La storia di Hitler e Mussolini che “hanno vinto le elezioni” non torna molto

Secondo Tajani, i due dittatori salirono al potere grazie alla volontà popolare. Ma non è andata proprio così
Benito Mussolini e Adolf Hitler nel corso di un incontro a Monaco di Baviera nel 1940 – Fonte: ANSA
Benito Mussolini e Adolf Hitler nel corso di un incontro a Monaco di Baviera nel 1940 – Fonte: ANSA
L’11 giugno, ospite a Non stop news su RTL 102.5, il segretario di Forza Italia Antonio Tajani ha ribadito che il suo partito, in disaccordo con la Lega, non vuole eliminare il divieto di un terzo mandato consecutivo per i presidenti di regione. 

A sostegno della sua posizione, il ministro degli Esteri ha detto che il limite dei due mandati consecutivi serve a evitare «incrostazioni di potere». A detta sua, questo limite serve a evitare che i presidenti di regione restino in carica troppo a lungo. «Non è una questione di volontà popolare», ha aggiunto Tajani, spiegando che anche Benito Mussolini e Adolf Hitler sono saliti al potere dopo aver «vinto le elezioni».

Insomma, secondo il leader di Forza Italia, il principio della sovranità popolare non può giustificare da solo la permanenza prolungata al potere. Ma gli esempi di Mussolini e Hitler sono calzanti? Ne abbiamo parlato con alcuni storici e, in breve, la risposta è: non molto.

L’ascesa al potere di Mussolini

Partiamo da come Mussolini è diventato presidente del Consiglio e successivamente dittatore, noto con l’appellativo di “Duce”. 

Nell’ottobre del 1914, Mussolini si dimise dalla direzione dell’Avanti!, il giornale ufficiale del Partito Socialista Italiano (PSI), da cui fu espulso perché favorevole all’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, contro la posizione neutralista del suo partito. 

Nello stesso anno, Mussolini fondò i Fasci d’Azione Rivoluzionaria, che nel 1919 diventarono i Fasci italiani di combattimento, un movimento politico anti-socialista, composto anche da reduci della guerra. Da questo movimento, nel 1921 nacque il Partito Nazionale Fascista, che si sciolse nel 1943 con la caduta del regime. 

«Mussolini si presentò per la prima volta alle elezioni nel 1919, non ottenendo nessun seggio in Parlamento e poi nel 1921 all’interno della lista dei “Blocchi nazionali”, che comprendeva varie forze di destra», ha spiegato a Pagella Politica Paolo Pombeni, professore di Storia contemporanea all’Università di Bologna. 

Alle elezioni politiche di maggio 1921 vinse il PSI, seguito dal Partito Popolare Italiano (PPI), mentre i “Blocchi nazionali” – una coalizione che includeva liberali del presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, nazionalisti e i seguaci di Mussolini – elessero un centinaio di deputati, di cui 35 fascisti. «Dunque, Mussolini non vinse quelle elezioni, dato che ottenne appena una trentina di parlamentari, non sufficienti per formare un governo», ha aggiunto Pombeni. 

A giugno 1921 il re Vittorio Emanuele III incaricò Giolitti di formare un nuovo governo, sostenuto anche dai “Blocchi nazionali”. Incapace di mantenere una maggioranza stabile, Giolitti si dimise poco dopo. Nacque così il governo di Ivanoe Bonomi, succeduto l’anno dopo da quello di Luigi Facta. 

Mussolini divenne capo del governo il 31 ottobre 1922, ma non dopo una vittoria alle elezioni. «Il fascismo è arrivato al potere in seguito alla marcia su Roma, che diversi storici considerano un colpo di Stato, e che spinse il re Vittorio Emanuele III ad affidare l’incarico di presidente del Consiglio allo stesso Mussolini», ha spiegato a Pagella Politica Marco Fioravanti, professore di Storia contemporanea all’Università Tor Vergata di Roma. 

La marcia su Roma fu organizzata da Mussolini il 28 ottobre 1922, con centinaia di fascisti che marciarono per le strade della città, con l’obiettivo iniziale di occupare i palazzi delle istituzioni e spingere il re ad affidare la guida del governo a Mussolini. «All’epoca, intimorito dai fascisti, Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare lo stato di assedio proposto dall’allora presidente del Consiglio Facta, che avrebbe permesso all’esercito di bloccare l’avanzata dei fascisti», ha aggiunto Pombeni. «Dopo le dimissioni di Facta, il re diede l’incarico di formare il governo a Mussolini, che in Parlamento raccolse anche la fiducia dei liberali e dei popolari».

Insomma, Mussolini non arrivò al potere dopo aver vinto le elezioni, come ha suggerito Tajani. «Dal punto di vista formale, Mussolini arrivò al potere legalmente, perché incaricato dal re, come previsto all’epoca dallo Statuto Albertino, ma non si può dire che fosse stato vittorioso alle elezioni», ha precisato Alba Lazzaretto, professoressa di Storia contemporanea all’Università di Padova. 

Meno di due anni dopo, ad aprile 1924 il Partito Nazionale Fascista vinse le successive elezioni politiche, che però «non furono delle elezioni libere». «Furono condizionate da un clima di forte scontro politico, e di pressioni e violenze da parte dei fascisti ai seggi. In più, Mussolini aveva fatto approvare nel frattempo la “legge Acerbo”, per garantirsi un’ampia maggioranza in Parlamento», ha spiegato Pombeni. 

La legge “Acerbo” prende il nome dal suo ideatore, l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo. Prevedeva l’assegnazione di un premio di maggioranza pari ai due terzi dei seggi in Parlamento alla lista che avesse ottenuto almeno il 25 per cento dei voti.

L’ascesa al potere di Hitler

Per Hitler va fatto un discorso diverso rispetto a Mussolini. 

Nel 1921 il futuro dittatore tedesco divenne capo del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, il cui nome non deve trarre in inganno, come successo con il parlamentare europeo della Lega Roberto Vannacci. Di recente, infatti, Vannacci ha detto che Hitler aveva ideali socialisti, ma non è vero. In breve, il “nazionalsocialismo” di Hitler – abbreviato con il termine “nazismo” – fu un’ideologia totalitaria basata non sul socialismo di classe, ma sull’esaltazione della comunità nazionale e della razza, ostile alla sinistra e fondata su razzismo, antisemitismo e repressione politica.
Il primo grande successo elettorale del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori si concretizzò alle elezioni parlamentari del 1930, quando arrivò secondo, senza però ottenere la maggioranza per governare. In quegli anni la Germania era caratterizzata da una profonda crisi economica e da un clima di forte radicalizzazione. 

A marzo 1932 Hitler si candidò alle elezioni presidenziali tedesche, arrivando secondo dietro a Paul von Hindenburg, ma ottenendo comunque circa il 30 per cento dei  voti sia al primo turno sia al ballottaggio. 

Nelle elezioni parlamentari del luglio 1932, il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori fu il più votato, ma non ottenne la maggioranza di seggi per governare. Non essendoci una coalizione per formare un governo, si tornò a votare a settembre 1932, quando il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori fu di nuovo il più votato, pur avendo perso alcuni punti percentuali tra i consensi. Ma anche in quel caso, non raccolse la maggioranza dei seggi. 

Va sottolineato che le elezioni tedesche in quegli anni non si svolsero in un clima tranquillo, ma furono caratterizzate da forte violenza politica e intimidazioni sfruttate dalle Sturmabteilung (SA), le cosiddette “camicie brune”, il reparto paramilitare del Partito Nazionalsocialista. 

A gennaio 1933 Hitler fu nominato per la prima volta cancelliere, cioè capo del governo tedesco, dal presidente della Repubblica von Hindenburg. Il governo era sostenuto dal Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori e dal Partito Popolare Nazionale Tedesco.

Dopo essere diventato cancelliere, Hitler iniziò il suo piano per trasformare la Germania in uno Stato totalitario. A febbraio 1933 dispose per decreto la messa al bando del Partito Comunista, i cui esponenti furono accusati di essere responsabili dell’incendio del Parlamento tedesco (Reichstag), e la sospensione dei diritti civili previsti dalla Costituzione, con il pretesto di catturare i responsabili dell’attacco al Parlamento. 

A marzo 1933 ci furono nuove elezioni parlamentari, che si tennero in un clima di violenza e intimidazioni, con il Partito Comunista fuorilegge e le opposizioni perseguitate. Il Partito Nazionalsocialista vinse, ma senza maggioranza assoluta. A novembre 1933, in pieno regime dittatoriale, ci furono altre elezioni, in cui si presentò un’unica lista, con candidati nazisti e filonazisti. 

«A differenza di Mussolini, nel caso di Hitler c’è effettivamente un elemento di maggiore consenso popolare prima della sua nomina a cancelliere», ha evidenziato Pombeni. «Mussolini avrebbe incassato un forte consenso popolare solo nelle elezioni del 1929, che però non furono elezioni democratiche, visto che gli elettori potevano esprimere solo un Sì o un No alla lista dei candidati proposti dal solo Partito Fascista, con il rischio di essere perseguitati se votavano no».

Non una novità

Insomma, il modo in cui Mussolini e Hitler sono saliti al potere non è stato lo stesso, ma da un punto di vista storico non è corretto paragonare la loro vittoria a quelle che avvengono in normali elezioni libere.

Secondo Fioravanti, Tajani ha fatto confusione tra i fatti storici, ma da un punto di vista politico ha sollevato comunque un problema. «Credo che Tajani abbia fatto un discorso più politico che storico, nel senso che le elezioni di per sé non sono sempre garanzia di democraticità. Le elezioni sono uno degli strumenti della democrazia, ma non sono sempre state sinonimo di libertà, visto che nel corso della storia, ma anche oggi, assistiamo in alcuni Paesi a elezioni manipolate e indirizzate, magari con il ricorso alla violenza», ha detto Fioravanti. 

In ogni caso, Tajani non è nuovo a errori e imprecisioni su Mussolini, e più in generale sulla storia del Novecento. Nel 2019, l’allora presidente del Parlamento europeo aveva fatto discutere per aver detto che, al di là dell’alleanza con Hitler e delle leggi razziali, Mussolini «aveva fatto cose buone» per l’Italia. 

Più di recente, nel 2023 Tajani aveva ribadito la contrarietà del suo partito e del governo al salario minimo, perché secondo lui i lavoratori non devono avere stipendi «tutti uguali, come si faceva in Unione Sovietica». Come abbiamo spiegato in un altro approfondimento, quel riferimento storico era scorretto.
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