Gli errori di Giorgia Meloni sulla scarcerazione di Almasri

Nel video dove ha annunciato di essere indagata, la presidente del Consiglio ha difeso le scelte del governo, ma ha detto diverse cose sbagliate e commesso imprecisioni sia nei fatti sia dal punto di vista giuridico
Pagella Politica
 

Il 28 gennaio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato un video sui social network in cui ha annunciato di essere indagata dalla Procura di Roma «per i reati di favoreggiamento e peculato» per il rilascio del carceriere libico Njeem Osama Almasri Habish, meglio conosciuto come Almasri. Nel video la presidente del Consiglio ha commesso una serie di errori sul caso del carceriere libico rilasciato in pochi giorni dall’Italia. Come vedremo, alcune di queste affermazioni, Meloni le aveva fatte pure lo scorso 25 gennaio, durante un punto stampa a Gedda, in Arabia Saudita, nel corso di una visita istituzionale nel Paese mediorientale. 

In primo luogo, non è vero che quello che ha ricevuto è un avviso di garanzia. Non è poi vero che quanto fatto dai magistrati sia dipeso da una loro scelta: si tratta di un atto dovuto in seguito alla denuncia presentata dall’avvocato Luigi Li Gotti nei confronti proprio di Meloni, del ministro della Giustizia Carlo Nordio, di quello dell’Interno Matteo Piantedosi, e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Se non avessero inviato questa comunicazione i giudici avrebbero violato la legge. Tra le altre cose, è poi fuorviante la ricostruzione di Meloni della vicenda giudiziaria di Almasri in Italia, che sembra togliere ogni responsabilità a Nordio, scaricando sulla magistratura tutte le colpe.

Un atto dovuto

Prima di entrare nel merito della vicenda, occorre fare alcune precisazioni per distinguere il piano dell’inchiesta giudiziaria che vede coinvolta Meloni da quello più strettamente politico, e per questo in seguito analizzeremo nel dettaglio la ricostruzione del caso di Almasri fatta dalla presidente del Consiglio. 

Nel video pubblicato sui social Meloni ha attaccato il procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi, che le ha dato comunicazione dell’indagine a suo carico. Meloni ha parlato di Lo Voi come lo stesso magistrato «del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona». In più, Meloni ha criticato l’avvocato che ha sporto denuncia contro di lei e gli altri ministri. Si tratta di Luigi Li Gotti, definito dalla presidente del Consiglio «ex politico di sinistra molto vicino a Romano Prodi conosciuto per avere difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi». 

Effettivamente, in passato Lo Voi è stato procuratore capo di Palermo e, in quel ruolo, ha seguito il caso “Open Arms”. Quest’ultimo è il caso che vede imputato il segretario della Lega Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona e di omissione di atti d’ufficio per fatti avvenuti ad agosto del 2019. All’epoca era in carica il primo governo Conte, supportato da Movimento 5 Stelle e Lega, e l’allora ministro dell’Interno Salvini impedì per giorni lo sbarco in Italia dei migranti salvati dalla nave Ong Open Arms. Lo scorso 20 dicembre Salvini è stato assolto con sentenza di primo grado dalle accuse nel caso Open Arms. Li Gotti è invece un avvocato con alcuni trascorsi in politica. Dal 2008 al 2013 è stato infatti senatore per l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e in quella legislatura ha ricoperto dal 2006 al 2008 il ruolo di sottosegretario alla Giustizia del secondo governo guidato da Romano Prodi. Prima ancora, però, Li Gotti è stato per anni un esponente del Movimento Sociale Italiano e poi di Alleanza Nazionale, da cui Fratelli d’Italia ha preso origine. Questa storica appartenenza alla destra italiana è stata rivendicata dallo stesso avvocato in un’intervista con la Repubblica il 28 gennaio, ma Meloni non ne ha fatto cenno sui social, parlando di Li Gotti solo come «ex politico di sinistra» e «molto vicino a Romano Prodi». Nella sua carriera da avvocato Li Gotti ha difeso alcuni tra i principali pentiti di mafia, come Tommaso Buscetta, Giovanni Brusca e Gaspare Mutolo.

Al di là delle considerazioni personali fatte da Meloni, su cui non entriamo, il 24 gennaio scorso Li Gotti ha presentato denuncia per la scarcerazione di Almasri contro la presidente del Consiglio e i suoi tre colleghi. Almasri è il capo della polizia giudiziaria libica ed è accusato dalla Corte penale internazionale (CPI) di vari reati, tra cui crimini di guerra. Tra il 19 e il 21 gennaio Almasri è stato arrestato e scarcerato in poche ore dalle autorità italiane, per poi essere espulso dal nostro Paese e riportato in Libia. Secondo l’avvocato, Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovano avrebbero commesso il reato di favoreggiamento perché avrebbero aiutato Almasri a «eludere le investigazioni dell’autorità, comprese quelle svolte da organi della Corte penale internazionale, o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti». In più, avrebbero commesso il reato di peculato nell’utilizzare «un aereo di Stato italiano per riportare il comandante libico nel suo Paese». A seguito della denuncia di Li Gotti, la procura della Repubblica di Roma ha inviato nei confronti di Meloni e dei suoi colleghi una comunicazione di iscrizione nel registro degli indagati, e non un avviso di garanzia come ha impropriamente detto la presidente del Consiglio.

La comunicazione di iscrizione nel registro degli indagati, invece, è un’informativa che viene mandata come atto dovuto ai soggetti interessati da una notizia di reato, come nel caso di Meloni e degli altri ministri. L’articolo 335 del codice di procedura penale precisa che «il pubblico ministero iscrive immediatamente, nell’apposito registro custodito presso l’ufficio, ogni notizia di reato (…) contenente la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice». Il connotato della “determinatezza” richiede che si tratti di fatti non generici; quello della “non inverosimiglianza” porta, invece, ad escludere dall’iscrizione «i fatti fantasiosi, irrealistici, incredibili, assurdi, inconcepibili e, già all’evidenza, indimostrabili». Pertanto, la valutazione del magistrato è ridotta al minimo. Anche perché, secondo quanto previsto dalla legge costituzionale del 1989, che stabilisce le regole sui procedimenti giudiziari nei confronti degli esponenti del governo, il procuratore della Repubblica non deve svolgere alcuna indagine («omessa ogni indagine», dice la legge). Egli, dopo avere ricevuto la denuncia nei confronti di un ministro, deve inviare entro quindici giorni gli atti al cosiddetto “tribunale dei ministri” e comunicare la notizia anche al diretto interessato, ossia l’esponente del governo coinvolto nel caso. Perciò si suole parlare di “atto dovuto”. Il tribunale dei ministri è una sezione specializzata del tribunale ordinario competente per i reati commessi dal presidente del Consiglio e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni.

Le valutazioni sulle accuse mosse a Meloni e agli altri esponenti di governo spetteranno quindi a tale collegio di giudici. In base alla legge, entro 90 giorni da quanto ha ricevuto gli atti, il tribunale dei ministri potrà decidere di archiviare le accuse oppure chiedere al Parlamento l’autorizzazione a procedere nei confronti della presidente del Consiglio e dei suoi colleghi. Secondo l’articolo 96 della Costituzione, i membri del governo possono essere infatti sottoposti a un procedimento giudiziario solo se viene data autorizzazione dalla Camera o dal Senato. In questo caso, per Meloni e Nordio l’autorizzazione a procedere dovrà eventualmente essere data dalla Camera, essendo loro due deputati, mentre per Piantedosi e Mantovano, che non sono parlamentari, spetterà al Senato.

Le responsabilità della Corte d’appello di Roma

Veniamo dunque alla ricostruzione fatta da Meloni sul caso di Almasri. Sia nel video pubblicato ieri sui social sia nel punto stampa a Gedda, la presidente del Consiglio ha sostanzialmente fatto intendere che la responsabilità del rilascio di Almasri sarebbe solo dei giudici, e non del governo. «Almasri è stato liberato su disposizione della Corte d’appello di Roma, non su disposizione del governo. Non è una scelta del governo», ha detto Meloni a Gedda. Nel video sui social, Meloni ha aggiunto (min. 1:15) che la Corte d’appello ha disposto la scarcerazione del carceriere libico perché la richiesta di arresto da parte della Corte penale internazionale «non è stata trasmessa al Ministero italiano della Giustizia». 

L’affermazione della presidente del Consiglio fa parecchia confusione, oltre a non sembrare corretta. Il mandato di arresto contro Almasri è stato emesso dalla CPI lo scorso 18 gennaio e il comandante libico è stato arrestato dalla Digos il 19 gennaio mentre si trovava in Italia, più precisamente a Torino. La Corte penale internazionale, lo ricordiamo, è un tribunale per crimini internazionali che ha sede a L’Aia, nei Paesi Bassi, e ha il compito di perseguire le persone accusate dei crimini più gravi a livello internazionale, come il genocidio e i crimini di guerra.

Come si legge nell’ordinanza di scarcerazione pubblicata il 21 gennaio, la Digos ha comunicato l’arresto alla Corte di appello di Roma, che in base alla legge è l’unico tribunale competente per quanto riguarda le richieste della CPI. La Corte d’appello, sentito il procuratore generale, ha ritenuto però che l’arresto fosse «irrituale». Secondo la Corte d’appello, infatti, la polizia giudiziaria italiana ha seguito la procedura prevista dall’articolo 716 del codice di procedura penale, relativa ai procedimenti di estradizione, e non quella prevista dalla legge 237 del 2012 (che dettano le norme per l’adeguamento dell’ordinamento italiano a quello della CPI). In base all’articolo 11 di questa legge, spetta al ministro della Giustizia il compito di trasmettere gli atti ricevuti dalla CPI al procuratore generale, che a sua volta chiede alla Corte d’appello l’emissione della misura cautelare nei confronti del sospettato.

Tutto questo sembra avvalorare la versione di Meloni, ossia che il governo non abbia responsabilità nel caso, essendo stata la scarcerazione effettivamente disposta da un atto dei giudici per irritualità dell’arresto di Almasri. In realtà le cose non stanno così: l’esito della vicenda sarebbe stato diverso se Nordio fosse tempestivamente intervenuto, come era obbligato a fare ai sensi di legge. Il Ministero della Giustizia italiano, come si legge nella stessa ordinanza era stato informato della richiesta di arresto da parte della CPI. L’ordinanza di scarcerazione della Corte d’appello di Roma, infatti, riporta la circostanza che Nordio era stato avvisato dell’arresto dalla DIGOS di Torino il 19 gennaio e aveva ricevuto un’informativa anche dal Procuratore Generale «immediatamente dopo aver ricevuto gli atti dalla Questura di Torino», il 20 gennaio, ossia il giorno dopo l’arresto di Almasri. In più, in un comunicato pubblicato il 22 gennaio, la CPI ha fatto sapere che la richiesta di arresto era stata subito inviata ai «canali designati» di sei Stati, tra cui l’Italia, ed è stata preceduta da «una consultazione e da un coordinamento preventiva con ciascun Stato per garantire la corretta ricezione e l’attuazione successiva della richiesta della Corte». Dunque, non è vero, come sostiene Meloni che la richiesta di arresto non è stata trasmessa dalla CPI al Ministero della Giustizia. Anzi, il Ministero della Giustizia non poteva non essere a conoscenza della richiesta di arresto della CPI e, pertanto, doveva dare seguito al mandato della corte stessa senza esitazione.

La legge 232 del 1999 di ratifica ed esecuzione dello Statuto di Roma, con cui è stata istituita la CPI, stabilisce (art. 59) infatti che lo Stato che riceve una richiesta di fermo, di arresto e di consegna prende «immediatamente» provvedimenti per far arrestare il soggetto secondo la propria legislazione. Questo carattere di immediatezza dell’azione del ministro è prescritto pure dalla già citata legge 237 del 2012, secondo cui «il ministro della Giustizia, nel dare seguito alle richieste di cooperazione, assicura che l’esecuzione avvenga in tempi rapidi». Sebbene la legge non preveda una discrezionalità della scelta in questo caso, il 21 gennaio il Ministero della Giustizia ha pubblicato un comunicato stampa in cui si diceva che Nordio stava ancora valutando «la trasmissione formale della richiesta della CPI al procuratore generale di Roma».

Nel frattempo, però, sempre il 21 gennaio la Corte d’appello di Roma ha disposto la scarcerazione per Almasri, perché «il ministro interessato», si legge nell’ordinanza dei giudici, «non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito», ossia non ha dato seguito alla richiesta della CPI. In sostanza, sebbene l’arresto fosse stato «irrituale», Nordio avrebbe potuto (e dovuto) trasmettere gli atti ricevuti dalla CPI al procuratore generale di Roma, affinché quest’ultimo chiedesse alla Corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare per Almasri. 

Non è chiaro perché il Ministero della Giustizia non abbia dato seguito alla richiesta della CPI. Il 22 gennaio la Corte penale internazionale ha fatto sapere che «sta cercando, e deve ancora ottenere, la verifica delle autorità sulle misure che sarebbero state adottate» sul caso del carceriere libico. Nordio sarebbe dovuto intervenire sul caso di Almasri in un’informativa alla Camera il 29 gennaio, insieme al ministro Piantedosi, ma secondo fonti stampa l’appuntamento sarà rimandato con tutta probabilità a un altro giorno.

L’espulsione e il volo di stato

Sia a Gedda sia nel video pubblicato sui social network, Meloni ha difeso l’operato del governo dicendo che, una volta scarcerato, Almasri è stato comunque espulso dall’Italia perché considerato soggetto pericoloso per la sicurezza nazionale. «Quello che il Governo sceglie di fare, invece, di fronte a un soggetto pericoloso per la nostra sicurezza è espellerlo immediatamente dal territorio nazionale», aveva detto Meloni in Arabia Saudita, ripetendo (min. 1:25) poi lo stesso concetto nel video in cui ha dato la notizia dell’indagine a suo carico.

Su questo punto la presidente del Consiglio confonde però il piano nazionale con quello internazionale. Almasri è considerato un pericolo non solo per la sicurezza nazionale italiana, ma per la sicurezza a livello internazionale. Come si legge nel comunicato pubblicato dalla CPI, la situazione in Libia era stata portata all’attenzione della Corte penale internazionale dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite già il 26 febbraio del 2011, con la risoluzione 1970. Poche settimane dopo, il 3 marzo 2011 il procuratore ha annunciato la decisione di aprire un’indagine sulla situazione in Libia. Uno specifico filone di indagine della CPI è relativo per l’appunto ai gravi crimini commessi contro i migranti e rifugiati nei centri di detenzione libici, tra cui quello di Mitiga. 

Come detto, Almasri è accusato di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e altri crimini internazionali, insieme ad altre sette persone, come risulta anche dal citato comunicato della CPI del 22 gennaio. I crimini di cui è accusato Almasri ledono gravemente i valori su cui si fonda la comunità internazionale e gli Stati che hanno aderito alla CPI devono collaborare con la corte stessa per assicurare i sospettati alla sua giurisdizione. Gli individui ritenuti pericolosi perché imputati di gravi reati internazionali, colpiti da mandato di arresto della CPI, non devono dunque essere riportati in patria, a differenza di ciò che sembra suggerire Meloni, e diversamente da quanto si fa per i casi al di fuori della giurisdizione della CPI per i soggetti che possano costituire un pericolo alla sicurezza dello Stato.

In ogni caso è vero, come ha detto Meloni, che Almasri non è il primo soggetto pericoloso rimpatriato con un volo di Stato. In passato, ci sono stati almeno altri tre casi del genere, uno nel 2019, un altro nel 2024 e un altro ancora più recente nei primi giorni di quest’anno.

Un «trafficante di uomini»?

In Arabia Saudita, alla domanda di un giornalista, Meloni ha precisato che quando parliamo di Almasri non stiamo comunque parlando di «un trafficante di uomini». 

Questa versione è stata però messa in dubbio dai rapporti del Gruppo di esperti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, istituito con la risoluzione 1973 del 2011 con riguardo alla situazione della Libia, e da alcune fonti stampa. Per esempio, nel rapporto del Gruppo di esperti pubblicato nel 2022, si legge che nel suo ruolo di responsabile di capo della polizia giudiziaria, Almasri avrebbe «illegalmente trasferito detenuti da luoghi di detenzione ufficiosi e ufficiali a Tripoli al centro di Mitiga, con lo scopo di usarli per il lavoro forzato e la schiavitù». Il 27 gennaio, ospite di Omnibus, su La7, il giornalista di Avvenire Nello Scavo – autore di diverse inchieste in merito alla situazione dei migranti in Libia e che per primo ha dato la notizia dell’arresto di Almasri in Italia – ha aggiunto che Almasri sarebbe «un ingranaggio essenziale di quella che è la macchina del traffico di esseri umani». 

Secondo Scavo, dopo il recupero in mare da parte delle motovedette della Guardia Costiera libica, molti migranti «vengono portati nelle prigioni gestite da Almasri, il quale attiva un meccanismo di tortura, abusi, schiavitù e molto altro, che serve poi a costringere queste persone a pagare oppure a farsi schiavizzare», così da «poter uscire dalle prigioni, tentare ancora una volta la fuga via mare e poi rientrare molto spesso in questo circuito». Sulle responsabilità penali di Almasri l’ultima parola spetta comunque ai giudici della stessa Corte penale internazionale, qualora il cittadino libico sia effettivamente arrestato.

Le responsabilità della CPI

Al di là del ruolo di Almasri, sia in Arabia Saudita sia nel suo video sui social network, Meloni ha sollevato alcune perplessità circa il mandato di arresto della CPI, sostenendo sostanzialmente che la corte si sia mossa troppo tardi e in modo quasi intenzionale. «Credo che anche la Corte penale internazionale debba chiarire perché la sua procura ci abbia messo mesi a spiccare questo mandato d’arresto, e il mandato di arresto sia stato spiccato quando Almasri aveva attraversato almeno tre nazioni europee e lasciava la Germania per entrare in Italia», ha detto per esempio la presidente del Consiglio a Gedda. «Curiosamente, la Corte lo fa (il mandato d’arresto, ndr), quando questa persona stava per entrare nel territorio italiano dopo che aveva serenamente soggiornato per circa dodici giorni in altri tre Stati europei», ha aggiunto (min. 0:59) Meloni nel video pubblicato sui social.

Effettivamente, secondo quanto ricostruito da alcune fonti stampa, Almasri sarebbe arrivato in Europa dalla Libia il 6 gennaio scorso e, prima di arrivare in Italia il 18 gennaio, avrebbe attraversato tre Stati europei: Regno Unito, Belgio e Germania. Nel comunicato stampa del 22 gennaio scorso, si legge che il procuratore della CPI aveva chiesto l’arresto di Almasri già il 2 ottobre 2024. In base all’articolo 58 dello Statuto di Roma, però, ogni richiesta del procuratore per quanto riguarda i mandati di arresto deve essere convalidata dalla Camera preliminare della CPI (Pre-Trial Chamber) e solo a quel punto viene emesso eventualmente un mandato di arresto. In altre parole, un mandato di arresto chiesto dal procuratore della CPI non scatta in automatico, ma è possibile che serva del tempo prima del via libera effettivo.

Non è dunque inusuale che trascorra del tempo tra la richiesta del Procuratore e le determinazioni della Corte. Sempre secondo Scavo, la Corte ha deciso di procedere d’urgenza a gennaio perché avrebbe «appreso da fonti di intelligence che questo personaggio si stava muovendo» per l’Europa, emettendo il mandato d’arresto in sei Stati aderenti alla CPI, inclusa l’Italia.

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