di decisioni che abbiano alcun valore giuridico sullo status della persona. Ma in comunità dove i valori tradizionali sono molto sentiti e rispettati, al di là della legge secolare, possono avere una enorme importanza.
Sulla questione delle discriminazioni, e dell’eventuale incompatibilità tra i principi utilizzati dai tribunali islamici e la legge britannica, sono state avviate due inchieste nel 2016. Una su iniziativa della Home Affairs Committee della Camera dei Comuni, l’altra su iniziativa del Home Office.
La convocazione delle elezioni anticipate da parte della premier Theresa May ha tuttavia portato alla prematura conclusione delle inchieste e non ci sono dunque risultati definitivi al momento.
Verdetto
Salvini ha detto che il diritto di famiglia e quello economico della comunità musulmana di Manchester sono regolati da un tribunale islamico. In realtà, quei “tribunali” non sono al di sopra o a parte rispetto alla legge britannica, e ci si può far ricorso solo se entrambe le parti sono d’accordo. Il leader della Lega ha aggiunto che quei tribunali discriminano le donne, e nel concreto non si può escludere che abbia ragione, in base ad alcune inchieste recenti. Mancano però studi affidabili e definitivi sulla portata del fenomeno. Nel dubbio, il verdetto è un “Nì”.
Questa analisi è stata pubblicata in origine, con leggere modifiche, sul sito di AGI