Ormai da tempo una parte della politica italiana ha iniziato una disputa con la Croazia, in seguito alla richiesta di quest’ultima all’Unione europea di tutelare il nome tradizionale “Prošek” per quattro suoi vini a denominazione d’origine protetta.

Già il 22 settembre, giorno della richiesta croata all’Ue, il ministro delle Politiche Agricole Stefano Patuanelli ha espresso la sua «netta contrarietà alla proposta», data la chiara assonanza del nome Prošek con il Prosecco italiano, che potrebbe confondere i consumatori. Dello stesso avviso anche il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che il 17 ottobre si è espresso sul “nodo Prošek” affermando che il dossier croato deve essere «cestinato dall’Europa».

Prošek è il nome con cui sono conosciuti alcuni vini dolci prodotti nel sud della Dalmazia, ed era anche il nome con cui erano commercializzati prima che la Croazia entrasse a far parte dell’Ue il 1° luglio 2013. Data l’assenza di specifiche richieste Zagabria era però stata costretta dalla Commissione ad abbandonare la dicitura, perché troppo simile al Prosecco italiano.

Ma davvero il Prošek croato è così simile al nostro Prosecco?

La pratica scorretta dell’italian sounding

Il settore agroalimentare è una delle eccellenze italiane, con esportazioni in crescita e un mercato che continua a espandersi nonostante la crisi economica dovuta alla pandemia.

Il successo dei prodotti italiani all’estero ha dato vita al fenomeno del cosiddetto italian sounding, ossia la messa in commercio di prodotti che richiamano in qualche modo l’Italia ma che in realtà non sono in alcun modo collegati al nostro Paese, né per tradizione né per filiera produttiva. Secondo alcuni politici, quello dell’italian sounding sarebbe un business da decine di miliardi di euro l’anno, ma come abbiamo verificato in passato non esistono stime precise per quantificare questo fenomeno.

Il 18 ottobre al salone del vino Vinitaly di Verona Coldiretti ha esposto una bottiglia di Prošek insieme a quelle di altri prodotti di produzione straniera che erano chiari casi di italian sounding, come il Kressecco, il Semisecco, il Consecco e il Perisecco prodotti in Germania. Il caso del vino Prošek, per gli alfieri del made in Italy, sarebbe quindi da ascrivere a questo fenomeno di concorrenza sleale, quando non vera e propria contraffazione: ma che cos’è di preciso il Prošek e qual è la richiesta della Croazia all’Ue?

Prošek, il passito a cui l’Italia fa la guerra

Il 22 settembre sulla Gazzetta ufficiale dell’Ue è stata pubblicata, a firma del ministro dell’Agricoltura croato Tihomir Jakovina, una “domanda di protezione” della menzione tradizionale “Prošek” di quattro vini a denominazione d’origine protetta prodotti in Dalmazia.

Il Prošek, è bene chiarirlo subito, è un vino che con il Prosecco ha poco in comune a parte il nome: è infatti un vino passito (ottenuto quindi da uve sottoposte a procedimenti di disidratazione) dolce che, come il passito di Pantelleria o il vin santo toscano viene di solito consumato a fine pasto in accompagnamento al dessert. Niente a che vedere con il vino italiano più venduto al mondo, conosciuto per le caratteristiche bollicine (di cui il Prošek è sprovvisto) e consumato sia come aperitivo che durante tutto il pasto.

Come affermato il 26 settembre dal direttore del dipartimento croato per la politica agricola Jakša Petric in un’intervista al Corriere della sera, il Prošek «ha una lunga storia e secondo alcune fonti veniva prodotto localmente già nel diciottesimo secolo».

Nel 2013, quando la Croazia entrò a far parte dell’Unione europea, dovette abbandonare la dicitura Prošek perché in conflitto con il Prosecco italiano: le autorità croate infatti non presentarono nessuna richiesta ufficiale alla Commissione per tutelare i loro prodotti tipici, e dovettero cedere alle pressioni dell’Italia. Ad oggi i vini Prošek sono commercializzati con il generico nome della regione di provenienza, come “Dalmatinska zagora” e “Sjeverna Dalmacija”.

Una domanda di protezione è una procedura stabilita dal regolamento della Commissione europea nel settore vitivinicolo, che tutela il commercio dei prodotti locali e ne vincola il nome al luogo di provenienza geografica e a determinati processi produttivi, senza i quali la denominazione non può essere utilizzata. Secondo il regolamento della Commissione (art.22) però, uno Stato membro può presentare opposizione a una domanda di protezione entro i due mesi dalla pubblicazione in Gazzetta. Lo stesso 22 settembre infatti, il ministro Patuanelli ha riferito al Senato la sua contrarietà alla domanda croata, dal momento che a suo parere la traduzione della menzione corrisponderebbe al Prosecco italiano e quindi «l’eventuale autorizzazione all’uso del Prošek croato creerebbe un pericoloso precedente di istituzionalizzazione dell’italian sounding».

Negli ultimi giorni sono stati dello stesso avviso anche i consorzi di tutela del Prosecco italiano, che hanno comunicato l’intenzione di procedere per vie legali, e il presidente della Regione Veneto Zaia, secondo cui «il Prošek è una immonda vergogna». Zaia, nel suo discorso a margine dell’inaugurazione del Vinitaly a Verona il 17 ottobre, ha inoltre affermato di avere «la “pistola fumante”», potendo dimostrare che «non è proprio vero che Prošek è un termine dei croati e che questo dossier deve essere cestinato dall’Europa».

Al netto delle difficoltà nello stabilire la paternità del nome – per alcuni di Prosecco parla già Plinio il vecchio in epoca romana, per altri si tratta di un caso di “invenzione della tradizione” – c’è davvero poco in comune tra il prodotto croato che Petric ha dichiarato al Corriere avere una produzione di 20 ettolitri l’anno (meno di tremila bottiglie, ndr) e il colosso italiano che secondo Zaia arriverà nel 2021 a 700 milioni di bottiglie.

Le altre dispute “enologiche” tra gli Stati

Controversie di questo genere non sono così rare: i prodotti tipici di una regione ma con un commercio globale e duraturo tendono infatti a influenzare la produzione dei luoghi in cui vengono importati, che finiscono con il produrne una versione locale ma dalla denominazione impropria.

Un caso simile è avvenuto a luglio tra Francia e Russia. Il presidente russo Vladimir Putin ha infatti firmato una legge che permette di utilizzare il nome “shampanskoye” soltanto per indicare i vini spumanti prodotti in patria, mentre l’eccellenza francese verrà commercializzata come generico “vino frizzante”. In reazione alla legge, i produttori francesi hanno decretato un periodo di stop alle esportazioni in Russia terminato meno di un mese fa.

Sempre in Italia, un precedente è invece quello del Tocai, il vino friulano accusato dall’Ungheria di essere troppo simile al loro prestigioso (e prezioso, dal momento che è citato anche nell’inno nazionale) Tokaj. Anche qui, come nella faida Prošek-Prosecco, l’assonanza si limitava al nome: il Tocai è un vino bianco fermo ottenuto con la medesima uva e non ha niente a che fare con il Tokaj, che è un vino liquoroso dolce ottenuto dall’unione di più vitigni. Non fu dello stesso avviso la Corte di giustizia europea, che con una sentenza del 2005 obbligò i produttori friulani a cambiare nome del prodotto, che oggi è un generico “Friulano”.

In conclusione

Il 22 settembre la Croazia ha fatto alla Commissione europea domanda per il riconoscimento della denominazione Prošek per quattro vini prodotti nel sud della Dalmazia.

Questa denominazione ha però allertato i consorzi dei produttori di Prosecco italiano, secondo i quali il Prošek rientrerebbe nei fenomeni di italian sounding. Dello stesso avviso anche il ministro delle Politiche agricole Patuanelli e il governatore del Veneto Zaia, che hanno annunciato di volersi opporre alla richiesta croata.

Oltre alla chiara assonanza tra i nomi, dei quali peraltro è difficile stabilire l’origine più antica, Prošek e Prosecco si somigliano poco: sono entrambi dei vini, ma quello croato è un vino fermo, ambrato e da dessert, mentre il Prosecco è un vino bianco frizzante che può essere consumato a tutto pasto. Non sono paragonabili nemmeno i volumi produttivi delle due bevande: tremila bottiglie del Prošek contro i 700 milioni del Prosecco.

Questo tipo di controversie non sono rare tra gli Stati: attualmente tra Francia e Russia ne è in corso una simile sulla denominazione champagne. In passato la stessa cosa era successa con il vino friulano Tocai, troppo simile al Tokaj ungherese e per questo costretto dall’Ue al cambio di nome, nonostante le caratteristiche diverse tra i due prodotti.