Il fallimento del governo giallorosso e la nascita dell’esecutivo di Mario Draghi ha riaperto nel Partito democratico una crisi di identità, lasciata solo in standby nei mesi passati.
Il 1° marzo, qualche ora dopo la direzione nazionale del Pd – in cui il segretario Nicola Zingaretti ha chiuso all’ipotesi di un congresso anticipato – la miccia è stata riaccesa da un sondaggio dell’istituto Swg per il Tg La7: con la guida dell’ex premier Giuseppe Conte, il Movimento 5 stelle viene stimato al 22 per cento, sottraendo almeno un 4 per cento proprio al Partito democratico, che scenderebbe al 14 per cento.
Al momento, il Partito democratico deve fare i conti con due temi, in parte intrecciati: la rappresentanza femminile, dimenticata in maniera evidente nella distribuzione dei ministeri fra i dem all’interno del governo Draghi; e il bilancio sulla linea Zingaretti (o linea Bettini, dal nome del suo consigliere) improntata alla costruzione di un’alleanza strutturale fra Pd e M5s, vista dai critici come un eccessivo appiattimento sul M5s e sulla figura di Giuseppe Conte.
Abbiamo cercato di capire che cosa si muove all’interno del Pd in queste ore. Per farlo, partiamo da una mappatura delle correnti.
Legenda delle correnti del Partito democratico
Il Partito democratico è nato nel 2007 dalla fusione dei Democratici di sinistra (Ds) – eredi del Partito comunista italiano, poi diventato Partito democratico di sinistra (Pds) – e dalla Margherita, forza politica centrista e riformista discendente dal Partito popolare italiano. L’idea alla base della fondazione del Pd era la creazione di un polo di centrosinistra a vocazione maggioritaria. In altri termini: superare le frammentazioni del campo progressista per allargare la base elettorale.
È dunque nella natura del Partito democratico contenere anime politiche diverse (secondo i critici, sarebbe il risultato di una “fusione a freddo” mai riuscita del tutto). Anche oggi – e non solo per queste motivazioni storiche – all’interno del Pd ci sono correnti diverse. Ufficialmente le correnti nascono con i congressi, attorno a una mozione e a un candidato. Possono però anche formarsi al di fuori, a prescindere dai candidati, come aggregazioni politico-culturali intorno a temi condivisi.
Vediamo quali sono ad oggi:
– Area dem: Nata nel 2009, fa riferimento al ministro della Cultura Dario Franceschini. Ne fanno parte, fra gli altri, la viceministra agli Affari esteri Marina Sereni, l’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti, i senatori Franco Mirabelli e Luigi Zanda. È fra le correnti più vicine al segretario Nicola Zingaretti.
– Dems: È la corrente del ministro del Lavoro e vicesegretario del Pd Andrea Orlando. Fra i nomi, la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, l’ex viceministro all’Economia Antonio Misiani e l’ex sottosegretario con delega all’editoria Andrea Martella. Anche Dems è fra le correnti più in sintonia con il segretario Zingaretti.
– Base riformista: Su Twitter si definiscono “Associazione di cultura politica”. Ne sono a capo il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e l’ex ministro per lo Sport Luca Lotti. Il portavoce è il deputato Andrea Romano, coordinatore nazionale è il senatore Alessandro Alfieri. Ha un’ampia rappresentanza fra i parlamentari eletti nel 2018, con oltre 50 tra deputati e senatori. Vengono spesso definiti “ex renziani”, ma non amano l’etichetta: «È una caricatura che ha il solo scopo di delegittimarci, come se fossimo la quinta colonna di un nemico esterno», dice Romano a Pagella Politica. «Ma siamo tutti ex di qualcosa; io ad esempio non definisco Andrea Orlando un “ex bersaniano” ma guardo con rispetto alle sue posizioni».
– Giovani turchi: È l’ala più a sinistra del partito, guidata del deputato Matteo Orfini. Ne fanno parte anche alcuni fra i parlamentari più giovani, le deputate Giuditta Pini e Chiara Gribaudo.
– Fianco a fianco: È la corrente che ha sostenuto Maurizio Martina al tempo della sua reggenza come segretario del Pd. Ne facevano parte anche il capogruppo dem Graziano Delrio e la vicepresidente Debora Serracchiani. Ora che Martina si è dimesso dal suo ruolo di deputato per diventare vicedirettore generale aggiunto della Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, non è chiaro se la corrente rimarrà attiva.
C’è infine Radicalità per ricostruire, non una vera e propria corrente, ma un’area politica lanciata nell’estate 2020 da Gianni Cuperlo, ex deputato e presidente della Fondazione Pd.
Ad oggi, AreaDem e Dems rappresentano la maggioranza nel partito, mentre le altre correnti vengono definite “minoranza” del partito.
Che cosa sta succedendo nel Pd
Il 1° marzo si è tenuta una direzione nazionale del Pd. All centro dell’incontro c’era il tema della parità di genere fra i dem, ma la discussione si è estesa inevitabilmente alla necessità di un confronto sul futuro del partito.
La questione della rappresentanza femminile si è imposta con la nascita del nuovo governo Draghi. Il Pd infatti è l’unico fra i grandi partiti a non aver proposto ministre. Prima delle nomine, «la direzione aveva stabilito che sarebbe stata fondamentale la parità di genere e invece sono diventati ministri i tre capicorrente, tutti uomini [Andrea Orlando, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, ndR]», dice Giuditta Pini, deputata dem, a Pagella Politica.
I vertici del Pd per compensare lo smacco delle nomine ministeriali hanno proposto solo donne per i ruoli di sottosegretario (con l’eccezione di Enzo Amendola agli Affari europei): una mossa da cui molte dem hanno preso le distanze, ritenendola poco più di un contentino.
Pini, nel corso della direzione, ha sollecitato le dimissioni del vicesegretario Andrea Orlando perché così fu chiesto a Paola De Micheli, quando a settembre 2019 ricopriva la stessa carica e diventò ministra delle Infrastrutture nel neonato governo Conte II. Ma Orlando rimarrà, affiancato da un’altra vice donna, come del resto prevede lo stesso statuto del Pd. Così ha ufficializzato anche l’ordine del giorno votato all’unanimità dalla direzione del 1° marzo. Tuttavia, tra le donne del Pd c’è chi ha chiesto che la futura vicesegretaria sia “vicaria”, ovvero la figura che subentrerebbe a Zingaretti, in caso di dimissioni (carica oggi ricoperta da Orlando).
La vicesegretaria verrà scelta nel corso della prossima assemblea nazionale, il 13 marzo. La questione femminile si è in parte intrecciata con le tensioni fra le correnti sulla direzione che il partito dovrebbe prendere. La più papabile sarebbe Cecilia d’Elia, coordinatrice delle donne dem, ma allo stesso tempo troppo vicina a Zingaretti, secondo chi vorrebbe più equilibrio ai vertici della segreteria.
La direzione del 1° marzo, sulla carta dedicata solo alla parità di genere, ha reso evidenti anche tutte le altre tensioni all’interno del partito.
Perché si parla di congresso
«Il congresso del Pd si è svolto nel marzo del 2019 e le primarie saranno nel marzo del 2023». Nelle conclusioni della direzione nazionale del 1° marzo, il segretario Nicola Zingaretti ha cercato di arginare il conflitto così: va bene il dibattito, ma non pensate di poter rimettere di nuovo in discussione la leadership.
Il Partito democratico da statuto va a congresso ogni cinque anni, l’ultimo si è appunto tenuto nel 2019 – e ha visto la vittoria di Nicola Zingaretti come segretario – e il prossimo sarebbe quindi previsto nel 2023. Perché quindi in questi giorni si sta parlando di un congresso anticipato?
«In questo momento ci sono delle tensioni all’interno del partito – spiega Giuditta Pini – dovute soprattutto al fallimento della linea politica data dal segretario, che prevedeva di fare un’alleanza strutturale con il M5s». Ancora Pini fa notare che Zingaretti, alla fine del 2019, aveva già promesso un congresso – poi naturalmente finito in secondo piano a causa della pandemia – e che la sua elezione come segretario era avvenuta quando ancora diceva «Mai con i Cinquestelle».
Il sondaggio di Swg sulle percentuali potenziali del M5s a guida Conte, la sera stessa della direzione nazionale in cui il segretario ha chiuso al Congresso, hanno solo gettato sale sulle ferite. «Continua l’irresistibile avanzata della linea Bettini-Zingaretti con in testa Conte – ha commentato ironicamente su Twitter Arturo Parisi, fra i fondatori del Pd – il fortissimo riferimento di tutti i progressisti, secondo l’astuto disegno egemonico ma alla guida di un partito concorrente col Pd». Con il segretario, è infatti sotto accusa anche il suo “consigliere” di fiducia, Goffredo Bettini, fra i sostenitori più convinti di Giuseppe Conte e dell’asse Pd-M5s.
«Sono passati pochi anni dall’ultimo congresso, ma ci sono stati rivolgimenti politici e sociali epocali: la pandemia, un governo con i Cinque stelle e ora un governo di larghe intese con la Lega – dice Andrea Romano, portavoce di Base riformista – è ovvio che serva un confronto all’interno della nostra comunità politica e un aggiornamento sulle nostre prospettive politiche e programmatiche».
Base riformista, la corrente che fa riferimento all’ex ministro dello Sport Luca Lotti e al ministro della Difesa Lorenzo Guerini, viene spesso indicata come l’opposizione interna a Zingaretti – di nostalgia renziana – ora all’attacco per logorare il segretario e ribaltare la leadership. «Chiediamo una discussione vera e autentica con l’obiettivo di salvare il partito dal declino che incombe su di noi e che deve essere affrontato tutti insieme, con gli strumenti della politica e senza chiusure difensive. La necessità di un vero congresso non nasce dalla pretesa di questa o quella poltrona – replica Romano a questo tipo di letture – ma dalla realtà di una nostra vera difficoltà politica. Non possiamo regalare l’Agenda Draghi alla Lega, non possiamo esaurire la nostra funzione solo nell’essere alleati dei Cinque Stelle. Nessuno nega l’opportunità di questa alleanza, ma il Pd deve ritrovare una sua centralità e una sua funzione chiara e riconoscibile».
«Gli italiani sono più interessati a capire su quali punti il Pd si impegnerà nel nuovo governo», secondo l’ex viceministro all’Economia Antonio Misiani, vicino all’area di Zingaretti. «È legittima una discussione sulla linea politica del partito – aggiunge – ma questa personalizzazione [contro il segretario, ndR] è insensata, così non ci capisce nessuno».
Il capitolo congresso è tutt’altro che archiviato, come avrebbe voluto Zingaretti. Base riformista non indietreggia. E nemmeno le altri componenti critiche verso il segretario. «Penso che questa linea sia sbagliata e stia distruggendo il Pd. Quindi o cambia la linea o cambia il segretario», ha detto il 3 marzo senza girarci intorno Matteo Orfini, a capo dei Giovani Turchi, in un’intervista a Quotidiano nazionale.
Governo Meloni
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