Il reddito di libertà non funziona ancora come dovrebbe

Tra ritardi e risorse scarse, il sussidio contro la violenza economica esiste da alcuni anni, ma continua ad avere problemi
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Ci sono uomini che impediscono alla compagna di lavorare, altri che le negano la possibilità di avere un conto corrente proprio o che si fanno dare tutti gli scontrini per controllare i soldi spesi. Queste sono tutte forme di un fenomeno più ampio, chiamato “violenza economica”. Secondo l’European Institute for Gender Equality (EIGE), un’agenzia dell’Unione europea, questa forma di violenza comprende gli «atti di controllo e monitoraggio del comportamento di una persona in termini di utilizzo e distribuzione di denaro, nonché la minaccia costante di negarle risorse economiche». In molti casi la violenza economica è associata ad altre forme di violenza, come quella fisica e psicologica, e uscirne è ancora più complicato se non si ha la possibilità di andare via di casa. 

Secondo un rapporto pubblicato da ISTAT a novembre 2024, nel 2023 più di 61 mila donne in Italia si sono rivolte a un centro antiviolenza. Di queste, oltre quattro su dieci – quindi circa 25 mila – hanno detto di non essere economicamente indipendenti e di «avere subìto tra le violenze anche quella economica». Per esempio, il compagno ha impedito loro di usare il proprio reddito o di conoscere l’ammontare del denaro disponibile in famiglia.

Per ridurre il fenomeno della violenza economica, dal 2020 in Italia esiste il “reddito di libertà”, una misura che a cinque anni dalla sua introduzione ha ancora molti problemi. Spesso i soldi di questo sussidio sono insufficienti o, peggio, arrivano in ritardo, come è avvenuto l’anno scorso, complici i ritardi burocratici.

Che cos’è il reddito di libertà

Il reddito di libertà è un contributo economico dedicato alle donne vittime di violenza che si trovano in difficoltà economica e che sono seguite da centri antiviolenza riconosciuti dalle regioni e dai servizi sociali. Può valere fino a 500 euro a persona (inizialmente erano 400 euro, poi sono stati aumentati) ed è erogato dall’INPS per massimo 12 mesi consecutivi, senza possibilità di rinnovo. Può essere richiesto sia da chi ha figli sia da chi non ne ha, ed è cumulabile con altri sussidi, come l’assegno di inclusione (la misura che ha sostituito il reddito di cittadinanza).

I fondi destinati al reddito di libertà sono ripartiti tra le regioni in base alla quota di popolazione femminile residente con un’età compresa tra i 18 e i 67 anni. Ogni regione può comunque decidere di impiegare ulteriori proprie risorse per aumentare quelle messe a disposizione dallo Stato per il reddito di libertà, che hanno avuto un percorso travagliato.

Gli stanziamenti

L’introduzione del reddito di libertà è iniziata a maggio 2020, quando era in carica il secondo governo Conte e l’Italia stava uscendo dal lockdown introdotto per contrastare la diffusione della COVID-19. Durante l’esame in Parlamento del decreto “Rilancio”, all’interno del provvedimento sono stati destinati 3 milioni di euro aggiuntivi, solo per l’anno 2020, al “Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità”, esistente dal 2006. L’obiettivo di queste risorse era contenere gli effetti economici della pandemia sulle donne più vulnerabili e favorire la loro indipendenza economica. Il compito di distribuire le risorse era stato assegnato a un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (DPCM), che è stato approvato a dicembre 2020, dando ufficialmente il via alla creazione del reddito di libertà.

La legge di Bilancio per il 2021 ha stanziato poi altri 2 milioni di euro per il reddito di libertà, sempre in via temporanea per il 2021 e il 2022, a cui la legge di Bilancio per il 2022, approvata durante il governo Draghi, ne ha aggiunti altri 5 milioni. 

Successivamente la legge di Bilancio per il 2023 – la prima del governo Meloni – ha rifinanziato il reddito di libertà per quell’anno con oltre 1,8 milioni di euro. Con la legge di Bilancio per il 2024, la misura è diventata “strutturale”, ossia da temporanea è passata a essere permanente: sono stati stanziati 10 milioni di euro annui per i tre anni tra il 2024 e il 2026, che dal 2027 scenderanno a 6 milioni di euro. Infine, durante l’esame in Parlamento della legge di Bilancio per il 2025, gli stanziamenti per il reddito di libertà sono stati aumentati di un milione di euro all’anno dal 2025, arrivando quindi a 11 milioni di euro.

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Soldi in ritardo

Nel 2024 le donne vittime di violenza che avrebbero dovuto beneficiare del reddito di libertà non hanno potuto farlo. Dopo mesi di ritardi, solo a inizio dicembre la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità Eugenia Roccella, la ministra per il Lavoro Marina Calderone e il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti hanno firmato il decreto con i dettagli sull’erogazione dei fondi. 

A ottobre, durante un question time alla Camera, Roccella aveva giustificato il ritardo dicendo che c’era stata «un’istruttoria molto complessa», senza entrare nei dettagli. La ministra aveva aggiunto che l’impianto del decreto era stato «concordato informalmente a livello tecnico già a giugno», che c’erano stati ripensamenti da parte delle regioni e che questo aveva «comportato una revisione, e quindi un allungamento dell’iter».

«Questo ritardo è un problema: ci sono donne che facevano affidamento su questa possibilità, che però non si è realizzata. Per chi sta uscendo da una situazione di violenza rispondere anche a questi ritardi burocratici non è semplice», ha spiegato a Pagella Politica Anna Agosta, consigliera di Donne in Rete contro la violenza (D.i.Re) e presidente del centro antiviolenza (Cav) D.i.Re di Catania. D.i.Re è un gruppo di 88 organizzazioni che gestisce 117 centri antiviolenza e più di 66 case rifugio sul territorio italiano. «Oltre al mancato aiuto economico, questo ritardo ha comportato un’ulteriore sfiducia nei confronti dell’istituzione governativa. I tempi dei percorsi di uscita dalla violenza non possono essere quelli istituzionali», ha aggiunto Agosta.

Di riflesso, il ritardo sull’erogazione del reddito di libertà ha avuto una conseguenza su un’altra misura. La legge di Bilancio per il 2024, infatti, aveva introdotto uno sgravio fiscale per le aziende che assumono donne vittime di violenza e beneficiarie del reddito di libertà. Dato che l’erogazione del sussidio non è avvenuta, anche gli sgravi non sono partiti.

Soldi per poche

Negli anni l’importo massimo del reddito di libertà è comunque aumentato. Inizialmente il sussidio poteva arrivare al massimo a 400 euro a persona per un anno, che poi dal 2024 sono saliti a un massimo di 500 euro, sempre erogabili per 12 mesi. «Questo sussidio vuol dire tanto per le donne vittime di violenza. In più il fatto che il governo Meloni abbia reso la misura strutturale è una notizia molto positiva, perché significa che il governo si è reso conto di quanto anche il supporto economico sia fondamentale. Certo è che 500 euro al mese rimangono una cifra esigua», ha spiegato Agosta.

Considerando che i finanziamenti stanziati per il 2024 sono pari a 10 milioni di euro e che il sussidio è di 500 euro al mese (6 mila euro all’anno), significa che si potranno aiutare circa 1.600 donne in tutta Italia, un numero inferiore a quello delle donne vittime di violenza economica nel Paese. Come abbiamo visto, circa 25 mila donne sono vittime di violenza economica secondo ISTAT, ma questo numero tiene conto solo delle donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza. Dunque è una sottostima, dato che molte donne non si rivolgono a questi centri pur essendo vittime di violenza.

«Tantissime donne non sanno nemmeno di poter aver accesso a questo supporto. È importante pubblicizzarlo perché in alcuni casi può essere anche un input per lasciare un uomo violento», ha spiegato Agosta. «La dipendenza economica è uno degli elementi che incide nella scelta di non chiudere una relazione maltrattante, spesso le donne pensano di non avere un’alternativa perché non hanno soldi».

I problemi della burocrazia

Al ritardo nell’erogazione dei fondi si aggiungono i problemi burocratici. Nel 2024, infatti, chi a inizio anno aveva presentato la domanda per ottenere il reddito di libertà ha dovuto ripresentarla dopo la pubblicazione del decreto che ha stanziato i fondi per il sussidio. In altre parole, diverse donne sono state costrette a presentare la domanda due volte per ottenere il reddito di libertà nel 2024. 

Questa non è una questione secondaria: dato che i fondi sono limitati, il sussidio è assegnato sulla base della velocità con cui si presenta la richiesta. «È una misura a sportello, quindi prima si fa domanda per ricevere il reddito di libertà e prima è possibile che venga accolta perché le richieste vengono soddisfatte fino a quando ci sono soldi disponibili», ha sottolineato Agosta.

Secondo i dati INPS più aggiornati, fino a maggio 2024 sono state presentate (pag. 259) 6.489 domande per ottenere il reddito di libertà, di cui 2.772 accolte e liquidate. Abbiamo chiesto all’INPS quali sono i numeri più aggiornati a oggi, ma al momento della pubblicazione di questo articolo non abbiamo ancora ricevuto risposta. 

Ci sono diverse differenze geografiche nelle richieste del reddito di libertà: quasi il 41 per cento delle richiedenti è nata all’estero, circa il 37 per cento è nata in una regione del Centro-Sud, mentre quelle nate al Nord sono circa il 22 per cento.

Richieste macchinose

In questi anni sono poi emerse alcune difficoltà legate alla presentazione della domanda per beneficiare del reddito di libertà. 

Le domande possono essere presentate all’Inps tra il 1° gennaio e il 31 dicembre di ogni anno. Per fare domanda è necessario usare il modello di autocertificazione preparato dall’INPS e allegare la dichiarazione del centro antiviolenza e dei servizi sociali di riferimento territoriale, che dichiarano la partecipazione della donna a un percorso di emancipazione e il fatto che si trovi in una situazione economico-finanziaria svantaggiata. Serve quindi una doppia dichiarazione: del centro antiviolenza e dei servizi sociali. Questo doppio passaggio però complica la richiesta. 

Come ha spiegato Agosta, «non tutte le donne che sono seguite dai centri antiviolenza sono seguite anche dai servizi sociali». «Ci sono situazioni in cui il servizio sociale non è chiamato in causa, ma per ottenere il sussidio è necessario che sia coinvolto. Di conseguenza, le donne devono ripresentarsi, raccontare nuovamente la loro storia, rivivere il vissuto magari pure quando sono avanti nel loro percorso di fuoriuscita dalla violenza», ha aggiunto la consigliera di D.i.Re. Viceversa, è possibile che una donna sia seguita dai servizi sociali ma non si sia mai rivolta a un centro antiviolenza. «Se una donna deve iniziare un percorso al Cav solo per avere accesso al reddito, il percorso di per sé è già inficiato perché viene meno l’autodeterminazione. È fondamentale che chi si rivolge a noi lo faccia per una sua scelta autonoma, libera, non condizionata da fattori esterni», ha aggiunto Agosta.

Il centro antiviolenza e i servizi sociali garantiscono che la donna che fa domanda per il sussidio sia davvero vittima di violenza, ma secondo Agosta il doppio passaggio è inutile. «Seguire un percorso al Cav è molto faticoso, non è una cosa da poco che farebbe chiunque. E i centri antiviolenza sono gestiti da operatrici che hanno un’alta specializzazione sul tema. Purtroppo la scelta di far fare questo doppio passaggio si inserisce in quella mentalità che pensa che alcune donne potrebbero denunciare per altri fini».

Ricapitolando: tra ritardi, fondi limitati e difficoltà nel fare domanda, accedere al reddito di libertà non è sempre semplice. Come ha spiegato Agosta, sarebbe necessario accorciare le procedure burocratiche, ampliare il sussidio e sveltire i tempi di erogazione del reddito. «Il ritardo di un anno è ingiustificabile – ha concluso la responsabile del Cav D.i.Re di Catania – ma dobbiamo tenere presente che è una misura che va nella direzione giusta e che dà un segnale importante, nonostante sarà necessario un cambio di passo culturale per evitare che le donne continuino a incontrare difficoltà».

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