L’8 marzo, in un’intervista a La Repubblica, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha parlato del nuovo coronavirus (Sars-CoV-2), dicendo che «il tasso di letalità può dipendere da tanti fattori, anche dalla diversità di stili di vita e dal fatto che la nostra popolazione è più anziana di quella cinese».

Inoltre secondo Conte, «come è stato rilevato dall’Iss, nella stragrande maggioranza di questi casi si era in presenza di persone con patologie pregresse».

Il presidente del Consiglio ha ragione? Abbiamo verificato.

Che cos’è il tasso di letalità, in breve

In epidemiologia sono utilizzati diversi indicatori per capire quanto è pericoloso un virus e per quantificare il numero di persone che possono morire durante un contagio.

Per questo motivo nelle ultime settimane si è fatto un gran parlare del cosiddetto “tasso di letalità” del nuovo coronavirus. Questo termine, in parole semplici, fa riferimento al rapporto tra il numero dei morti (in questo caso con Covid-19) e il numero dei contagiati (in questo caso da Sars-CoV-2). Il tasso di letalità non va confuso con quello di “mortalità”, che mette a confronto il numero dei decessi con il totale della popolazione.

Nel calcolare la letalità, bisogna avere ben presenti due questioni. La prima è che il tasso di letalità – soprattutto all’inizio di un’epidemia, quando si sa ancora poco di un virus in circolazione – non è un numero fisso, ma varia, per esempio a seconda del lasso temporale preso in esame o dell’area geografica.

Il secondo, come ha spiegato a Pagella Politica il virologo e ricercatore all’Università degli Studi di Milano Francesco Pregliasco, è che bisogna stare particolarmente attenti a quali numeri si mettono in rapporto e in particolare al denominatore.

Prendiamo proprio il caso del nostro Paese per capire il perché.

Letalità e coronavirus in Italia

Secondo i dati più aggiornati del Ministero della Salute, dalla diffusione del nuovo coronavirus in Italia all’8 marzo 2020 (ore 17:00) i contagiati sono stati in totale 7.375, con 622 guariti e 366 deceduti (in attesa di conferma da parte dell’Istituto superiore di sanità).

A prima vista, questo suggerirebbe che nel nostro Paese il tasso di letalità del nuovo coronavirus si aggira intorno al 5 per cento, un numero superiore ai tassi del 3,8 per cento e del 2,3 per cento registrati da due recenti studi (uno dell’Organizzazione mondiale della Sanità, l’altro del Centro cinese di controllo e prevenzione delle malattie) su due diversi campioni di decine di migliaia di contagiati in Cina.

Come ha spiegato il 5 marzo a Il Messaggero l’epidemiologo dell’Università di Pisa Pier Luigi Lopalco, «il rapporto tra contagiati e morti cambia in base a quante persone vengono sottoposte al tampone e se sono sintomatiche o senza sintomi».

Semplificando: se si sottopongono ai test sia i soggetti sintomatici (per esempio con febbre e problemi respiratori) che quelli asintomatici, è più probabile che il tasso di letalità sia più basso rispetto a uno scenario dove vengono sottoposti ai test solo le persone con sintomi. Questo avviene perché nel calcolo del tasso di letalità si contano anche persone, gli asintomatici, che magari non svilupperanno mai sintomi e quindi non subiranno gravi conseguenze, come la morte.

Sappiamo che dal 27 febbraio scorso nel nostro Paese il Consiglio superiore di sanità (organo di consulenza tecnico-scientifica del Ministero della Salute) ha deciso di fare i test solo ai soggetti sintomatici, mentre prima venivano testati anche gli asintomatici. Questo potrebbe avere contribuito a far salire la percentuale tra morti e contagiati.

L’ipotesi della sovrastima è stata presa in considerazione anche dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) in una nota del 3 marzo scorso, che ha avanzato altre due possibili spiegazioni (che pure necessitano entrambe di approfonditi studi scientifici, in particolare molecolari).

Da un lato, esiste la possibilità che il nuovo coronavirus abbia passato «il setaccio della selezione naturale che ha favorito la diffusione di un ceppo più “abile” nel colonizzare il nuovo ospite», e quindi in Italia saremmo alle prese con un virus mutato rispetto a quello cinese; dall’altro lato, che «la differente struttura genetica della popolazione europea rispetto a quella asiatica riflette una diversa risposta al virus».

Dunque è corretto dire che il tasso di letalità può dipendere da «tanti fattori». Conte, in particolare, ha parlato di «diversità di stili di vita» e del fatto che «la nostra popolazione è più anziana di quella cinese».

Queste ipotesi sembrano essere confermate dai dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss). Vediamoli nel dettaglio.

I dati dell’Iss sui deceduti in Italia con Covid-19

Il 5 marzo 2020, l’Iss ha pubblicato un’analisi sulle prime 105 persone decedute in Italia con Covid-19 (73 in Lombardia, 21 in Emilia-Romagna, 7 in Veneto e 3 nelle Marche). Per prima cosa guardiamo alla questione dell’età anagrafica.

Età

Secondo le rilevazioni dell’Iss, l’età media dei pazienti presi in esame – tre quarti circa erano uomini – era di 81 anni (circa 20 anni in più rispetto all’età media di chi era risultato positivo al virus).

«La maggior parte dei decessi (il 42,2 per cento) si è avuta nella fascia di età tra 80 e 89 anni, mentre il 32,4 per cento erano tra 70 e 79, l’8,4 per cento tra 60 e 69, 2,8 per cento tra 50 e 59 e il 14,1 per cento sopra i 90 anni», ha scritto l’Iss. Oltre un deceduto con Covid-19 su due aveva quindi più di 80 anni.


Il 6 marzo, la Iss ha chiarito in un comunicato stampa perché è importante fare dei distinguo per fasce di età quanto si parla di tasso di letalità. Un’analisi di questo tipo mostra infatti che questo indicatore in Italia sarebbe in realtà inferiore a quello registrato in Cina.

«In Italia al 4 marzo la letalità (calcolata come numero di decessi sui casi confermati) tra gli over 80 risulta del 10,9 per cento, mentre in Cina al 24 febbraio (ultimo dato disponibile, estratto dal report della commissione congiunta Cina-Oms) era del 14,8 per cento», scrive l’Iss. «Tra 70 e 79 anni il confronto vede l’Italia con una letalità del 5,3 per cento, mentre la Cina ha l’8 per cento, e tra 0 e 69 è 0,5 per cento nel nostro Paese contro l’1,3 per cento cinese».

È vero comunque che «per quanto riguarda la letalità in generale, al 4 marzo in Italia risultava del 3,5 per cento [salita intorno al 5 per cento l’8 marzo, come abbiamo visto, ndr], mentre in Cina al 24 febbraio era del 2,3 per cento», quindi più bassa, ma come ha suggerito Conte una delle spiegazioni potrebbe essere proprio il “peso” del numero dei pazienti più anziani.

«Non dimentichiamo che l’Italia ha un’età media molto più alta rispetto ad esempio alla Cina (44,3 anni contro 37,4) e questo mette ancora più pressione sulle strutture e gli operatori nelle zone colpite dall’epidemia», ha detto il 6 marzo il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro [1].

Attenzione però: questi dati non devono far passare il messaggio che solo gli anziani possono ammalarsi di Covid-19, con conseguenze gravi come la morte. Uno dei maggiori problemi causati dal contagio del nuovo coronavirus è l’alto numero di pazienti (650 in totale all’8 marzo, secondo il Ministero della Salute) che necessitano di cure in terapia intensiva, mettendo a dura prova il nostro sistema sanitario: tra questi risultano esserci anche soggetti giovani.

Passiamo ora alla questione degli “stili di vita”.

Patologie pregresse

Il presidente del Consiglio ha parlato anche di «stili di vita». Non è immediatamente chiaro a cosa voglia fare riferimento Conte, ma possiamo ipotizzare che stia parlando delle patologie gravi – che possono essere causate, anche se non sempre, da stili di vita più o meno salutari – che vanno a incidere sui tassi di letalità.

È ancora molto presto per avere evidenze epidemiologiche in questo ambito, ma se guardiamo alle patologie pregresse dei deceduti in Italia con Covid-19 l’affermazione di Conte non sembra priva di fondamento.

Secondo i dati dell’Iss pubblicati il 5 marzo scorso, tra i 105 decessi analizzati il numero medio di patologie osservate era di 3,4.

«Complessivamente, il 15,5 per cento del campione presentavano 0 o 1 patologie, il 18,3 per cento presentavano 2 patologie e il 67,2 per cento presentavano 3 o più patologie», scrive l’Istituto.

Il 74,6 per cento del campione aveva l’ipertensione, il 70,4 per cento la cardiopatia ischemica e il 33,8 per cento il diabete mellito. Per esempio, la prima patologia – la più diffusa in questa prima analisi dell’Is – è influenzata dagli stili di vita, come anche il diabete.

Il verdetto

In un’intervista a La Repubblica, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha commentato il tasso di letalità del nuovo coronavirus nel nostro Paese, sottolineando due aspetti.

Da un lato, Conte ha detto che il rapporto tra morti e contagiati – ad oggi apparentemente più alto in Italia rispetto alla Cina – «può dipendere da tanti fattori», come gli stili di vita e la percentuale del numero di anziani sulla popolazione totale.

Dall’altro lato, secondo Conte, va sottolineato che la maggior parte dei decessi ha coinvolto «persone con patologie pregresse».

Abbiamo verificato e il presidente del Consiglio riporta informazioni corrette.

Il calcolo del tasso di letalità è influenzato da molti elementi (per esempio, dal modo in cui vengono condotti i test per rilevare il numero dei contagiati) e un’analisi più approfondita dell’Iss ha mostrato che divisa per fasce d’età in realtà l’Italia sarebbe messa meglio della Cina.

Infine, è vero che secondo le prime analisi delle autorità è emerso che più di un morto con Covid-19 su due in Italia aveva oltre 80 anni, e che ogni deceduto presentava in media oltre 3 patologie (su cui possono incidere anche gli stili di vita).

In conclusione, Conte si merita un “Vero”.




[1] In epidemiologia esistono indicatori sulla mortalità che tengono conto del peso della popolazione anziana sulla popolazione totale, ma al momento non ci sono ancora studi dettagliati in merito per quanto riguarda l’Italia.