Il fact-checking definitivo della versione del governo sul caso Almasri

Nelle loro informative, il ministro della Giustizia Nordio e quello dell’Interno Piantedosi hanno commesso una serie di errori e imprecisioni, contraddicendo pure la presidente del Consiglio Meloni
ANSA/FABIO FRUSTACI
ANSA/FABIO FRUSTACI
Mercoledì 5 febbraio si sono tenute le informative al Parlamento del ministro della Giustizia Carlo Nordio e di quello dell’Interno Matteo Piantedosi sul caso del comandante libico Almasri. Le informative si sarebbero dovute tenere il 29 gennaio. In seguito però alla notizia dell’indagine a carico della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, di Nordio, di Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano, il governo ha deciso di rimandarle di una settimana. 

Almasri, lo ricordiamo, è il capo della polizia giudiziaria libica e responsabile della prigione di Mitiga, a Tripoli. Su di lui pende un mandato di cattura della Corte penale internazionale (CPI) per crimini di guerra e contro l’umanità. Tra il 19 e il 21 gennaio Almasri è stato prima fermato e poi scarcerato dalle autorità italiane, che dunque non hanno eseguito il mandato spiccato dalla CPI nei suoi confronti.

Nel corso della sua informativa, Nordio ha cercato più che altro di dimostrare che il suo ruolo nella vicenda non fosse quello di «un semplice passacarte», ossia un mero esecutore del mandato di arresto della CPI. In più il ministro della Giustizia ha tentato di dimostrare che lo stesso mandato d’arresto della CPI fosse viziato da una serie di errori, portando le autorità italiane a optare per il rilascio di Almasri. Il ministro dell’Interno Piantedosi ha invece ricostruito le tappe che hanno portato l’arresto del carceriere libico, giustificando la sua espulsione dall’Italia dopo il rilascio. 

Dal ruolo del ministro della Giustizia ai motivi dell’espulsione di Almasri, passando per il mandato d’arresto della CPI, Nordio e Piantedosi hanno commesso diversi errori e imprecisioni nelle loro informative. In più, in alcuni passaggi hanno contraddetto la versione data alcuni giorni prima da Meloni. Vediamo punto per punto quello che non torna delle loro affermazioni.

I poteri del ministro della Giustizia

Nella prima parte della sua informativa, Nordio ha affermato che il ministro della Giustizia non sarebbe un mero esecutore delle richieste della CPI o, come detto da lui, «un passacarte». 

Per dimostrare ciò, Nordio ha fatto riferimento all’articolo 2 della legge 237 del 2012, quella che detta le norme per l’adeguamento dell’ordinamento italiano a quello della CPI. In base a questo articolo, il ministro della Giustizia è il responsabile dei rapporti dell’Italia con la CPI e «ove ritenga che ne ricorra la necessità, concorda la propria azione con altri Ministri interessati, con altre istituzioni o con altri organi dello Stato».

Al contrario di quanto sostiene Nordio, questo non vuol dire però che il ministro della Giustizia possa sindacare sui mandati d’arresto della CPI. 

L’Italia è tra i fondatori della Corte penale internazionale. Con la sottoscrizione e la ratifica dello Statuto di Roma, ossia il trattato con cui è stata creata la CPI, il nostro Paese ha riconosciuto la sua giurisdizione, assumendo l’obbligo di cooperare «pienamente con la Corte nelle inchieste ed azioni giudiziarie che la stessa svolge per reati di sua competenza», come previsto dall’art. 86 dello Statuto stesso, quindi anche dando seguito ai suoi mandati di arresto. L’articolo 4 della legge 237 del 2012, uno degli altri articoli citati da Nordio, specifica che «il ministro della Giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale, trasmettendole al procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione». Dunque, il ministro è di fatto un esecutore delle richieste – e quindi dei mandati d’arresto – della CPI. 

Lo stesso concetto è ribadito (articolo 59) dalla legge 232 del 1999 di ratifica ed esecuzione dello Statuto di Roma, con cui è stata istituita la CPI. In base a questa legge, lo Stato che riceve una richiesta di fermo, di arresto e di consegna prende «immediatamente» provvedimenti per far arrestare il soggetto secondo la propria legislazione. Questo carattere di immediatezza dell’azione del ministro è prescritto sempre dall’articolo 2 della già citata legge 237 del 2012, secondo cui «il ministro della Giustizia, nel dare seguito alle richieste di cooperazione, assicura che l’esecuzione avvenga in tempi rapidi». E non potrebbe essere altrimenti. 

La Corte penale internazionale è un tribunale per crimini internazionali, con sede a L’Aia, nei Paesi Bassi, che ha il compito di perseguire le persone accusate dei crimini più gravi a livello internazionale, quali il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Come si legge sul sito ufficiale, la Corte penale internazionale non possiede una propria forza di polizia e per questo «si basa sulla cooperazione con i Paesi di tutto il mondo per ottenere sostegno, in particolare per effettuare arresti, trasferire gli arrestati al centro di detenzione della Corte penale a L’Aia, bloccare i beni degli indagati ed eseguire le sentenze». 

Tornando all’Italia, il ministro della Giustizia ha un potere di valutazione discrezionale solo riguardo alle richieste di estradizione. L’estradizione è il procedimento con cui uno Stato consegna un individuo presente sul suo territorio a un altro Stato che ne abbia fatto richiesta, per dare esecuzione a una pena detentiva o a un processo. L’articolo 697 del codice di procedura penale dispone, appunto, che «il ministro della Giustizia non dà corso alla domanda di estradizione quando questa può compromettere la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato». Ma questo non è il caso di Almasri: sul carceriere libico pende un mandato di arresto della CPI, con la quale l’Italia ha l’obbligo di cooperare, e non di un altro Stato. 

In ogni caso, in passato altri Stati aderenti alla CPI hanno disatteso i mandati d’arresto della Corte. A settembre 2024, per esempio, la Mongolia non ha eseguito il mandato d’arresto nei confronti del presidente russo Vladimir Putin disposto dalla CPI. Più indietro nel tempo, a giugno 2015, il Sudafrica si era rifiutato di catturare il presidente del Sudan, Omar Al Bashir, accusato del crimine di genocidio, violando così lo Statuto di Roma. Nel 2016 il Sudafrica annunciò di volersi ritirare dallo Statuto, ma nel 2017 revocò la notifica, restando così sottoposto alla giurisdizione della Corte. 

Il fatto che altri Stati abbiano disatteso i mandati d’arresto della CPI non giustifica l’Italia nel caso di Almasri. Anzi, in base all’articolo 87, se uno Stato che fa parte della CPI «non aderisce ad una richiesta di cooperazione della Corte, […] impedendole in tal modo di esercitare le sue funzioni ed i suoi poteri», la Corte può fare ricorso all’Assemblea degli Stati parti o al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

La presunta incertezza temporale

Tornando all’informativa, Nordio ha cercato di mettere in dubbio la validità dello stesso mandato d’arresto della CPI ad Almasri. 

In primo luogo, il ministro ha detto che «sin dalla prima lettura, sia pure in lingua inglese ed araba e nella necessaria ristrettezza dei tempi» aveva notato «una serie di criticità nella richiesta di arresto che avrebbero reso impossibile una immediata richiesta alla Corte d’appello». In particolare, Nordio ha sostenuto che dalla lettura del mandato, in particolare dei paragrafi numero 5 e 7, «emergeva un’incertezza assoluta sulla data dei delitti commessi, prospettandosi, da un lato, un inizio nel febbraio 2011, allorquando erano iniziati i moti violenti, e, dall’altro, il febbraio 2015, data cui faceva riferimento l’atto di accusa all’esame della stessa Corte penale». 

Il ministro ha aggiunto che, secondo lui, questa incertezza non era «una cosa di poco conto», dato che in quei quattro anni tra il 2011 e il 2015, «secondo quanto espresso dalla stessa Corte, sarebbero stati commessi numerosi atti di stupro, di violenza, di aggressione, di omicidio, eccetera».

Qui bisogna mettere un po’ di ordine, perché Nordio ha fatto confusione. Come si legge nel mandato d’arresto, il procuratore della CPI ha chiesto il mandato d’arresto contro Almasri il 2 ottobre 2024. La CPI lo ha poi emesso a tutti gli effetti il 18 gennaio 2025. Nel mandato d’arresto la CPI ha spiegato le motivazioni che l’hanno portata alla decisione. Nei paragrafi 5 e 7 del mandato la CPI scrive che, secondo la maggioranza dei giudici della Corte stessa, in Libia c’è stata una «continua situazione di crisi» a partire dal 2011, proseguita almeno fino al 2 ottobre 2024, giorno della richiesta di arresto per Almasri. In questo contesto, la CPI ha poi precisato che i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra nella prigione di Mitiga (quella guidata da Almasri) si sono verificati nello specifico a partire da febbraio 2015. Dunque, i paragrafi 5 e 7 citati da Nordio non fanno confusione a livello temporale sul periodo in cui Almasri avrebbe commesso i crimini per cui è accusato.

L’indagine nei confronti di Almasri fa parte di un’inchiesta più ampia condotta dalla Corte penale internazionale, a partire dal 15 febbraio 2011, in base a una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (risoluzione 1970) proprio sulla situazione in Libia. Secondo l’articolo 13 dello Statuto di Roma, infatti, i procedimenti davanti alla CPI possono iniziare in seguito a una segnalazione di uno Stato che ne fa parte, in seguito all’iniziativa autonoma del procuratore oppure del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

La correzione del mandato d’arresto

Nel tentativo di delegittimare la richiesta della CPI, Nordio ha aggiunto che il mandato di arresto sarebbe viziato da alcune correzioni che la Corte ha apportato al mandato stesso sei giorni dopo la sua emissione, ossia il 24 gennaio. Effettivamente il 24 gennaio la CPI si è riunita per «correggere alcuni caratteri tipografici e errori di scrittura», e per aggiungere il parere dissidente (dissenting opinion) della giudice messicana María del Socorro Flores Liera, che non era stato allegato al mandato di arresto iniziale.

Come si legge nell’allegato aggiunto dalla Corte al mandato, Liera si era espressa contro il mandato di arresto per Almasri perché, a suo parere, i crimini compiuti dal comandante libico non potevano essere considerati collegati ai fatti che hanno spinto le Nazioni Unite ad aprire un’inchiesta presso la CPI. Il fatto che Liera abbia espresso «perplessità», come ha detto Nordio nella sua informativa, non basta però per mettere in discussione la legittimità del mandato d’arresto della CPI. Lo statuto della CPI prevede espressamente che i giudici che stabiliscono i mandati d’arresto siano tre, e la decisione viene presa a maggioranza. Nel caso specifico di Almasri, due giudici hanno votato a favore del mandato d’arresto, mentre la terza, Liera, ha votato contro. Il mandato d’arresto è stato quindi accordato, in linea con quanto previsto dallo statuto della Corte.

Tornando alle correzioni, Nordio ha affermato che il 24 gennaio la CPI si è riunita tra le altre cose per cambiare la data di inizio dei crimini commessi da Almasri. Il ministro ha fatto notare nello specifico che nella prima versione del mandato d’arresto, nella parte conclusiva, la CPI aveva scritto che Almasri ha commesso i suoi crimini a partire dal «15 febbraio 2011», e non dal «15 febbraio 2015», e ciò confliggerebbe con l’assunto iniziale della Corte. Secondo Nordio, questo rappresenta «il vizio genetico dell’ordinanza del 18 gennaio». 

Fermo restando che, come spiegato in precedenza, il ministro della Giustizia non ha un potere di valutare nel merito i mandati di arresto della CPI, il fatto che la Corte abbia scritto «15 febbraio 2011» anziché «15 febbraio 2015» nella parte conclusiva non è la dimostrazione che sia qualcosa di più di un mero errore tipografico. Come anticipato, infatti, il 15 febbraio del 2011 è la data da cui prende avvio l’indagine della CPI in base alla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. 

Il 15 febbraio 2015 è invece la data a partire da cui la Corte ha registrato l’inizio dei crimini nella prigione di Mitiga, di cui Almasri è accusato. Tra l’altro, nella sua informativa Nordio sembra alludere al fatto che la correzione del mandato d’arresto sia qualcosa di insolito e bizzarro. In realtà, come dimostra il sito ufficiale della stessa CPI, è successo in altri casi che la Corte abbia pubblicato versioni corrette delle proprie decisioni o, in generale, dei suoi atti.

Problemi di logica e contraddizioni

Al di là dell’errore sulla data, secondo alcuni osservatori l’argomentazione di Nordio presenterebbe un problema logico visto che, al netto delle incertezze tra il 2011 e il 2015, le accuse su Almasri anche solo per i crimini commessi tra il 2015 e il 2024 dovrebbero essere sufficienti a giustificarne l’arresto e il successivo processo. Tra l’altro, come detto all’inizio, i primi paragrafi del mandato d’arresto certificano come la CPI sia certa del periodo in cui Almasri ha commesso i crimini, ossia a partire da febbraio 2015.

In più, nella sua informativa Nordio ha affermato di essersi reso conto della discordia tra le date non appena ricevuto l’atto – «fin dalla prima lettura, peraltro in lingua inglese» – quindi appena dopo averlo avuto e prima della traduzione da parte degli interpreti. Se così è, non si comprende però perché il ministro non abbia fatto notare subito alla CPI i problemi dell’atto.

Secondo l’articolo 97 della Statuto della Corte, «quando uno Stato parte, investito di una richiesta (…), constata che la stessa solleva difficoltà che potrebbero intralciarne o impedirne l’esecuzione, esso consulta senza indugio la Corte per risolvere il problema». Peraltro, questo era stato ribadito dalla CPI in un comunicato del 22 gennaio. In quel comunicato, si legge infatti che la CPI aveva ricordato «alle autorità italiane che nel caso in cui avessero trovato qualsiasi problema che avesse potuto impedire o compromettere l’esecuzione della richiesta, avrebbero dovuto consultare la Corte senza indugio per risolvere la questione».

Nella sua informativa, Nordio ha quindi sostanzialmente affermato di avere notato sin da subito i presunti problemi del mandato d’arresto, ma questo contraddice quello che ha affermato la presidente del Consiglio Meloni il 28 gennaio, nel video in cui ha dato l’annuncio sui social dell’indagine a suo carico. In quell’occasione Meloni ha detto che la decisione di scarcerare Almasri è stata presa dalla Corte d’appello, «non su disposizione del governo», e che la richiesta di arresto da parte della Corte penale internazionale «non è stata trasmessa al Ministero italiano della Giustizia».

Ripercorrendo i fatti, Nordio ha invece affermato che «una notizia informale dell’arresto veniva trasmessa via e-mail da un funzionario dell’Interpol a un dirigente del Dipartimento degli affari di giustizia» del Ministero della Giustizia alle ore 12:37 di domenica 19 gennaio 2025; che il ministro è stato informato ufficialmente dal procuratore generale di Roma il 20 gennaio alle 12:40; e che «alle ore 13:57 l’ambasciatore dell’Aja trasmetteva al Servizio affari internazionali del Ministero e al Dipartimento per gli affari di giustizia la richiesta di arresto provvisorio del 18 gennaio 2025». Dunque, sebbene due giorni dopo l’arresto di Almasri, Nordio era stato a tutti gli effetti informato del caso e avrebbe potuto intervenire, dando seguito al mandato d’arresto. Questo però non è avvenuto: nell’ordinanza del 21 gennaio con cui la Corte d’appello di Roma ha disposto la scarcerazione per Almasri, si legge che «il ministro interessato», ossia Nordio, «non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito».

L’espulsione di Almasri

Passiamo ora all’informativa del ministro dell’Interno Piantedosi. Quest’ultimo ha innanzitutto ripercorso, attraverso le notizie arrivate al suo ministero, il tragitto compiuto da Almasri prima di arrivare in Italia. A seguire, ha poi cercato di giustificare il motivo per cui il comandante libico è stato espulso dal nostro Paese dopo il suo rilascio dovuto alla mancata esecuzione del mandato d’arresto. 

Al di là dei tempi e del modo in cui è arrivato in Italia, Piantedosi ha detto che, dopo il rilascio, Almasri è stato espulso a causa del «profilo di pericolosità che presentava» per la «sicurezza dello Stato e della tutela dell’ordine pubblico». «Dopo la mancata convalida dell’arresto, mi è apparso chiaro che si prospettava la possibilità che Almasri permanesse a piede libero sul territorio nazionale per un periodo indeterminato, che ritenevo non compatibile con il suo profilo di pericolosità sociale, come emergeva dal mandato di arresto e dalle risultanze di intelligence e forze di Polizia», ha aggiunto il ministro. A sostegno delle sue argomentazioni, Piantedosi ha detto di aver eseguito l’espulsione in base a quanto previsto dall’articolo 13 del Testo unico in materia di immigrazione. 

Qui vanno fatte una serie di precisazioni. Il Testo unico in materia di immigrazione è il testo che stabilisce le regole per la permanenza degli stranieri in Italia. L’articolo 13 di questa norma prevede effettivamente che «per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, il ministro dell’Interno può disporre l’espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato, dandone preventiva notizia al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro degli Affari esteri». Dunque, da questo punto di vista Piantedosi ha ragione.

Il problema è che, come abbiamo spiegato in un altro fact-checking, Almasri è considerato un pericolo non solo per la sicurezza nazionale italiana, ma per la sicurezza a livello internazionale. I crimini di cui è accusato Almasri ledono gravemente i valori su cui si fonda la comunità internazionale e gli Stati che hanno aderito alla CPI devono collaborare con la Corte stessa per assicurare i sospettati alla sua giurisdizione. Gli individui ritenuti pericolosi perché imputati di gravi reati internazionali, colpiti da mandato di arresto della CPI, non devono dunque essere riportati in patria, a differenza di ciò che sembra suggerire Piantedosi, e diversamente da quanto si fa per i casi al di fuori della giurisdizione della CPI per i soggetti che possano costituire un pericolo alla sicurezza dello Stato.

Tra l’altro, le affermazioni di Piantedosi sembrano contraddire il senso dell’informativa fatta da Nordio. Il ministro dell’Interno ha motivato l’espulsione di Almasri facendo riferimento al «profilo di pericolosità sociale, come emergeva dal mandato di arresto» della CPI. Come visto in precedenza, invece, secondo Nordio doveva essere considerato «radicalmente nullo» perché la CPI ha corretto alcuni errori tipografici. Quest’ultimi, lo ricordiamo, non bastano per rendere nullo il mandato d’arresto della Corte penale. Anche perché, come abbiamo spiegato in precedenza, il ministro della Giustizia non ha il potere di sindacare sulla validità degli atti della Corte. Semmai, ha solo la possibilità di chiedere chiarimenti alla CPI per far sì che il mandato d’arresto sia comunque eseguito.

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