Dalla prudenza alle sanzioni: la svolta dell’Ue su Israele

La Commissione von der Leyen ha proposto restrizioni economiche, ma il via libera dei governi resta incerto
Ansa
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Per la prima volta dall’inizio della guerra a Gaza, l’Unione europea ha deciso di colpire Israele con sanzioni economiche. Lo scorso 17 settembre, la Commissione europea ha annunciato il taglio di alcuni fondi e proposto al Consiglio dell’Unione europea di votare misure più pesanti, dai dazi commerciali a possibili provvedimenti contro esponenti del governo Netanyahu.

È una svolta netta: per mesi l’Ue aveva mantenuto una posizione prudente, spesso più vicina a Israele che ai suoi critici, in nome della solidarietà dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 e di legami storici consolidati. Ora, sotto la spinta di diversi Stati membri e dopo pressioni interne crescenti, la linea è cambiata. 

Resta però da capire se i governi nazionali saranno davvero pronti a trasformare le proposte della Commissione Ue in sanzioni effettive.

Un rapporto incrinato

Il cambio di rotta si è reso evidente a partire da maggio, quando il ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp, esponente di un governo di destra, ha chiesto formalmente all’Alta rappresentante per l’Ue Kaja Kallas una revisione urgente dell’accordo di associazione tra Ue e Israele, sostenendo che Israele stesse violando l’articolo 2 dell’accordo, che impone il rispetto dei diritti umani. Il 20 maggio altri 18 Stati membri – tra cui non c’è l’Italia – si sono uniti alla richiesta olandese, chiedendo alla stessa Kallas di avviare una valutazione formale.

Poche settimane dopo il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) ha diffuso un rapporto in cui si affermava che «vi sono indicazioni che Israele stia violando i suoi obblighi in materia di diritti umani ai sensi dell’articolo 2 dell’accordo di associazione Ue-Israele». 

A una conclusione simile era già giunto a novembre 2024 Olof Skoog, attuale Rappresentante speciale dell’Ue per i diritti umani, aprendo la strada a una prima proposta di sospensione degli accordi avanzata dall’allora Alto rappresentante Josep Borrell. Quella valutazione, però, non ha avuto seguito concreto: lo scorso giugno il Consiglio degli Affari esteri – cioè la riunione del Consiglio dell’Ue a cui partecipano i 27 ministri degli Esteri europei – ha deciso infatti di rinviare ogni decisione.

A luglio Kallas ha tentato di evitare un voto nel Consiglio dell’Ue che si preannunciava negativo, concordando con Israele un’intesa sugli aiuti a Gaza. L’accordo prevedeva «misure significative per migliorare la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza», oltre a «aiuti su larga scala forniti direttamente alla popolazione». Un’intesa però fragile, perché in assenza di autorità europee presenti sul territorio non c’era modo di verificare l’effettiva applicazione delle misure, mentre Israele da tempo rifiuta il controllo esterno sulle condizioni umanitarie nella Striscia di Gaza.

Il 10 settembre, nel discorso sullo Stato dell’Unione, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha dichiarato davanti al Parlamento europeo che la Commissione avrebbe fatto «tutto ciò che è in suo potere» per fare pressione su Israele, annunciando nuove sanzioni e portando il tema al voto del Consiglio dell’Ue.

Le possibili sanzioni

Le parole di von der Leyen hanno segnato un cambio netto e hanno aperto la strada alla presentazione di tre diversi tipi di misure. 

La prima, già operativa, riguarda il taglio ai fondi europei a cui Israele ha accesso. Si tratta di circa 3 milioni di euro l’anno, più altri 14 milioni provenienti dallo Strumento europeo di vicinato, un programma che finanzia 16 Paesi confinanti o vicini all’Ue per favorirne la stabilità economica e politica. Oltre a Israele, nell’elenco dei Paesi beneficiari ci sono Algeria, Armenia, Azerbaigian, Egitto, Georgia, Israele, Giordania, Libano, Libia, Moldova, Marocco, Siria, Tunisia e Ucraina, oltre alla Palestina (indicata con un asterisco che specifica come l’inclusione non debba essere intesa come riconoscimento dello Stato palestinese). Nella pratica, questa prima sanzione ha un impatto limitato, pari a circa 20 milioni di euro complessivi.

La seconda proposta riguarda l’introduzione di dazi su circa il 37 per cento delle merci scambiate tra Israele e l’Europa. Secondo le stime dell’Ue, i beni colpiti avrebbero un valore complessivo di quasi 6 miliardi di euro e genererebbero oltre 200 milioni di euro di entrate doganali in un anno. L’elenco dettagliato dei prodotti non è ancora stato reso pubblico, ma è probabile che vi rientrino soprattutto beni agricoli e farmaceutici. Il restante 63 per cento delle esportazioni israeliane, costituito in gran parte da macchinari, mezzi di trasporto e prodotti chimici, resterebbe esente dai dazi grazie al regime di favore previsto dall’Organizzazione mondiale del commercio, che impone di applicare a tutti i partner le stesse condizioni riservate al più favorito.

I rapporti commerciali tra Ue e Israele restano regolati dall’accordo di associazione che istituisce un’area di libero scambio. Ne sono escluse le merci provenienti dagli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati, considerate illegali dall’Ue e quindi prive di qualsiasi trattamento tariffario preferenziale. 

Per rendere effettive le nuove misure sarà però necessario il voto del Consiglio dell’Ue, dove non serve l’unanimità ma la maggioranza qualificata: almeno il 55 per cento degli Stati, purché rappresentino il 65 per cento della popolazione europea.

Finora il Consiglio dell’Ue non ha mai raggiunto questa soglia per introdurre misure punitive contro Israele a causa della contrarietà di Paesi con un grande peso demografico come Germania e Italia, che insieme valgono circa un quarto della popolazione dell’Ue. Altri Stati, come Austria, Polonia, Ungheria, Bulgaria e Romania, sono notoriamente vicini a Israele, ma non hanno lo stesso peso numerico. La posizione tedesca appare consolidata e contraria, mentre quella italiana resta più sfumata: per esempio, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha lasciato intendere una certa apertura, ma solo a determinate condizioni.

Esiste infine una terza proposta di sanzione, annunciata da von der Leyen, che sembra avere poche possibilità di approvazione. Si tratta di sanzioni individuali contro due ministri del governo Netanyahu considerati esponenti dell’ala più radicale: Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, e Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze. In questo caso sarebbe richiesta l’unanimità dei 27 Paesi, condizione che al momento appare impossibile da raggiungere.

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