Oltre alla questione di “quota 90” e alla stretta deflattiva, che colpì tutti i lavoratori, e al fatto che come abbiamo visto il provvedimento di “dimezzamento” non trova nessuna conferma nei quotidiani, nelle storie economiche e nell’opinione degli esperti, va comunque sottolineato che nel mercato del lavoro il regime fascista ebbe sempre un atteggiamento nei fatti discriminatorio nei confronti delle donne.
Il loro valore politico
finì per corrispondere esclusivamente con il loro ruolo di madri, con l’introduzione di misure volte ad aumentare la natalità italiana. Tutto questo avvenne penalizzando la partecipazione femminile al mondo del lavoro. «Prima sotto l’ombra della crisi della rivalutazione del 1927, poi con maggior zelo durante la Grande Depressione, il regime promosse l’occupazione maschile a scapito di quella femminile», scrive (p. 173) la storica
Victoria De Grazia della Columbia University di New York, nel suo libro
How fascism ruled women pubblicato nel 1993.
«All’inizio, lo fece in maniera più o meno nascosta, approvando misure che venivano presentate come una forma di protezione per le madri lavoratrici, discriminate rispetto alle altre donne lavoratrici. Poi lo fece in maniera più esplicita, attraverso accordi contrattuali pensati per espellere le donne dalla forza lavoro», ha sottolineato De Grazia.
La storica statunitense ha anche spiegato come il corporativismo fascista danneggiasse in particolar modo le donne, che, per esempio, erano per lo più escluse dalle trattative per la rinegoziazione dei loro salari, già molto bassi. «Che le donne guadagnassero la metà degli uomini non era nulla di nuovo», ha sottolineato (p. 174) inoltre De Grazia nel suo libro.
La grande disparità salariale, all’epoca, era dunque già un dato di fatto, senza misure esplicite per il “dimezzamento”. «Naturalmente le differenze di stipendi, in lavori tra loro comparabili, tra uomini e donne variavano considerevolmente; ma i dati disponibili sui salari tra la fine dello scorso secolo [l’Ottocento, ndr] e la Seconda guerra mondiale non mostrano trend significativi di differenze a seconda delle branche dell’economia o dell’industria»,
sottolinea l’economista Franco Archibugi in un saggio pubblicato nel 1960. «Tra le due guerre la differenza di salari tra uomini e donne tendeva a essere intorno al 50 per cento circa», aggiunge Archibugi, che tra le varie cause di questa disparità cita il limitato peso delle donne negli accordi collettivi a livello nazionale.
Insomma, una differenza molto grande tra i salari degli uomini e quelli delle donne è esistito per decenni tra la fine dell’Ottocento e il secolo successivo. Il fascismo non ha fatto nulla per cambiare questa situazione e in parte l’ha aggravata.
Sottolineiamo, poi, che dalla Seconda guerra mondiale in avanti il tema della disparità salariale di genere è rimasto sempre un problema attuale. Nel 1977
è stata approvata la legge per la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, ma anche le statistiche più recenti – come
abbiamo spiegato in diverse analisi – mostrano che in Italia la disparità salariale è ancora molto elevata, anche se è molto difficile stabilire con esattezza a quanto ammonti.
Prima di concludere, tra i singoli provvedimenti discriminatori attuati dal fascismo nei confronti delle donne, ricordiamo per esempio quelli del 1926, con cui il regime
impedì alle donne di insegnare lettere e filosofia nei licei e le materie scientifiche negli istituti tecnici, o quelli del 1934, con cui
si permetteva lo svolgimento di concorsi per le amministrazioni pubbliche dai quali potevano essere escluse le donne.
«Questi provvedimenti, evidentemente misogini, dimostrano come il fascismo, all’interno della sua retorica popolare, ritenesse la donna inferiore, inadatta a ricoprire incarichi di governo o amministrazione», ha scritto lo storico Filippi in
Mussolini ha fatto anche cose buone, nel capitolo dedicato alla condizione femminile sotto la dittatura. «Le donne vennero progressivamente e sistematicamente buttate fuori dalla vita attiva e dal mondo del lavoro in una maschilizzazione della società che andò di pari passo con la brutalizzazione del discorso pubblico».