Il fact-checking in breve:

• Secondo diversi politici, in particolare del Sud, le risorse allocate dal “Piano nazionale di ripresa e resilienza” al Mezzogiorno sarebbero troppo poche e non rispetterebbero le regole di suddivisione stabilite dall’Unione europea. In realtà, dicono, al Sud spetterebbero 60 miliardi in più. Le cose non stanno però così.

• Questa cifra si ottiene applicando alla sola Italia i criteri stabiliti dall’Ue per la suddivisione dei fondi europeiper la ripresa tra i 27 Stati membri. Ma questi criteri sono stati pensati su base nazionale e non ci sono vincoli sulla ripartizione delle risorse a livello territoriale all’interno dei singoli Paesi.

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Da diverse settimane si discute del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), il programma presentato dal governo Draghi per spiegare come l’Italia intende utilizzare i fondi che riceverà grazie al Next Generation Ue, un programma europeo volto a favorire la ripresa economica e sociale dopo lo stop causato dalla pandemia di Covid-19.

La discussione è particolarmente accesa per quanto riguarda le modalità con cui le risorse sono state divise tra le varie regioni e macroaree italiane. Molti, infatti, sostengono che il Pnrr non abbia destinato abbastanza fondi al Sud Italia, un’area che storicamente è più in difficoltà rispetto al Nord. Il 25 aprile, ad esempio, circa 80 sindaci si sono riuniti a Napoli per protestare contro i criteri con cui sono stati divisi prestiti e sussidi, sostenendo che secondo i parametri europei il Mezzogiorno avrebbe avuto diritto a una quota maggiore rispetto a quanto stimato nel Piano.

Il giorno successivo toni simili sono stati utilizzati dall’europarlamentare indipendente Rosa D’Amato, che ha affermato su Facebook: «In base ai criteri fissati dall’Ue […] al Sud sarebbero dovuti andare circa il 70 per cento dei fondi stanziati nel complesso per l’Italia». Il 28 aprile, poi, il senatore del gruppo misto Saverio de Bonis ha scritto sullo stesso social: «Orgoglioso e fiero di aver votato contro lo scippo di 60 miliardi ai danni del Sud».

Ma davvero la spartizione dei fondi tra le diverse regioni il governo italiano non ha seguito le regole europee? Abbiamo fatto il punto della situazione e, al di là delle legittime critiche politiche sul Pnrr, non è vero che il piano italiano violi i criteri di suddivisione delle risorse. Vediamo perché.

Breve ripasso sul Pnrr

Come abbiamo già spiegato, il Piano nazionale di ripresa e resilienza è un documento in cui il governo Draghi illustra come l’Italia intende investire i sussidi e i prestiti ricevuti grazie al programma europeo Next Generation Eu, un enorme pacchetto di aiuti da 750 miliardi di euro divisi tra tutti gli Stati membri.

Di questi, l’Italia ha diritto a un totale di 191,5 miliardi di euro tramite il Dispositivo di finanziamento per la ripresa e la resilienza (Rrf) – a cui si aggiungeranno 30 miliardi grazie a un fondo complementare nazionale finanziato dallo Stato italiano, per un totale di 221,5 miliardi di euro – e 13,5 miliardi tramite il programma React-Eu.

Il Pnrr è stato approvato dal governo il 25 aprile e trasmesso poi alla Camera e al Senato, che hanno dato il loro via libera nei due giorni successivi. Il testo è ora nelle mani della Commissione europea, che dovrà rivederlo e girarlo poi al Consiglio dell’Unione europea per l’approvazione finale.

Nel regolamento che istituisce il Dispositivo per la ripresa e la resilienza, le autorità europee hanno elencato una serie di linee guida generali riguardo alle modalità con cui i diversi Stati dovrebbero investire i fondi ricevuti (ad esempio per creare nuovi posti di lavoro o implementare politiche sostenibili dal punto di vista ambientale), senza però porre vincoli precisi. Allo stesso tempo, la Commissione europea ha elaborato una lista di raccomandazioni molto più specifiche studiate appositamente per ogni Stato membro.

In base a questi principi, il Pnrr divide gli investimenti in sei macroaree fondamentali – digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, infrastrutture, istruzione e ricerca, inclusione e coesione territoriale e salute – e prevede diverse riforme piuttosto corpose, come quella della giustizia civile e penale e della pubblica amministrazione.

Quante risorse vanno al Sud

L’Unione europea non ha fornito alcuna indicazione rispetto a come gli Stati dovrebbero dividere internamente, su base geografica, i fondi ricevuti tramite il Next Generation Eu. Come si legge nel testo del Pnrr firmato da Mario Draghi, il governo italiano ha deciso di «investire non meno del 40 per cento delle risorse territorializzabili del Pnrr (pari a circa 82 miliardi) nelle otto regioni del Mezzogiorno, a fronte del 34 per cento previsto dalla legge per gli investimenti ordinari destinati su tutto il territorio nazionale». A questi vanno aggiunti circa 8 miliardi dal fondo React-Eu.

Il «34 per cento» citato corrisponde alla percentuale di popolazione italiana che risiede nelle regioni meridionali e insulari. Questo principio di proporzionalità è stato introdotto nel 2016 (art. 7-bis del decreto-legge 29 dicembre 2016, n. 243) e rafforzato poi nel 2020, in modo da assicurarsi che alle regioni del Mezzogiorno venga destinata «una quota di risorse ordinarie in conto capitale proporzionale alla popolazione ivi residente».

Secondo le stime del governo, considerando i fondi del Rrf, oltre il 50 per cento nella missione “Infrastrutture per la mobilità sostenibile” andranno al Sud, per i collegamenti ad alta velocità; circa il 46 per cento nella missione “Istruzione e ricerca”; oltre il 36 per cento nella missione “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”; tra il 35 e il 37 per cento, a seconda delle ripartizioni tra le regioni, nella missione “Salute”; oltre il 34 per cento nella missione “Rivoluzione verde e transizione ecologica”; e circa il 39,4 per cento nella missione “Inclusione e coesione”.

È necessario poi sottolineare che, oltre ai fondi indirizzati alle regioni del Mezzogiorno, rimane difficile definire quanti tra gli aiuti ricevuti dall’Italia tramite il pacchetto del Next Generation Eu saranno destinati in modo specifico al meridione. Molte iniziative previste dal Pnrr, come la riforma della pubblica amministrazione e della giustizia, puntano infatti a ridurre i costi e gli sprechi a livello nazionale, portando – ci si augura – a conseguenze concrete per tutto il Paese, in particolare per le aree più svantaggiate.

Il 27 aprile, in un suo intervento in Senato, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha dichiarato che «il Sud non è stato discriminato» nell’assegnazione dei fondi del Pnrr. «Si potrà far meglio, si potrà cercare di riparare a qualche mancanza in tutta questa congerie di sorgenti di fondi, ma sostanzialmente l’impressione non è quella di una discriminazione colpevole», ha aggiunto Draghi.

Da dove arrivano però le proteste degli amministratori del Sud? C’è stato davvero uno scippo da «60 miliardi»?

60 miliardi in meno per il Mezzogiorno?

Come spiegato in un articolo pubblicato dal magazine Luiss Open, gestito dall’omonimo ateneo romano, i numeri sono stati estrapolati dai ricercatori della Fondazione Bruno Visentini, collegata istituzionalmente alla Luiss. Per farlo, questi hanno applicato a livello nazionale la formula utilizzata dall’Unione europea per ripartire i fondi del Dispositivo di ripresa e resilienza (Rrf) tra gli Stati membri.

L’Unione europea ha infatti stabilito una formula matematica per determinare quanti soldi assegnare a ogni Paese Ue tramite il Rrf, che fondamentalmente compara il peso del Pil, la popolazione, il reddito nazionale lordo e il tasso di disoccupazione di ogni Paese con i dati europei. In base a questi calcoli, all’Italia sono stati assegnati, come abbiamo detto, 191,5 miliardi di euro.

A febbraio 2021 la Fondazione Bruno Visentini – criticando la precedente proposta di Pnrr presentata dal governo Conte II – ha applicato la stessa formula su base nazionale, quindi solo sull’Italia, sostituendo i parametri europei con quelli italiani e i numeri italiani con i dati regionali. Secondo i risultati ottenuti il Mezzogiorno avrebbe diritto a circa 150 miliardi: 68 miliardi in più rispetto agli 82 attualmente stanziati, un numero vicino ai 60 miliardi «scippati» al Sud secondo de Bonis. La cifra è anche molto vicina al «70 per cento dei fondi stanziati nel complesso per l’Italia» – cioè i 191,5 miliardi del Rrf e i 30 miliardi aggiuntivi dati dal fondo complementare nazionale – come ha affermato D’Amato.

Sebbene i calcoli e i numeri dati dai due politici non siano del tutto sbagliati, questi sono frutto di un’incomprensione di base: la formula definita dall’Unione europea serve per calcolare la suddivisione dei fondi tra i 27 Stati membri, ma non deve poi essere applicata anche alle ripartizioni territoriali interne ai singoli Paesi.

Questo è stato confermato anche dalla ministra per il Sud Mara Carfagna (Forza Italia), che il 19 aprile ha scritto su Facebook: «È vero che quel principio, se fosse stato adottato a livello nazionale per dividere i fondi tra Nord e Sud, avrebbe premiato il Sud con una quota superiore al 60 per cento. Ma questo non è successo. L’esecutivo dell’epoca ha scartato l’idea e ha costruito diversamente l’impalcatura del #RecoveryPlan sulla quale tutti noi, successivamente, abbiamo dovuto lavorare».

La stima presentata dalla Fondazione ha comunque trovato spazio sui social media, dove diversi utenti la citavano più o meno direttamente anche prima degli interventi di D’Amato e de Bonis.

In conclusione

Nel corso delle ultime settimane la discussione riguardante il Piano nazionale di ripresa e resilienza si è concentrata sulle risorse allocate al Sud Italia che, secondo molti, sarebbero troppo limitate e non rispetterebbero i parametri europei.

In particolare, il 28 aprile il senatore del gruppo misto Saverio de Bonis ha criticato il modo in cui il governo Draghi intende utilizzare i fondi europei del programma Next Generation Eu, affermando che il Sud Italia avrebbe avuto diritto a 60 miliardi in più rispetto a quanto stimato dall’esecutivo nel suo Piano nazionale di ripresa e resilienza. Poco prima, il 26 aprile, l’europarlamentare indipendente Rosa D’Amato ha sostenuto che «al Sud sarebbero dovuti andare circa il 70 per cento dei fondi stanziati nel complesso per l’Italia».

I numeri citati dai due rappresentanti politici derivano da un calcolo di per sé corretto, ma fuori contesto: per ottenerli è infatti stata applicata a livello nazionale la formula utilizzata dall’Unione europea per determinare quanti fondi allocare a ogni Stato membro.

La formula, quindi, funziona a livello internazionale e compara i dati dei singoli Paesi con i corrispettivi europei, ma non è stata pensata per essere applicata anche a livello interno per determinare quanti prestiti o sussidi indirizzare a ogni regione.