Il fenomeno dell’abusivismo edilizio, con riferimento alla situazione della Campania (ecco un bilancio fornito di recente dal Consiglio Nazionale dei Geologi), irrompe nel primo question-time del governo Letta alla Camera e chiama il ministro della Giustizia Cancellieri a rispondere in merito ai provvedimenti normativi utili a fronteggiare l’estensione del fenomeno. Premettiamo che i firmatari dell’interrogazione in questione evidenziavano come, pur provvedendo la magistratura penale al suo compito di emettere ordinanze di abbattimento dei manufatti abusivi, vi sia una urgente necessità di fissare “una graduazione delle previste demolizioni, al fine di salvaguardare, ove possibile, le attività commerciali in essere e tenendo conto anche della qualità dell’abuso realizzato”. Vediamo allora di chiarire gli estremi della questione, certamente complessa.



Il verificarsi di violazioni edilizie comporta una serie di ipotesi e di conseguenti attività da parte delle istituzioni giudiziarie competenti e delle amministrazioni pubbliche a garanzia della legalità e del rispetto degli obiettivi di tutela ambientale (per approfondire, si veda questo articolo in materia della demolizione degli abusi edilizi). Il corpus normativo principale in materia è costituito, nel nostro ordinamento, dal Testo Unico sull’edilizia (D.P.R. n. 380/2001, e successive modifiche).



L’art. 31, comma 9 del D.P.R. in questione – che peraltro riprende il previgente art. 7, ult. comma della l. n. 47/1985 – assegna al giudice penale la funzione di disporre la demolizione delle opere abusive. A tale provvedimento è stata riconosciuta la natura amministrativa (come stabilito anche da Cassazione penale, sentenza n. 447/2011) in chiave di funzione sussidiaria rispetto all’inerzia amministrativa. Tuttavia, lo stesso non può essere considerato come un ordine impartito alla pubblica amministrazione, posto che “la sua esecuzione è demandata al p.m. e al giudice dell’esecuzione nei loro rispettivi ruoli” (Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 7478/1996).



Si può intuire, allora, che l’istituto in questione presenta profili di problematicità connessi alla sua duplice natura: espressione di un potere sanzionatorio autonomo del giudice penale da un lato, e provvedimento di natura amministrativa dall’altro. Nasce quindi la necessità di coordinare il provvedimento dell’autorità giudiziaria ordinaria con le determinazioni delle competenti autorità amministrative (ecco un approfondimento dei limiti del potere del giudice dell’esecuzione in tema di violazione urbanistiche).



La giurisprudenza di legittimità ha fornito tracce di lettura per rendere compatibili le iniziative giudiziali con la sfera discrezionale della pubblica amministrazione.



Ecco allora che la Suprema Corte ha disposto che “il giudice dell’esecuzione deve revocare l’ordine di demolizione impartito con la sentenza di condanna o di patteggiamento soltanto quando siano già sopravvenuti atti amministrativi del tutto incompatibili con esso e può altresì sospendere tale ordine quando sia concretamente prevedibile e probabile emissione, entro breve tempo, di atti amministrativi incompatibili, in quanto non è possibile rinviare a tempo indeterminato la tutela degli interessi urbanistici che l’ordine di demolizione mira a reintegrare” (in questi termini si è espressa Cassazione penale, sentenza n. 32954/2010; più recentemente, si veda anche la sentenza del giudice di legittimità n. 30484/2012). Non sarebbe invece sufficiente, ai fini della revoca o della sospensione, una “mera possibilità” di eventuali future determinazioni amministrative contrastanti con la demolizione (un’utile ricostruzione della disciplina di cui si è detto è disponibile qui sul sito della Fondazione forense bolognese).



Il ministro della Giustizia ottiene un bel…”Vero”!