Il 15 dicembre l’Istituto superiore di sanità (Iss)
ha pubblicato i risultati dell’ultima indagine sulla diffusione delle varianti del coronavirus nel nostro Paese. In base a questo rapporto, solo lo 0,2 per cento dei campioni analizzati era riconducibile alla variante omicron, mentre il restante 99,8 per cento alla variante delta.
Proprio la percentuale dello 0,2 per cento
è stata citata il 15 dicembre alla Camera dal presidente del Consiglio Mario Draghi, per sostenere che l’Italia ha una «situazione relativamente favorevole» per quanto riguarda la diffusione della variante omicron.
Questa percentuale va però presa con molta cautela. Innanzitutto, c’è un primo margine di incertezza: secondo l’Iss, in base ai 2.100 campioni analizzati dalle regioni, la diffusione della variante omicron
era compresa in una forbice tra lo zero e lo 0,9 per cento. In secondo luogo, è possibile che il metodo di selezione del numero comunque piuttosto basso di campioni analizzati non sia stato omogeneo e abbia portato portato a una stima non corretta. Questi problemi di rilevamento delle varianti
sono noti all’Iss sin dalle prime indagini sulla diffusione delle varianti in Italia.
Va poi considerato che la percentuale dello 0,2 per cento si basa su campioni notificati il
6 dicembre. Stiamo parlando di persone che si sono infettate tra i sette e i dieci giorni prima, dunque alla fine di novembre, considerando che tra l’infezione e lo sviluppo dei sintomi passano in media
cinque giorni, che tra l’inizio della sintomaticità e il tampone ne
passano due o tre e che tra il tamponi e i risultati ne passa almeno uno. Detta altrimenti, i dati del 15 dicembre fotografavano quello che stava succedendo a fine novembre.
Anche ipotizzando che allora esistesse un qualche «piccolo vantaggio» nel contenimento della variante omicron, oggi è molto probabile che sia andato perduto, dal momento che la variante si diffonde in maniera molto veloce.