No, la “rapina” da 840 miliardi del Nord nei confronti del Sud non esiste

Pagella Politica
Aggiornamento, ore 15 del 27 febbraio 2020: Abbiamo ricevuto, e pubblichiamo in calce all’articolo, la replica di Eurispes.

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Davvero centinaia e centinaia di miliardi di euro di spesa pubblica sono stati dirottati dal Sud al Nord? L’ultimo capitolo del dibattito sulle differenze tra le regioni italiane e i suoi motivi si è arricchito da poco di un numero molto preciso – 840 miliardi – che ha causato molta discussione. Ma che, come vedremo, non è per nulla affidabile.

Un articolo pubblicato il 7 febbraio 2019 dalla Gazzetta del Mezzogiorno con il titolo “Tolti al Sud e dati al Nord 840 miliardi di euro in 17 anni” ha portato a molte migliaia di reazioni sui social network. Nel pezzo, firmato dall’ex direttore del quotidiano Lino Patruno, viene spiegato che, secondo alcuni calcoli, «dal 2000 al 2017 lo Stato italiano ha sottratto […] al Sud 840 miliardi di euro, in media 46,7 miliardi all’anno». Soldi che – a detta di Patruno – non sarebbero stati «solo sottratti, ma dati al Nord».

Ma le cose stanno davvero come le descrive Patruno? No, vediamo perché.

Il calcolo di Eurispes

Sebbene basata su dati reali, la conclusione di 840 miliardi “sottratti” dal Nord al Sud è concettualmente errata. Vediamo come si arriva a questa enorme cifra, che se fosse vera equivarrebbe a circa metà del Pil italiano.

Come indicato da Patruno, i numeri menzionati nell’articolo provengono da una serie di calcoli fatti da Eurispes, un ente privato di ricerca fondato nel 1982 con sede a Roma.

In una scheda intitolata “Il Mezzogiorno al di là delle fake news”, contenuta nel “32° rapporto Italia” di Eurispes (presentato il 30 gennaio 2020), l’ente di ricerca confronta un particolare indicatore della spesa degli enti pubblici nel Centro-Nord e nel Mezzogiorno [1]. Quale indicatore venga usato è il punto cruciale della questione, ma premettiamo che i dati vengono da una fonte molto affidabile: la Relazione annuale 2019 dei Conti Pubblici Territoriali (Cpt), il sistema di raccolta dati dell’Agenzia per la Coesione territoriale (vigilata dalla Presidenza del Consiglio). Questo sistema «si occupa di misurare e analizzare i flussi finanziari di entrata e di spesa delle amministrazioni pubbliche e di tutti gli enti appartenenti alla componente allargata del settore pubblico».

L’indicatore utilizzato è quello della spesa pubblica pro capite del Settore pubblico allargato (Spa). Ci torneremo a breve.

Secondo i dati dei Cpt, nel 2017 la spesa pubblica pro-capite del Spa è stata di 11.939 euro nel Mezzogiorno, in calo rispetto ai 12.040 euro del 2016 (-0,8 per cento). Nello stesso anno la spesa pubblica pro-capite nel Centro-Nord ammontava invece a 15.297 euro, in crescita rispetto ai 15.062 euro del 2016 (+1,6 per cento). Una differenza quindi di 3.358 euro per abitante a favore delle regioni centrosettentrionali.
Grafico 1: spesa pubblica primaria al netto delle partite finanziarie (euro pro capite a prezzi costanti) – Fonte: Relazione annuale 2019 dei Conti pubblici territoriali
Grafico 1: spesa pubblica primaria al netto delle partite finanziarie (euro pro capite a prezzi costanti) – Fonte: Relazione annuale 2019 dei Conti pubblici territoriali
In tutto il periodo 2000-2017 il Centro-Nord ha presentato una spesa pubblica pro capite del Spa maggiore rispetto a quella del Mezzogiorno (Grafico 1).

A questo punto, è importante notare che Eurispes, nel suo rapporto, chiama spesso quell’indicatore “spesa pubblica”, omettendo “del settore pubblico allargato”. Un’omissione che però può dar luogo ad alcuni fraintendimenti – quello che sembra essere successo nell’editoriale di Patruno.

Infatti, Eurispes ha provato a calcolare quale sarebbe dovuta essere la “spesa pubblica” (sottointeso: del settore pubblico allargato) per il Mezzogiorno nel periodo considerato, se il totale fosse stato distribuito tra Centro-Nord e Mezzogiorno in relazione alle rispettive popolazioni [2].

Il risultato, secondo quanto scrive Eurispes, è che «la fetta che ogni anno il Sud avrebbe dovuto ricevere», «la somma sottrattagli» tra il 2000 e il 2017, «ammonta a più di 840 miliardi di euro, netti (in media, circa 46,7 miliardi di euro, netti, l’anno toltigli)». Abbiamo provato a replicare il calcolo fatto da Eurispes (lo trovate qui [3]) e i conti tornano [4].

Questione chiusa quindi? Non proprio: è l’impostazione ad essere sbagliata. Tutto sta nel considerare che cosa si intende con “spesa pubblica totale del settore pubblico allargato”. E considerandolo più da vicino, non ci sono molte prove della “rapina”.

Spesa pubblica non vuol dire spesa dello Stato

Anche se sono stati utilizzati dati ufficiali e attendibili (quelli dei Cpt), il calcolo effettuato da Eurispes presenta un importante difetto da un punto di vista concettuale.

In più di un’occasione si comprende come l’ente di ricerca intenda i dati sulla spesa pubblica Spa forniti dai Cpt come il totale dei fondi che lo «Stato destina alle due diverse parti del Paese» [5].

Il problema è che le risorse provenienti dallo Stato sono solo una parte della spesa pubblica del Settore pubblico allargato. Quest’ultimo comprende, oltre che alle amministrazioni centrali, regionali e locali (quella considerata dai Cpt come “la pubblica amministrazione”), anche le imprese pubbliche locali – come possono essere le aziende dei trasporti pubblici locali, l’Atm milanese o l’Azienda Napoletana Mobilità – e le imprese pubbliche nazionali: enti di diritto privato ma a partecipazione a maggioranza pubblica come, ad esempio, Eni ed Enel.

Quindi, la spesa pubblica del Settore pubblico allargato è una grandezza molto più ampia e molto differente rispetto alle risorse che lo Stato centrale destina ogni anno alle varie regioni, come sembra far intendere invece il calcolo di Eurispes. Questo perché i dati Cpt tengono conto anche della spesa effettuata sul territorio da soggetti che operano solo a livello locale, che prendono decisioni di spesa in autonomia e che si finanziano solo in parte grazie ai trasferimenti effettuati dallo Stato.

Una torta indivisibile

Non solo: l’analogia di una torta – la spesa pubblica del Spa – che può essere distribuita in modo diverso tra le varie regioni è sbagliata. Per comprendere perché, prendiamo a riferimento i dati della spesa pubblica del Spa per il 2017.

Secondo i conti fatti da Eurispes su i dati dei Cpt, la spesa pubblica del Settore pubblico allargato italiano era pari a 856,3 miliardi di euro (in termine reali ai prezzi del 2010). Di questi, 248,1 miliardi erano stati spesi da soggetti pubblici (o a controllo pubblico) nel Mezzogiorno e 608,9 miliardi da soggetti pubblici nel Centro-Nord.

Certo, parte delle risorse utilizzate da questi soggetti deriva direttamente da trasferimenti dello Stato centrale. Ma una porzione dei 248,1 miliardi di spesa pubblica effettuata nel Mezzogiorno è il prodotto di fondi raccolti in autonomia da questi stessi soggetti, che effettuano spese (anche) in funzione delle risorse che sono in grado di reperire sul territorio. Per esempio, parte della spesa delle regioni è finanziata da imposte regionali (per esempio, l’Irap, l’Imposta regionali sulle attività produttive).

Per questa ragione, non ha senso considerare gli 865,3 miliardi di euro al pari di un’unica torta che viene divisa dallo Stato tra il Nord e il Sud del Paese. Questo perché parte dei miliardi di spesa che vanno a formare rispettivamente i 608,9 e i 248,1 miliardi di euro sono il risultato di decisioni di spesa che non si influenzano tra di loro e che vengono finanziate in autonomia.

Questo significa che il totale della spesa pubblica effettuata dal Settore pubblico allargato nel Mezzogiorno può aumentare oltre 248,1 miliardi di euro senza che quella del Centro-Nord cali di conseguenza, e viceversa.

Date ai comuni quel che è dei comuni

Se poi si considera la situazione a livello locale, l’idea della “rapina” è ancora meno plausibile. Una parte dei soldi di comuni e regioni proviene dallo Stato centrale, ma un’altra parte deriva dalla raccolta di tributi dai propri cittadini (per esempio, tramite le imposte sui rifiuti, quelle sui redditi e così via).

Questo vuol dire che la capacità di spesa e, di conseguenza, il livello di spesa pubblica effettuata in una certa area è determinata anche dalle risorse che questi enti sono in grado di reperire in autonomia.

Quindi, visto che le risorse non derivano interamente dallo Stato centrale, non si può dire che se un comune del Sud aumenta di 100 euro la sua spesa pubblica allora significa che un comune del Nord si trova, di conseguenza, nella condizione di dover spendere 100 euro in meno. Questo perché, come detto, solo una parte di questi ipotetici 100 euro è finanziato dai trasferimenti di Roma.

Se si include quel tipo di spesa nel totale da redistribuire si arriva a conclusioni potenzialmente assurde, come ad esempio l’idea di trasferire parte della tassa sui rifiuti raccolta a Torino verso altre zone d’Italia.

Prossima fermata Sud?

Un esempio ancora più importante riguarda le società partecipate locali, come, ad esempio, le aziende di trasporti Atm (Milano), Amat (Palermo) e Atac (Roma) o l’azienda sanitaria So.re.sa Spa (Campania).

Queste aziende finanziano una porzione delle loro spese tramite la vendita di beni e servizi al pubblico delle aree di riferimento. Il loro livello complessivo di spesa – un dato che finisce (in parte) all’interno del totale della spesa pubblica del Spa usato da Eurispes e indirettamente da Patruno – è influenzato anche dai ricavi provenienti dai servizi che riescono a fornire alla cittadinanza locale.

Per questa ragione, non si può considerare il 100 per cento della loro spesa come il risultato di fondi provenienti da Roma e quindi sottratti ad altri territori. A meno che non si voglia sostenere che il totale dei proventi della vendita di servizi di trasporto nella città di Milano debba finanziare la spesa pubblica di altre regioni e non il sistema del trasporto pubblico milanese.

Intendiamoci, si può sostenere – eccome – che l’ammontare delle risorse raccolte e spese dalle regioni del Mezzogiorno sia influenzato dalle decisioni prese dal governo centrale, o che i trasferimenti del governo centrale verso le regioni del Sud dovrebbero aumentare in maniera consistente. Ma non si può considerare il 100 per cento della spesa pubblica allargata come spesa decisa e controllata dallo Stato, in un gioco a somma zero tra Nord e Sud del Paese.

La proporzione tra spesa e popolazione

Nel suo articolo per la Gazzetta del Mezzogiorno, Patruno ha però suggerito che la redistribuzione sia obbligatoria e che un principio in quel senso venga violato: si fa allusione infatti al «mancato rispetto del famoso 34 per cento, la percentuale della popolazione meridionale che avrebbe dovuto essere anche la percentuale della spesa al Sud».

Esiste una componente della spesa pubblica che deve effettivamente seguire il principio di proporzionalità rispetto alla quota di residenti, anche se quella componente è molto diversa rispetto al totale della spesa pubblica allargata di cui abbiamo parlato finora.

Come riporta infatti la relazione annuale 2019 dei Cpt, quanto deve essere allocato al Mezzogiorno in proporzione alla sua popolazione sono gli stanziamenti ordinari in conto capitale delle Amministrazioni centrali [6], in base a una legge del 2017 (art 7-bis della legge 18 del 2017 poi modificato dalla legge 145 del 2018).

Insomma, almeno una parte degli 865,3 miliardi di euro di spesa pubblica contabilizzata dai Cpt è toccato dalla regola del 34 per cento citata in precedenza. E, aggiungiamo subito, quella regola non è solitamente rispettata dalle amministrazioni centrali.

In particolare, nella relazione annuale 2019 i Cpt stimano che se si fosse applicato questo principio retroattivamente per gli stanziamenti ordinari in conto capitale effettuati dalle amministrazioni centrali nel periodo 2000-2017, il Mezzogiorno avrebbe dovuto ricevere 2,57 miliardi di euro l’anno [7], data dalla differenza tra la quota media ricevuta (pari al 26,6 per cento del totale) e la popolazione media del periodo (pari al 35,1 per cento della popolazione italiana).

Esiste insomma una disparità di finanziamento anche in base a quanto stabilito dalla legge, ma le cifre sono enormemente più ridotte rispetto agli 840 miliardi della presunta “rapina” e ammontano a circa 43 miliardi di euro per il 2000-2017. Numero consistente, ma di un altro ordine di grandezza rispetto a quello di cui si discute in questi giorni.
Grafico 2: Simulazione dell’applicazione della legge 145/2018 per il periodo 2000-2017 (miliardi di euro costanti 2010) – Fonte: Rapporto annuale Cpt 2019
Grafico 2: Simulazione dell’applicazione della legge 145/2018 per il periodo 2000-2017 (miliardi di euro costanti 2010) – Fonte: Rapporto annuale Cpt 2019

Tiriamo le fila

Ricapitolando: il calcolo di Eurispes, poi ripreso da altre fonti di stampa, presenta un problema consistente. Il problema deriva da un’interpretazione scorretta dei dati sulla spesa pubblica pro capite del Settore pubblico allargato forniti dai Conti pubblici territoriali. È infatti sbagliato considerare i dati del Cpt sulla spesa pubblica come le risorse che lo Stato stanzia alle varie zone d’Italia, visto che in questi dati si tiene conto anche della spesa pubblica effettuata da soggetti pubblici con autonomia di spesa rispetto alle amministrazioni centrali: dagli enti locali alle partecipate del trasporto pubblico alle aziende statali come Eni o Enel.

Attenzione però: ciò non significa che il Sud non necessiti di spesa pubblica aggiuntiva e che i dati di spesa Spa non certifichino un gap in termini di servizi essenziali pubblici tra il Nord e il Sud del Paese (come, ad esempio, ha spiegato recentemente lo Svimez in un’audizione alla Camera). O ancora che le amministrazioni centrali non debbano fornire maggiori risorse alle regioni del Mezzogiorno.

Un conto è però dire che le amministrazioni centrali e le imprese pubbliche nazionali dovrebbero investire maggiormente nelle regioni del Mezzogiorno (nel 2017 le imprese di proprietà dello Stato, ad esempio, hanno diminuito i loro investimenti al Sud). Un altro è affermare, sulla base dei dati dei Cpt sul Settore pubblico allargato, che la differenza di spesa pubblica tra il Centro-Nord è il Mezzogiorno sia da ricondurre in tutto e per tutto ad una decisione dello Stato centrale di dirottare ogni anno decine di miliardi di euro dal Sud al Nord del Paese.

La rapina che non c’era

C’è stata molta discussione intorno a un articolo della Gazzetta del Mezzogiorno che ha riportato che «dal 2000 al 2017 lo Stato italiano ha sottratto […] al Sud 840 miliardi di euro, in media 46,7 miliardi all’anno».

L’articolo riprende un calcolo fatto dal centro studi di Eurispes che, sebbene si basi su dati corretti, presenta alcuni problemi dal punto di vista concettuale.

Infatti, la spesa pubblica considerata (quella dei Conti pubblici territoriali per il Settore pubblico allargato) non riguarda (solo) gli stanziamenti fatti dallo Stato nelle varie aree del Paese, ma il totale della spesa pubblica effettuata da vari soggetti pubblici, molto diversi tra loro, con autonomia di spesa. Per questa ragione, non ha senso utilizzare questi dati per valutare il ruolo dello Stato nei trasferimenti tra Centro-Nord e Mezzogiorno. La “rapina” di 840 miliardi non è mai avvenuta.

Replica di Eurispes: Premesso che se gli autori di tale articolo avessero consultato meglio la Relazione Annuale 2019 del Sistema dei Conti Pubblici Territoriali, avrebbero scoperto che ciò che essi identificano come la parte della spesa pubblica di provenienza strettamente locale ed effettuata da soggetti pubblici con autonomia di spesa (di cui senza fornirne alcuna entità numerica viene da essi, con argomentare pressappochistico, dato a intendere trattarsi di una parte sì cospicua da costringere a un totale ridimensionamento della somma degli 840 miliardi d’euro), costituisce in realtà una frazione esigua della spesa pubblica allargata complessiva (le Imprese Pubbliche Locali – IPL, ad esempio, sono complessivamente titolari di appena il 6% del totale ammontare della spesa pubblica allargata del Paese; senza contare poi che di questo 6% comunque solo una parte proviene da risorse di provenienza strettamente locale). Ad ogni modo, ogni sorta di considerazione di tal genere è in sé priva di qualsiasi rilevanza e utilità, poiché in virtù degli articoli (specialmente) 117 e 119 del Titolo V della Costituzione (recepente le modifiche sul federalismo fiscale), lo Stato deve obbligatoriamente supplire alle minori capacità dei territori più poveri. Come per esempio si legge alla lettera m, comma 2^, dell’articolo 117, lo Stato deve provvedere alla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Lo Sato dunque deve; e non: dovrebbe. Suscitano pertanto una certa tenerezza le parole degli autori di suddetto articolo quando scrivono: «Intendiamoci, si può sostenere – eccome – che l’ammontare delle risorse raccolte e spese dalle regioni del Mezzogiorno sia influenzato dalle decisioni prese dal governo centrale, o che i trasferimenti del governo centrale verso le regioni del Sud dovrebbero aumentare in maniera consistente». Parole simili denotano il vuoto conoscitivo più completo riguardante, a tale proposito, la Costituzione. Su questo la Carta costituzionale è oltremodo chiara; come infatti sancisce il 4^ comma dell’articolo 119: «La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante». È dunque competenza dello Stato il dover adoperarsi al fine di raggiungere l’equità. Tant’è vero che sempre nello stesso articolo, al 6^ comma, per rafforzare il concetto viene ribadito che: «Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni». Dunque “rimuovere gli squilibri” – e non ridurre gli squilibri – significa rimuovere le differenze, pertanto fino al raggiungimento dell’equità. E questo è appunto compito esclusivo dello Stato italiano, sistematicamente disatteso, soprattutto nella fattispecie della Commissione Bicamerale per l’Attuazione del Federalismo Fiscale (come peraltro da noi riportato nella stessa Scheda 43 del Rapporto Italia 2020), nonostante le imposizioni delle sentenze della Corte Costituzionale (come ad esempio: la n. 141/2016 o la n. 273/2013 o anche la n. 65/2016), le leggi attuative della Costituzione (come, ad esempio, la 243 del 2012) o il Dpcm del 27 marzo 2015.

Alla luce di tutto questo, finisce allora per debordare nel grottesco il maldestro tentativo degli autori dell’articolo di ridurre, da ultimo, il discorso della sottrazione di spesa al Mezzogiorno alla sola mancata applicazione della clausola del 34% con, di conseguenza, il goffo ridimensionamento della sottrazione effettiva di spesa al Sud da 840 a 43 miliardi di euro.

Nella nostra Scheda 43 (a pag. 725 del Rapporto Italia) abbiamo specificato chiaramente che la clausola del 34% (introdotta nella legge n. 18 del 27-2-2017) si riferisce all’assegnazione al Mezzogiorno del 34% della spesa pubblica allargata (SPA) esclusivamente relativa «alle risorse per programmi di spesa in conto capitale» (e non già dunque a tutta la spesa pubblica allargata). Tale clausola, che a tutt’oggi non ha ancora trovato attuazione (quindi mai finora; e non come sostengono gli autori dell’articolo che «non è solitamente rispettata dalle amministrazioni centrali»), non è che una norma minimalista che si va a sovrapporre ai suddetti disattesi articoli costituzionali, senza alcun valore sostitutivo degli stessi, né tanto meno riuscendo a soddisfarne la portata, se non per un segmento del tutto irrisorio.

Dunque, è lo Stato che, disattendendo apertamente la Costituzione, le leggi attuative della Costituzione, le sue stesse norme, i suoi decreti e le sentenze della Corte Costituzionale, non rimuove le suddette differenze per riequilibrare la spesa pubblica allargata (cioè quella complessiva), di fatto, commettendo dei continui atti incostituzionali, illeciti e illegali. La rimozione delle differenze non può che avvenire attuando le suddette misure obbligatorie, sì da far pervenire al Sud come al Centro-Nord la stessa quota media di spesa pubblica allargata pro capite. Gli 840 miliardi sono la misura esatta di quest’omissione perpetrata dallo Stato italiano, dal 2000 al 2017, ai danni del Mezzogiorno che così l’ha privato e, pertanto, gli ha sottratto tale sua legittima somma di spesa pubblica, rendendosi l’artefice e il responsabile dell’iniqua maggiore attribuzione di spesa pubblica al Centro-Nord.

Ultima piccola precisazione. All’inizio della nostra Scheda 43 sul Mezzogiorno abbiamo definito con precisione (quindi una volta per tutte) che quella da noi considerata sarebbe stata la spesa pubblica allargata. Nella prima pagina di tale Scheda (pag. 723 del nostro Rapporto) si legge infatti distintamente quanto segue: «Spesa Pubblica Allargata, cioè di spesa complessiva (SPA – Spesa totale primaria al netto delle partite finanziarie, in euro pro capite costanti), che corrisponde al totale dei fondi pubblici stanziati ed effettivamente spesi». Pleonastico perciò ripetere a ogni rigo: “Spesa Pubblica Allargata”. A ogni volta successiva, l’utilizzo della semplice espressione: “spesa pubblica” è stata più che sufficiente. Ripeterne per esteso e di continuo l’espressione sarebbe stato ridondante e inutile, avendo formulato e definito dall’inizio a quale spesa pubblica ci si riferiva.



[1] Nello studio viene utilizzata la classificazione Nuts (Nomenclatura europea delle unità statistiche territoriali) di Eurostat, adottata anche da Istat.

Secondo questa classificazione fanno parte del Mezzogiorno Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna.Fanno parte invece del Centro–Nord Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria, Provincia Autonoma di Bolzano, Provincia Autonoma di Trento, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana, Lazio, Umbria e Marche.

[2] Come riporta Eurispes: «Se, della spesa pubblica totale, si considera la fetta che ogni anno il Sud avrebbe dovuto ricevere, corrispondente in percentuale alla sua popolazione, vien fuori che, complessivamente, dal 2000 al 2017, la somma sottrattagli ammonta a più di 840 miliardi di euro, netti (in media, circa 46,7 miliardi di euro, netti, l’anno toltigli).»

[3] Eurispes ci ha confermato che questo è il calcolo da loro effettuato.

[4] Il calcolo è stato effettuato calcolando la spesa pubblica totale del Settore pubblico allargato (Spa) nelle due aree considerate (Mezzogiorno e Centro–Nord). Per farlo, è stato calcolato il prodotto tra la popolazione dell’area di riferimento e il valore della spesa pro capite per ciascuno dei 18 anni considerati. A quel punto, la differenza calcolata da Eurispes è pari al totale della spesa pubblica pro capite Spa per il Mezzogiorno, se la spesa pubblica Spa fosse stata proporzionata alla popolazione del Mezzogiorno, meno la spesa pubblica effettiva per il periodo 2000–2017.

[5] Ci sono diversi passaggi all’interno del Rapporto Eurispes 2020 che fanno capire come questa sia l’interpretazione fatta dall’Istituto. Per esempio, all’interno del rapporto si leggono espressioni come «lo Stato italiano […] spende», «il Mezzogiorno si veda destinare dallo Stato italiano una spesa nettamente e sistematicamente inferiore», e «tutte le regioni del Nord Italia si vedono invece irrorate dallo Stato di un quantitativo di spesa annua nettamente superiore alla media nazionale».

[6] Secondo il decreto attuativo della legge (D.p.c.m. 7 agosto 2017), per “Amministrazioni centrali” si intendono «i Ministeri e la Presidenza del Consiglio», mentre per “stanziamenti ordinari in conto capitale” si fa riferimento agli «stanziamenti di bilancio destinati a spese per investimenti fissi lordi e contributi agli investimenti, iscritti, in un dato esercizio finanziario, nel bilancio dello Stato o nel bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio dei ministri che non derivano da assegnazioni del Fondo sviluppo e coesione o dai Fondi strutturali e di investimento europei (Sie) e relativo cofinanziamento nazionale».

In parole semplici: a dover essere stanziati in maniera proporzionale alla popolazione del Mezzogiorno sono le risorse di natura ordinaria destinate dalle Amministrazioni centrali alle regioni per le spese che queste sostengono per la realizzazione o l’acquisto di costruzioni, impianti, macchinari, armamenti e prodotti di proprietà intellettuale (per l’appunto, i cosiddetti “investimenti fissi lordi”) e per i soldi che le regioni destinano ai privati per favorire gli investimenti sul territorio.

[7] Come riporta la relazione Cpt, con la legge di Bilancio 2019 (legge 145 del 2018) si è rivista la normativa, estendendo il rispetto del principio di proporzionalità «ricomprendendo nel calcolo, oltre alle Amministrazioni Centrali, anche gli investimenti di Anas e della Rete Ferroviaria Italiana (Rfi)». Per questo calcolo vengono quindi considerati anche gli investimenti di Anas e Rfi.

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