“Ce lo chiede la Nato”? La lunga storia delle spese militari al 2 per cento del Pil

Da giorni questa percentuale è al centro del dibattito politico: è stata nominata per la prima volta nel 2006, non è un impegno vincolante, ma è stato rinnovato da tutti gli ultimi governi italiani
EPA/STEPHANIE LECOCQ
EPA/STEPHANIE LECOCQ
Nelle ultime due settimane il dibattito politico italiano si sta concentrando sull’aumento delle spese militari. Il 16 marzo la Camera ha approvato a larga maggioranza un ordine del giorno che impegnava il governo a portare queste spese a un valore pari al 2 per cento del Pil. Ma nei giorni seguenti alcuni partiti, in particolare il Movimento 5 stelle, hanno iniziato a prendere le distanze da questa decisione. Il 28 marzo, in un intervento su La Stampa, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Partito democratico) ha ribadito la necessità di aumentare le spese militari, sostenendo che l’Italia deve dimostrarsi affidabile nei confronti dei suoi alleati della Nato.

Ma da dove viene la percentuale del 2 per cento di cui si sente parlare molto negli ultimi giorni? Si tratta di un impegno vincolante, richiesto dalla Nato e preso dal nostro Paese a livello internazionale? Oppure il nostro governo ha un ampio margine di manovra su questo punto? Abbiamo cercato di fare un po’ di chiarezza.

Come si finanzia la Nato

La Nato, un’alleanza militare tra 30 Paesi, riceve i fondi dai suoi membri attraverso contributi diretti e indiretti. I primi servono per finanziare le operazioni comuni della Nato, come i sistemi di difesa aerea o di comando e controllo. In questo caso i costi sono sostenuti collettivamente e ogni Paese contribuisce in base al proprio reddito nazionale lordo (Rnl), un parametro si calcola aggiungendo o sottraendo al Pil i redditi guadagnati da o pagati a persone o aziende estere. 

Oggi il bilancio della Nato è pari a circa 2,5 miliardi di euro, una cifra piuttosto ridotta rispetto alla grandezza dell’organizzazione. Questi sono suddivisi in un fondo per le operazioni civili da circa 290 milioni di euro, uno per le operazioni militari (1,6 miliardi di euro) e un programma di investimenti (790 milioni di euro). Gli Stati Uniti e la Germania, i Paesi più ricchi tra i membri Nato, contribuiscono entrambi coprendo il 16,3 per cento dei finanziamenti diretti. Seguono il Regno Unito (11,2 per cento), la Francia (10,5 per cento), l’Italia (8,3 per cento) e gli altri Paesi a scendere. 

I contributi indiretti, invece, sono i più consistenti e riguardano, per esempio, i casi in cui un Paese mette a disposizione le proprie truppe o attrezzature in un’operazione militare. In questo gli Stati possono decidere di partecipare secondo le proprie possibilità, fornendo soldati o mezzi per operazioni via terra, navali o aeree, ma anche supporto medico o umanitario. Le spese per queste operazioni volontarie sono totalmente a carico dei singoli Paesi che le intraprendono.

Proprio per assicurarsi che, in caso di necessità, tutti i Paesi Nato possano contribuire in modo significativo agli sforzi dell’alleanza con i propri mezzi – tramite, quindi, i contributi indiretti – è stato deciso che gli Stati membri devono spendere per la difesa nazionale una cifra pari almeno al 2 per cento del proprio Pil. Ma perché è stata scelta questa percentuale? E quando si è iniziato a parlarne?

Da dove viene l’obiettivo del “2 per cento”

Il riferimento al 2 per cento del Pil da destinare alle spese militari è comparso per la prima volta nel 2006, nel corso di una conferenza stampa al margine del vertice Nato di Riga, in Lettonia. In quell’occasione, per la prima volta, i ministri della Difesa dei Paesi membri della Nato hanno espresso la volontà di destinare il 2 per cento del Pil alle spese militari, anche se all’epoca un portavoce dell’alleanza aveva precisato che non si trattava di «un impegno formale​​», ma della «decisione di lavorare a questo obiettivo»

Nel settembre 2014, quindi dopo l’annessione illegittima della Crimea da parte della Russia, al summit di Newport, in Galles, i capi di Stato e di governo dei Paesi Nato hanno formalizzato quanto deciso ormai otto anni prima. Nella dichiarazione conclusiva dell’evento si legge infatti che tutti gli alleati che spendevano meno del 2 per del Pil in ambito militare – tra cui anche l’Italia – avrebbero dovuto evitare ogni ulteriore riduzione per questa voce di spesa, e anzi avrebbero dovuto aumentare il budget seguendo le direttive Nato, in modo da raggiungere la soglia del 2 per cento entro i successivi dieci anni (quindi entro il 2024). 

In quel momento solo tre Paesi su 30 spendevano già quanto stabilito: gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Grecia. Sette anni dopo, nel 2021, a questi si sono aggiunti altri sette Stati, tra cui Croazia, Polonia e Romania. Lo scorso anno tra i grandi Paesi europei solo la Francia rispettava l’impegno – seppur di poco, con una spesa del 2,01 per cento – mentre Germania (1,5 per cento), Italia (1,4 per cento) e Spagna (1 per cento) erano ancora lontane dall’obiettivo. 

Come sottolineato nel 2015 da Jan Techau, all’epoca direttore di Carnegie Europe (un think tank specializzato nella politica estera europea) ed ex ricercatore della Nato, il parametro del 2 per cento è stato deciso in maniera pressoché arbitraria, anche se effettivamente il rispetto di questa soglia minima permetterebbe all’alleanza e ai suoi Paesi membri di colmare parte delle loro lacune militari. Secondo Techau, inoltre, questo parametro si limita a misurare gli «input», ossia le risorse finanziarie immesse in operazioni che hanno a che fare con la difesa, ma non gli «output», ossia le conseguenze pratiche di queste spese, non permettendo dunque di valutare le reali capacità militari di un Paese.

Un impegno non vincolante

Nonostante il livello di spesa minimo sia stato formalizzato dai leader dei Paesi Nato – e come vedremo, più volte confermato – questo non rappresenta un impegno legalmente vincolante, e al momento non sono previste conseguenze o sanzioni specifiche per chi non dovesse rispettarlo. Il sito della Nato spiega che la decisione è stata presa per «assicurare la prontezza militare della Nato», e la soglia rappresenta un «indicatore della volontà politica dei diversi Paesi di contribuire agli sforzi comuni di difesa», dato che le capacità militari di ogni membro si riflettono poi sulla «percezione complessiva della credibilità dell’alleanza come organizzazione politico-militare».

Inoltre, la dichiarazione sottoscritta a Newport contiene anche un’altra indicazione importante. Della spesa pari almeno al 2 per cento del Pil teoricamente destinata alla difesa, almeno il 20 per cento dovrebbe essere indirizzato in particolare a investimenti per l’acquisto, ricerca e sviluppo di attrezzature militari (i cosiddetti “major equipment”).  In questo caso, l’Italia ha raggiunto l’obiettivo: nel 2014 destinavamo agli investimenti poco più del 10 per cento del budget, ma nel 2021 la percentuale sfiorava il 29 per cento. Solo cinque Paesi membri però non rispettavano questa indicazione: Germania, Belgio, Canada, Portogallo e Slovenia. 

Le riconferme dei governi, da Renzi a Conte

La dichiarazione del 2014, che impegna i membri della Nato a destinare almeno il 2 per cento del Pil alle spese militari, è stata sottoscritta dai leader di tutti i Paesi membri dell’Alleanza tra cui, per l’Italia, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi

L’impegno è poi stato ribadito da tutti i successivi governi in occasione dei summit Nato: nel 2016 a Varsavia dallo stesso Renzi, nel 2018 e nel 2019 da Giuseppe Conte (rispettivamente a capo dei governi sostenuti da Lega e M5s e poi da M5s e Pd) e infine nel 2021 da Mario Draghi, durante l’ultimo vertice a Bruxelles, in Belgio. Proprio in quest’ultima occasione, tra l’altro, i leader hanno ribadito il proprio impegno in modo inequivocabile, affermando: «Siamo individualmente e collettivamente decisi a migliorare la divisione dei costi e delle responsabilità tra i membri dell’alleanza», anche in virtù di quanto deciso «al summit del 2014 in Galles».

I dubbi ci sono da tempo

Nonostante gli impegni presi a livello internazionale, fino a pochi giorni fa l’Italia non aveva mai preso iniziative drastiche volte ad aumentare in modo significativo la spesa militare, anzi: in passato diversi esponenti politici hanno espresso dubbi riguardo alle reali possibilità di raggiungere l’obiettivo. 

Già nel 2014, subito dopo la conclusione del vertice Nato che ha formalizzato l’impegno,  l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva detto che l’Italia avrebbe potuto aumentare la spesa in difesa fino al 2 per cento del Pil solo se l’Unione europea avesse escluso «i nuovi stanziamenti dalle valutazioni sul rispetto dei vincoli di bilancio», imposti dall’Ue. 

Anni dopo, nel novembre 2019 il ministro della Difesa Lorenzo Guerini aveva detto che ​​l’obiettivo di spendere almeno il 2 per cento del Pil in ambito militare entro il 2024 non era «realisticamente realizzabile». Meno di un mese dopo, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha comunque partecipato al summit Nato di Londra, confermando gli impegni presi nel 2014. 

L’andamento della spesa militare in Italia

Negli ultimi otto anni l’Italia ha aumentato il peso delle proprie spese militari rispetto al Pil, ma non abbastanza per raggiungere il 2 per cento deciso a livello internazionale. Nel 2014 il nostro Paese spendeva infatti l’1,1 per cento del Pil in questo settore, e la percentuale è salita fino a raggiungere l’1,4 per cento nel 2021. 

Secondo i calcoli dell’Osservatorio Milex – un progetto avviato nel 2016 in collaborazione con la Rete italiana pace e disarmo – per raggiungere il 2 per cento dovremmo aggiungere 13 miliardi di euro al budget annuale per la difesa, che nel 2022 è di circa 25 miliardi di euro. 
Secondo i dati della Banca mondiale, negli anni tra il 1960 e il 1974 l’Italia ha sempre speso più del 2 per cento del proprio Pil in ambito militare, sfiorando anche il 3 per cento nel 1966. Dal 1990 in poi, però, la soglia non è mai più stata raggiunta, fino ad ora.

Non siamo soli

Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, l’Italia non è stato l’unico Paese europeo ad annunciare di voler rivedere al rialzo le proprie spese militari. Il 27 febbraio, per esempio, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha detto che a breve la Germania aumenterà di 100 miliardi di euro le spese militari proprio per raggiungere la soglia del 2 per cento del Pil. È una notizia importante: negli ultimi decenni la Germania, che è il Paese più ricco dell’Unione europea, non ha mai investito somme ingenti in ambito militare, mantenendosi sempre ben al di sotto delle richieste. 

In Danimarca – l’unico dei 27 Paesi europei che non fa parte dell’Agenzia europea per la difesa – il prossimo 1° giugno verrà organizzato un referendum nel quale i cittadini potranno decidere se unirsi o meno agli sforzi collettivi dell’Ue in questo settore. La prima ministra Mette Frederiksen ha inoltre annunciato l’intenzione di aumentare il bilancio della difesa al 2 per cento del Pil nei prossimi anni.

Tra gli altri Paesi la Polonia, che già nel 2021 aveva destinato il 2,1 per cento del Pil alla difesa, ha ora fatto sapere di voler aumentare ulteriormente le spese per raggiungere il 3 per cento del Pil nel 2023. Anche il governo lituano sta discutendo di un possibile aumento. 

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