La fragile linea difensiva del governo sul caso Almasri

Nella nuova memoria, Nordio, Piantedosi e Mantovano provano a respingere le accuse sul rimpatrio del generale libico, ma le loro argomentazioni hanno diversi punti deboli
ANSA/GIUSEPPE LAMI
ANSA/GIUSEPPE LAMI
Il 15 settembre è stato depositato alla Camera il documento con cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano hanno presentato la loro difesa rispetto alle accuse sul caso Almasri. Njeem Osama Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, il 21 gennaio era stato fermato per alcune ore in Italia e successivamente rimpatriato in Libia dal governo italiano, nonostante nei suoi confronti pendesse un mandato di arresto internazionale emesso dalla Corte penale internazionale (CPI) per crimini di guerra e contro l’umanità.

La memoria depositata dai tre esponenti del governo sarà esaminata dalla Giunta per le autorizzazioni, che dovrà esprimersi sulla richiesta del Tribunale dei ministri di Roma di processarli. A Nordio viene contestata l’omissione di atti d’ufficio e il concorso in favoreggiamento, mentre Piantedosi e Mantovano sono accusati di concorso in peculato. I lavori della Giunta dovrebbero concludersi entro la fine di settembre e, in seguito, sarà l’aula della Camera a decidere se autorizzare o meno il processo nei confronti dei membri del governo. Al momento, questa eventualità appare poco probabile.

Il testo integrale della memoria difensiva non è accessibile pubblicamente, ma il 17 settembre è stato illustrato in sintesi durante una seduta della Giunta dal deputato del Partito Democratico Federico Gianassi, relatore incaricato di presentare il documento che sarà messo ai voti. Punto per punto, vediamo quanto sono solide le argomentazioni avanzate da Nordio, Piantedosi e Mantovano a propria difesa.

Tempi troppo lunghi?

Nella loro memoria difensiva, Nordio, Piantedosi e Mantovano hanno innanzitutto contestato i tempi impiegati dal Tribunale dei ministri per esaminare il caso. A loro avviso, la Camera non dovrebbe autorizzare il processo perché le indagini preliminari condotte dal Tribunale dei ministri sarebbero durate «circa sette mesi», superando i termini previsti dalla legge. La norma richiamata è la legge costituzionale n. 1 del 1989, che disciplina i procedimenti per i reati commessi dai membri del governo nell’esercizio delle loro funzioni. Questa legge stabilisce che il Tribunale dei ministri debba concludere le indagini entro 90 giorni, prorogabili al massimo di ulteriori 60.

Per valutare questa contestazione è necessario ricostruire la cronologia degli eventi. Come indicato nella richiesta di autorizzazione a procedere inviata alla Camera dallo stesso Tribunale dei ministri, gli atti sul caso Almasri sono stati trasmessi al tribunale alla fine di gennaio, momento in cui sono iniziate le indagini preliminari. Il 5 agosto il Tribunale ha inviato alla Camera la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Nordio, Piantedosi e Mantovano, cioè circa sette mesi dopo l’avvio delle indagini. Questo però non significa che le indagini si siano protratte fino ad agosto. In realtà si sono concluse tra la fine di giugno e i primi giorni di luglio, dopo che a maggio il procuratore della Repubblica di Roma aveva chiesto una proroga, come consentito dalla legge. Dalla sequenza temporale emerge quindi che le indagini sul caso Almasri sono durate circa cinque mesi, e non sette come sostenuto nella memoria dei tre membri del governo.

Va aggiunto poi che il termine di 90 giorni, prorogabile di 60, non ha carattere perentorio. In passato la Corte costituzionale ha chiarito, in una sua sentenza, che questo limite deve essere considerato ordinatorio e non vincolante «a pena di decadenza». In termini giuridici, un termine è perentorio quando il suo superamento comporta la perdita del potere di compiere un atto. È invece ordinatorio quando serve soltanto a scandire le fasi della procedura – in questo caso le indagini del Tribunale dei ministri – per garantirne il corretto svolgimento, senza che la loro eventuale protrazione comporti la nullità degli atti compiuti.

La sostituzione nella deposizione

Nella memoria difensiva i ministri hanno denunciato inoltre «la mancanza di rispetto delle garanzie difensive in quanto il Tribunale dei ministri non avrebbe accettato la sostituzione della deposizione del ministro Nordio, che non si è reso disponibile all’audizione (…), con quella del sottosegretario Mantovano, che invece si era reso disponibile». Il 15 febbraio Nordio era stato convocato dal Tribunale dei ministri per presentarsi, ma una settimana più tardi, il 22 febbraio, aveva comunicato la propria indisponibilità, indicando Mantovano come sostituto. Il Tribunale ha però respinto la possibilità di ascoltare il sottosegretario al posto del ministro e, secondo la difesa del governo, questa scelta avrebbe rappresentato una «mancanza di rispetto» delle garanzie difensive.

Anche in questo caso, però, l’argomentazione non risulta fondata. La deposizione non è delegabile: ciascun indagato o testimone deve rispondere personalmente dei fatti che gli vengono contestati o che conosce direttamente. L’ordinamento riconosce all’indagato il diritto di farsi interrogare, di tacere o produrre memorie difensive, ma non di farsi sostituire [1]. Essendo parte in causa e direttamente coinvolto, il ministro Nordio non poteva trasferire l’audizione a un collaboratore, neppure se qualificato come il sottosegretario Mantovano. Il diritto di difesa consente all’indagato di scegliere se rendere dichiarazioni oppure no, ma non di delegare a un terzo la propria deposizione. Il mancato accoglimento della richiesta del ministro non costituisce dunque una violazione delle garanzie difensive, bensì la conseguenza della sua decisione di non presentarsi.

Le informative in Parlamento

Tra le altre contestazioni, nella memoria difensiva si accusa il Tribunale dei ministri di aver «qualificato le dichiarazioni rese in Parlamento dai ministri dell’Interno e della Giustizia in occasione dell’informativa resa il 5 febbraio 2025 come vere e proprie versioni difensive utilizzabili contro di loro, nonostante si trattasse di adempimenti al dovere istituzionale di informare le Camere». Il riferimento è all’informativa con cui Nordio e Piantedosi, lo scorso 5 febbraio, avevano riferito a Camera e Senato sul caso Almasri. Le informative sono strumenti con cui i membri del governo aggiornano il Parlamento su questioni di particolare rilievo e rappresentano una delle forme attraverso cui l’esecutivo risponde alle Camere.

Il fatto che il Tribunale dei ministri abbia acquisito le dichiarazioni rese da Nordio e Piantedosi come atti delle indagini non costituisce un’anomalia. Le informative parlamentari sono atti ufficiali, pubblici e trascritti integralmente nei resoconti stenografici di Camera e Senato. Proprio per questo possiedono un grado di attendibilità elevato e possono essere inseriti nel fascicolo processuale, diventando oggetto della libera valutazione del giudice.

Il divieto riguarda soltanto l’utilizzo di dichiarazioni autoincriminanti rese da un indagato senza garanzie difensive, come nel caso di un interrogatorio senza avvocato. Le ricostruzioni fornite in Parlamento da Nordio e Piantedosi non sono tali perché rese spontaneamente nell’esercizio delle funzioni istituzionali, non nel corso di un interrogatorio. Inoltre, il diritto di difesa non risulta violato, poiché i ministri avevano – e continuano ad avere – la possibilità di spiegare, integrare o correggere quelle dichiarazioni attraverso memorie o audizioni formali.

La posizione della capa di gabinetto

La memoria difensiva dei ministri parla anche della posizione della capa di gabinetto del Ministero della Giustizia, Giusi Bartolozzi. Il capo di gabinetto è una delle figure più rilevanti all’interno di un ministero, poiché assiste direttamente il ministro e funge da raccordo tra quest’ultimo e gli uffici interni.

Il 9 settembre diverse testate hanno riportato che Bartolozzi risulta indagata dalla Procura di Roma per false informazioni in relazione a quanto dichiarato durante la sua audizione davanti al Tribunale dei ministri sul caso Almasri. Bartolozzi era stata sentita il 31 marzo perché – come emerge dagli atti – era a conoscenza della richiesta della Corte penale internazionale rivolta all’Italia. Nella richiesta di autorizzazione a procedere trasmessa dal Tribunale dei ministri alla Giunta per le autorizzazioni della Camera, si legge che la versione fornita da Bartolozzi era stata giudicata «sotto diversi profili inattendibile e, anzi, mendace». Da qui l’apertura dell’indagine da parte della Procura di Roma, che la accusa di false informazioni: un reato punito con una pena fino a quattro anni di carcere per chi «rende dichiarazioni false» o «tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito».

In sostanza, l’accusa a Bartolozzi non riguarda direttamente il caso Almasri, ma la veridicità delle sue dichiarazioni rese al Tribunale dei ministri. La memoria difensiva dei ministri contesta però che la capa di gabinetto «sia iscritta nel registro degli indagati per false informazioni al pubblico ministero malgrado la ritenuta (…) stretta connessione tra il reato da lei commesso e quelli contestati ai ministri». Secondo i ministri, dunque, il reato contestato a Bartolozzi dovrebbe essere considerato in concorso con quelli attribuiti a Nordio, Piantedosi e Mantovano.

La valutazione dipende da come si interpreta la condotta della capa di gabinetto. Da un lato, le presunte false informazioni possono essere viste come un episodio autonomo, come ha fatto il Tribunale dei ministri, separando la sua posizione da quella dei membri del governo. Dall’altro, la difesa sostiene che tali dichiarazioni vadano inserite a pieno titolo nella strategia che ha portato alla liberazione e al rimpatrio di Almasri, e che quindi debbano essere considerate parte integrante della condotta attribuita ai ministri.

La questione ha implicazioni pratiche. Se il reato contestato a Bartolozzi fosse considerato connesso a quello dei ministri, anche a lei si potrebbero applicare le garanzie costituzionali previste per i procedimenti contro i membri del governo. In quel caso, l’accusa sarebbe di competenza del Tribunale dei ministri e, in caso di richiesta di autorizzazione a procedere, la decisione finale spetterebbe alla Camera. Ne deriverebbe che i partiti che sostengono il governo potrebbero bloccare l’autorizzazione al processo nei confronti della capa di gabinetto.

Il 18 settembre la Giunta per le autorizzazioni della Camera, su proposta dei partiti di centrodestra, ha approvato l’invio di una richiesta di chiarimenti alla Procura di Roma e al Tribunale dei ministri proprio sull’accusa nei confronti di Bartolozzi, per verificare se vi sia o meno un collegamento con il caso Almasri.

Su questo punto esistono già due precedenti giurisprudenziali. Due sentenze della Corte costituzionale hanno fissato i criteri per stabilire quando il collegamento tra i reati dei ministri e quelli dei collaboratori può essere riconosciuto. La Corte ha sempre adottato un’interpretazione restrittiva: il collegamento deve essere evidente, per evitare che questo principio si trasformi in una protezione ingiustificata, in grado di estendere un’immunità a soggetti che non ne hanno diritto, come appunto i collaboratori dei ministri.

L’irritualità della procedura di arresto

Secondo la sintesi della memoria difensiva, i ministri hanno anche contestato la procedura di arresto di Almasri, definendola irrituale perché, a loro avviso, la legge attribuirebbe l’iniziativa dell’arresto al ministro della Giustizia e non alla polizia giudiziaria.

Questa osservazione ha un fondamento, ma l’irregolarità avrebbe potuto essere corretta da Nordio stesso. La legge n. 237 del 2012 – che disciplina l’adeguamento dell’ordinamento italiano allo Statuto della Corte penale internazionale – stabilisce infatti che spetta al ministro della Giustizia trasmettere al procuratore generale gli atti ricevuti dalla CPI. Sarà poi il procuratore generale a chiedere alla Corte d’appello l’emissione della misura cautelare nei confronti della persona indagata. In questo caso, però, il 19 gennaio la DIGOS ha proceduto autonomamente ad arrestare a Torino Almasri, senza che vi fosse una preventiva richiesta del ministro.

Il ministro avrebbe potuto comunque intervenire per sanare l’irritualità. Nella richiesta di autorizzazione a procedere, il Tribunale dei ministri ricorda che l’allora capo del Dipartimento affari di giustizia del ministero, Luigi Birritteri, aveva segnalato la necessità di un atto urgente da parte di Nordio e aveva fatto predisporre una bozza di provvedimento per rispondere alla richiesta della CPI e regolarizzare la procedura. Quella bozza, tuttavia, non venne mai firmata dal ministro.

La discrezionalità di Nordio

Nella memoria difensiva si sostiene anche che Nordio avrebbe avuto il potere discrezionale di decidere se consegnare o meno Almasri alla Corte penale internazionale, sia per una presunta richiesta di estradizione avanzata dalla Libia, sia per presunte imprecisioni contenute nel mandato della Corte.

Questa tesi non trova riscontro nelle norme. Come già chiarito in un precedente fact-checking, il ministro della Giustizia dispone di un margine di discrezionalità soltanto sulle richieste di estradizione, ma non sui mandati di arresto della CPI, rispetto ai quali l’Italia ha un obbligo pieno di cooperazione. La legge con cui l’Italia ha ratificato lo Statuto di Roma istitutivo della CPI stabilisce che lo Stato che riceve una richiesta di arresto e consegna deve adottare «immediatamente» i provvedimenti necessari per darvi esecuzione. Anche la già citata legge n. 237 del 2012 prevede che «il ministro della Giustizia, nel dare seguito alle richieste di cooperazione, assicura che l’esecuzione avvenga in tempi rapidi». Queste disposizioni escludono quindi la possibilità di un potere discrezionale da parte del ministro.

Neppure gli eventuali errori presenti nel mandato di arresto potevano giustificare un rifiuto o un ritardo. Lo Statuto della CPI prevede infatti che, se uno Stato parte riscontra difficoltà che potrebbero ostacolare l’esecuzione di una richiesta, deve consultare «senza indugio» la Corte per risolvere il problema. Non a caso, in un comunicato del 22 gennaio, la stessa CPI aveva ricordato alle autorità italiane che qualsiasi problema rilevato avrebbe dovuto essere segnalato tempestivamente alla Corte per consentirne la correzione.

Anche l’argomentazione relativa alla presunta richiesta di estradizione libica appare debole. Come ricorda la richiesta di autorizzazione a procedere del Tribunale dei ministri, la Libia ha presentato la propria domanda il 20 gennaio, cioè due giorni dopo che la CPI aveva emesso il mandato di arresto il 18 gennaio. Inoltre, quella richiesta era priva della documentazione necessaria e non poteva essere considerata, «tecnicamente», una vera e propria istanza di estradizione. In ogni caso, il ministro non aveva il potere di sospendere o rinviare l’esecuzione del mandato della CPI invocando la presenza di una richiesta concorrente.

L’ipotesi di ritorsioni

Nella memoria difensiva si sostiene che la liberazione e il rimpatrio di Almasri sarebbero stati determinati anche dai rischi di possibili ritorsioni della milizia RADA contro interessi italiani, come prospettato dal direttore dell’AISE, il prefetto Giovanni Caravelli. L’AISE (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) è l’organo che gestisce l’attività dei servizi segreti esteri italiani, mentre la RADA è la milizia libica a cui appartiene Almasri e che controlla la prigione di Mitiga, vicino Tripoli, dove spesso vengono trattenuti i migranti dalle autorità libiche.

Dal punto di vista giuridico, questa obiezione appare debole. È vero che il Testo unico in materia di immigrazione consente al ministro dell’Interno, per ragioni di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, di disporre l’espulsione di uno straniero, previa comunicazione al presidente del Consiglio e al ministro degli Esteri. Ma questa facoltà si applica a casi che non rientrano nella giurisdizione della Corte penale internazionale, la quale riguarda invece crimini che incidono sulla sicurezza internazionale.

Inoltre, la giustificazione basata sul rischio di ritorsioni contrasta con quanto dichiarato dagli stessi membri del governo nei mesi precedenti. Nell’informativa del 5 febbraio in Parlamento, Piantedosi aveva escluso «nella maniera più categorica» che il governo avesse ricevuto «alcun atto o comunicazione che possa essere anche solo lontanamente considerato una forma di pressione indebita assimilabile a minaccia o a ricatto da parte di chiunque» per ottenere la liberazione di Almasri. 

Solo in seguito, nella memoria depositata il 25 febbraio, era stato introdotto il riferimento a presunti pericoli segnalati dall’intelligence, a sostegno della valutazione di pericolosità sociale del generale libico. Nella memoria del 30 luglio, poi, si è fatto ricorso al concetto di “stato di necessità”, richiamando un documento elaborato dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, che codifica le regole sulla responsabilità degli Stati per atti internazionalmente illeciti. Queste regole escludono l’illiceità internazionale di un atto se rappresenta l’unico mezzo per salvaguardare un interesse essenziale dello Stato contro un pericolo grave e imminente, purché non venga compromesso un interesse essenziale di un altro Stato o della comunità internazionale.

Secondo il Tribunale dei ministri, però, la scelta di rimpatriare Almasri ha pregiudicato «seriamente» un interesse della comunità internazionale, poiché i crimini di cui il generale è accusato ledono in modo grave i valori fondanti di tale comunità. Per questo motivo, un individuo colpito da mandato di arresto della CPI non deve essere restituito al proprio Paese, ma consegnato alla Corte.

Quanto allo “stato di necessità” previsto dal codice penale italiano, il Tribunale ha chiarito che può valere come scriminante solo se fondato su criteri oggettivi. Non basta cioè un criterio soggettivo legato allo stato d’animo o al personale convincimento dell’agente. Nel caso specifico, «nessuna delle paventate generiche ritorsioni si era estrinsecata in una minaccia concreta, dotata di una certa consistenza», e non era stato nemmeno valutato «in alcun modo» se esistessero soluzioni alternative al rilascio di Almasri.

L’uso del volo di Stato

La memoria difensiva ha infine contestato l’accusa di peculato rivolta al sottosegretario Mantovano e al ministro Piantedosi per l’utilizzo di un volo di Stato nel rimpatrio di Almasri. Il peculato prevede pene fino a dieci anni e sei mesi per il pubblico ufficiale che si appropria di denaro o beni pubblici. Secondo l’accusa, l’impiego di un volo di Stato per Almasri sarebbe stato illegittimo e privo di giustificazione. La difesa sostiene invece che l’uso di un volo di Stato in caso di espulsione di soggetti pericolosi rientri in una prassi legittima.

Il Tribunale dei ministri ha però ricordato che, salvo un’eccezione, i voli di Stato sono stati impiegati in passato per riportare in Italia persone in pericolo all’estero, latitanti o soggetti colpiti da mandati internazionali, dunque da consegnare alla giustizia. Il caso di Almasri era diverso: se mai, il volo avrebbe dovuto avere come destinazione L’Aia, sede della Corte penale internazionale, e non la Libia. Inoltre, ha sottolineato il Tribunale, i collegamenti aerei con la Libia erano regolarmente garantiti da diverse compagnie, tra cui Medsky e Ita Airways, con più frequenze settimanali.

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[1] Il principio della personalità della deposizione trova fondamento principalmente negli articoli 64, 503 e 210 del codice di procedura penale.

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