Il 20 marzo la deputata del Pd Alessia Morani ha criticato su Twitter Giorgia Meloni, che lo stesso giorno aver ribattezzato «Svuota-carceri» il decreto “Cura Italia”, approvato dal governo per fare fronte all’emergenza coronavirus.

Secondo Morani, Meloni si dimenticherebbe di dire che il decreto “Cura Italia” poggia su una legge sostenuta in passato dalla stessa leader di Fratelli d’Italia: nel 2010, quando era al governo, e nel 2011, quando sosteneva il governo Monti.

«Stiamo parlando di un provvedimento che nasce nel 2010 quando la Meloni era ministro», dice (min. 1:36) Morani su Twitter. Secondo la deputata del Pd, alcune modifiche sono poi state approvate «nel 2011 con il voto favorevole del Popolo della Libertà, l’allora partito dell’onorevole Meloni».

Morani ha sostanzialmente ragione. È vero infatti che il decreto “Cura Italia” modifica solo marginalmente una legge del 2010, che già prevedeva che alcune categorie di detenuti con una pena residua da scontare inferiore ai 18 mesi potessero scontarla presso il proprio domicilio, con il braccialetto elettronico. Ma il ruolo di Meloni va contestualizzato meglio.

Vediamo i dettagli di questa vicenda.

Che cosa prevede il decreto “Cura Italia”

L’articolo 123 del decreto “Cura Italia” – ora all’esame del Senato – richiama (e modifica parzialmente) alcune disposizioni in materia di detenzione domiciliare che erano già in in vigore dal 2010.

Nello specifico, il decreto ribadisce che, come previsto dalla legge n. 199 del novembre 2010 e successive modificazioni, i detenuti che devono scontare una pena non superiore a 18 mesi possano farlo nelle proprie abitazioni, controllati a distanza con i braccialetti elettronici.

Questa disposizione vale anche per chi ha ricevuto una pena superiore all’anno e mezzo, ma che deve scontare ancora al massimo 18 mesi di detenzione in carcere.

Dai beneficiari della misura, sempre in base a quanto già prevedeva la normativa del 2010, sono escluse alcune categorie di condannati, come quelli per reati considerati gravi (cosiddetti “ostativi”), i delinquenti abituali, pericolosi e quelli senza un domicilio adeguato dove scontare la pena. Il “Cura Italia” ha aggiunto a questo elenco anche i detenuti coinvolti nelle sommosse carcerarie successive al 7 marzo.

Ma oltre a ribadire norme che già esistevano e già operavano in Italia da anni, che cosa ha fatto allora il “Cura Italia”?

Le differenze con la normativa del 2010

Le novità sono sostanzialmente due, entrambe di natura procedurale, e hanno lo scopo di velocizzare il procedimento di esame delle domande da parte dei detenuti di esecuzione della pena presso il proprio domicilio.

In primo luogo, rispetto a quanto previsto dalla legge del 2010, ora un istituto penitenziario non deve più comunicare al magistrato di sorveglianza un rapporto sulla condotta tenuta da un detenuto durante la detenzione, ma deve indicare il luogo esterno di detenzione e soprattutto deve decidere autonomamente se il detenuto in questione è idoneo ai domiciliari. Questo è stato deciso dal governo per «non gravare, in questo momento di estrema complicazione, l’amministrazione penitenziaria di compiti e attività onerosi», che in concreto hanno l’effetto di allungare i tempi.

In secondo luogo, rispetto al testo del 2010, sono stati modificati alcuni fattori che impedivano a un detenuto di poter usufruire delle disposizioni di detenzione domiciliare.

Prima, per esempio, non potevano accedere alle misure quei detenuti per cui c’era la «concreta possibilità» di fuga o di commettere altri reati. Il “Cura Italia” ha tolto queste limitazioni.

Perché il governo ha deciso così?

Secondo la “Relazione illustrativa”, la ragione di questa scelta è che si tratta «di due presupposti che limitano l’utilizzo dell’istituto e che in questa fase di urgenza sono di complesso accertamento». Di nuovo insomma, si sono eliminati alcuni ostacoli procedurali per velocizzare i tempi.

Più in generale, spiega ancora la “Relazione illustrativa” del decreto “Cura Italia”, questa misura è stata pensata per «attenuare il cronico problema di sovraffollamento degli istituti» italiani, che secondo i dati più aggiornati del Ministero della Giustizia al 29 febbraio scorso contavano 61.230 detenuti, su una capienza regolare di 50.931 posti.

Secondo i dati della “Relazione tecnica” del decreto, si stima che fino al 30 giugno 2020 – limite temporale delle disposizioni del “Cura Italia” – saranno installati 3 mila braccialetti elettronici che, sommati ai 5.200 attualmente attivi, porteranno a 8.200 dispositivi impiegati.

Chiarito insomma che la norma recente non fa altro che modificare in parte la parte procedurale della norma del 2010, non introducendo quindi novità sostanziali, andiamo ora a vedere che cos’era successo 10 anni fa, quando Meloni era ministra della Gioventù del governo Berlusconi IV e membro del Popolo della Libertà.

Che cosa è successo nel 2010

Come spiega un dossier del Parlamento sul decreto “Cura Italia”, la legge del 2010 era stata pensata «per far fronte alla situazione di sovraffollamento carcerario» (una situazione dunque simile a quella attuale) e aveva «introdotto il “nuovo” istituto penitenziario costituito dalla esecuzione nel domicilio delle pene detentive non superiori a un anno».

La soglia temporale dei 12 mesi, spiega sempre il dossier, è stata poi aumentata a 18 mesi dal decreto-legge n. 211 del 2011 (convertito poi in legge con a febbraio 2012).

Ma qual è stato il ruolo di Meloni in questo processo normativo? Davvero questa norma del 2010, che nei fatti ha un effetto “Svuota-carceri” tanto che alcuni avvocati la chiamano «indultino», è stata sostenuta e approvata dalla leader di Fratelli d’Italia?

La posizione di Meloni, dieci anni fa

La legge del 2010 era un decreto legislativo, ossia un testo che viene approvato dal governo dopo avere ricevuto la delega da parte del Parlamento.

All’epoca, alla guida del Paese c’era il governo Berlusconi IV, di cui Meloni era ministra della Gioventù.Come abbiamo visto sopra, la legge del novembre 2010 è stata poi modificata con un decreto-legge a dicembre 2011.

In quella data, al governo non c’era più Silvio Berlusconi, ma Mario Monti, alla guida da oltre un mese di un esecutivo tecnico, supportato in Parlamento anche dal Popolo della Libertà, di cui faceva parte Meloni (che avrebbe poi lasciato il PdL a dicembre 2012). Il decreto di dicembre 2011 è stato poi convertito in legge dal Parlamento a febbraio 2012.

Come aveva votato all’epoca la deputata Meloni?

Il 9 febbraio 2012, alla Camera il governo aveva deciso di porre la fiducia sul testo, approvando il testo con 420 sì e 78 no.

Come avevano riportato all’epoca anche fonti stampa, tra i voti favorevoli c’erano stati anche quelli del PdL (con Lega e Italia dei Valori contrari, più alcuni “voti ribelli” di altri partiti).

In quell’occasione Meloni era però assente, così come altri 42 compagni di partito (tra cui Silvio Berlusconi, Giulio Tremonti, Stefania Prestigiacomo e Mariastella Gelmini). «Si restringe l’area di consenso a Monti», scriveva in quell’occasione Il Sole 24 Ore.

Il via libero definitivo della Camera è in realtà arrivato qualche giorno dopo, il 14 febbraio 2012, dopo che l’Aula aveva finito di votare su alcuni ordini del giorno relativi al testo di conversione in legge. Anche in quell’occasione Meloni era stata assente.

Dunque è vero che la legge del novembre 2010 era stata adottata dall’allora governo Berlusconi, con Meloni ministra. Tuttavia le modifiche avvenute nel 2011, che avevano aumentato da 12 a 18 mesi il periodo di pena residua scontabile nel proprio domicilio, erano state introdotte prima per decreto-legge dal neo-insediato governo Monti (supportato all’inizio dal PdL di Meloni, ma senza ministri: l’esecutivo era infatti “tecnico”), e poi convertito in legge a febbraio 2012, senza i voti di Meloni e di altri membri di spicco del PdL.

Il verdetto

Secondo la deputata del Pd Alessia Morani, nel definire come «Svuota-carceri» il decreto “Cura Italia”, Giorgia Meloni si dimenticherebbe di dire una cosa importante.

Le nuove misure per le detenzioni domiciliari previste dal governo Conte II poggiano, secondo Morani, su un provvedimento che «nasce nel 2010 quando la Meloni era ministro» e che è stato modificato nel 2011, «con il voto favorevole del Popolo della Libertà, l’allora partito dell’onorevole Meloni».

Abbiamo verificato e la ricostruzione dei fatti è sostanzialmente corretta, al netto di un’imprecisione.

È vero che il decreto “Cura Italia” si limita, da un punto di vista sostanziale, a ribadire quanto già previsto da una norma del 2010, adottata dal governo (Berlusconi IV) di cui Meloni era ministra. Le differenze sono infatti soprattutto procedurali e hanno lo scopo di velocizzare i tempi in un momento di emergenza.

È poi vero che la legge del novembre 2010 è stata modificata (l’aumento da 12 a 18 mesi della pena residua che si può scontare a casa propria col braccialetto elettronico) a dicembre 2011 con un decreto del governo Monti, che era supportato dal PdL.

È poi vero anche che questo decreto è stato convertito in legge dal Parlamento a febbraio 2012, con i voti del PdL, di cui Meloni faceva parte. Tuttavia, e qui sta l’imprecisione di Morani, nella votazione decisiva alla Camera Meloni era assente, così come molti altri parlamentari del suo partito.

In conclusione, Morani si merita un “C’eri quasi”.