È vero che il governo ha alzato le tasse al ceto medio?

Il PD dice di sì, Giorgia Meloni risponde di no, e accusa chi la critica di non sapere come funziona l’IRPEF. Abbiamo fatto un po’ di chiarezza
ANSA
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Il 2 dicembre, ospite a Quarta Repubblica su Rete 4, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha negato che il suo governo abbia aumentato le tasse al ceto medio. «Noi abbiamo fatto una riforma fiscale il cui obiettivo è abbassare le tasse a tutti, partendo da chi ha più bisogno e poi arrivando anche al ceto medio», ha detto Meloni. «Sento raccontare delle castronerie totali: adesso gira questa bufala della tassazione al 56 per cento», ha aggiunto la presidente del Consiglio, accusando i critici di non distinguere «l’aliquota IRPEF dall’aliquota marginale». 

Nella sua intervista, è probabile che Meloni si riferisse alle critiche recenti di alcuni partiti di opposizione. Per esempio, il 26 novembre il Partito Democratico ha scritto su Facebook: «Il governo Meloni mente: con questa manovra aumenta le tasse al ceto medio, pensando di nascondere questa bastonata con finti bonus e detrazioni». Nel post, il PD ha rilanciato un articolo del Corriere della Sera intitolato: “IRPEF, l’aliquota scende ma le tasse salgono: il ceto medio verserà fino al 56 per cento al fisco” (successivamente questo titolo è stato modificato, come vedremo più avanti). 

Da dove arriva questa percentuale del «56 per cento» citata da Meloni e dal PD? È vero che la nuova legge di Bilancio aumenterà le tasse per il ceto medio? Oppure è vero il contrario? Abbiamo cercato di fare chiarezza.

Come funziona l’IRPEF

Prima di analizzare la dichiarazione di Meloni, è utile fare un breve ripasso di come funziona l’IRPEF, per evitare confusioni. L’IRPEF è l’imposta sul reddito delle persone fisiche (chiamarla “tassa” è scorretto [1]). In pratica, è l’imposta che ogni contribuente deve pagare allo Stato, e in parte a regioni ed enti locali, principalmente sui redditi da lavoro dipendente e da pensione. Ci sono redditi infatti che non sono soggetti all’IRPEF, ma su cui si paga un’unica imposta sostitutiva, come avviene nel caso della cedolare secca sui canoni di locazione oppure nel caso del regime forfettario per i lavoratori autonomi (noto ormai con il nome di flat tax).

Per calcolare quanta IRPEF un contribuente deve pagare, si procede con i seguenti passaggi. Innanzitutto si calcola la cosiddetta “base imponibile”, sottraendo dal reddito complessivo del contribuente le deduzioni, che sono particolari agevolazioni fiscali. Si suddivide poi la base imponibile in scaglioni di reddito, previsti dalla legge, e si applicano le cosiddette “aliquote marginali legali”: queste aliquote sono più basse per i redditi più bassi e più alte per i redditi più alti. 

Attualmente ci sono tre aliquote IRPEF: per i redditi fino a 28 mila euro l’aliquota legale è del 23 per cento; per i redditi tra 28 mila e 50 mila euro è del 35 per cento; e per i redditi superiori a 50 mila euro è del 43 per cento. Attenzione: se un contribuente ha un reddito di 40 mila euro, non significa che calcola il 35 per cento di IRPEF su tutto il reddito. Le aliquote legali si applicano solo alla parte del reddito che rientra in ciascun scaglione. Proprio per questo motivo, queste aliquote sono chiamate “aliquote marginali legali”: sono aliquote che si applicano solo alla parte di reddito che supera una determinata soglia, ossia al margine superiore di ciascuno scaglione. Riprendendo l’esempio di un reddito di 40 mila euro: si paga il 23 per cento di IRPEF sulla parte di reddito fino a 28 mila euro, e il 35 per cento sui restanti 12 mila euro.

Applicando il meccanismo appena descritto si ottiene la cosiddetta “imposta lorda”, da cui si sottraggono le detrazioni, ossia altre agevolazioni fiscali di cui può beneficiare un contribuente. Si ottiene così l’imposta netta: questa è l’ammontare dell’IRPEF dovuta allo Stato, a cui vanno aggiunti gli importi delle addizionali regionali e comunali. Esistono tre tipi di detrazioni (le detrazioni per carichi di lavoro, di famiglia e per oneri), che variano da contribuente a contribuente in base al reddito, alla tipologia di lavoro, alla composizione familiare e alle spese sostenute (per esempio quelle sanitarie), e possono ridurre sensibilmente l’importo dell’imposta lorda.

Per capire meglio quanto si paga in totale, si usa anche il concetto di “aliquota media”, che si calcola semplicemente come il rapporto tra l’imposta netta dovuta e il reddito complessivo. Essa rappresenta la percentuale media di imposta pagata sul reddito complessivo.

La riforma dell’IRPEF

Il disegno di legge di Bilancio per il 2025, approvato dal governo e ora all’esame del Parlamento, rende permanenti dal 2025 le tre aliquote IRPEF che quest’anno sono in vigore solo temporaneamente. Nel 2022 e 2023 le aliquote legali erano quattro (prima ancora erano cinque e sono state ridotte a quattro dal governo Draghi): da quest’anno le due aliquote del 23 per cento per i redditi fino a 15 mila euro e del 25 per cento per i redditi tra 15 mila e 28 mila euro sono state accorpate. In più, con la nuova legge di Bilancio nel 2025 la detrazione da lavoro dipendente viene aumentata in modo permanente da 1.880 a 1.955 euro per i redditi fino a 15 mila euro, come già si applica quest’anno. Inoltre, il disegno di legge di bilancio introduce due misure che sostituiscono gli sgravi contributivi concessi nel 2024 (ci torneremo tra poco) e modifica anche l’ammontare concesso di detrazioni per oneri per i contribuenti più ricchi.

Chi beneficia maggiormente della stabilizzazione delle tre aliquote IRPEF? All’inizio di novembre, in un’audizione in Parlamento, l’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) ha stimato che questa misura porterà un beneficio massimo di 100 euro per i lavoratori dipendenti, senza familiari a carico, con un reddito fino a 20 mila euro, e di circa 260 euro per quelli con un reddito oltre i 28 mila euro (Grafico 1).
Grafico 1. Impatto della riforma dell’IRPEF contenuta nel disegno di legge di Bilancio per il 2025 – Fonte: UPB
Grafico 1. Impatto della riforma dell’IRPEF contenuta nel disegno di legge di Bilancio per il 2025 – Fonte: UPB
Chiariamo che questi benefici non sono calcolati rispetto al sistema ora in vigore, ma rispetto al sistema precedente a quattro aliquote, che sarebbe tornato in vigore il prossimo anno se non fosse intervenuta la nuova legge di Bilancio. 

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La riduzione del cuneo fiscale

Come detto, il disegno di legge di Bilancio per il 2025 mira poi a rendere permanenti i benefici del taglio del cuneo fiscale, introdotti dal governo Meloni nel 2023, attraverso due nuovi strumenti fiscali che sostituiscono appunto gli sgravi contributivi. Il cuneo fiscale è la differenza tra il costo del lavoro e il valore netto della busta paga di un lavoratore, ed è composto da imposte e contributi previdenziali, a carico sia del lavoratore sia del datore di lavoro.

Da luglio 2023 il governo ha ridotto temporaneamente di 7 punti percentuali i contributi a carico dei lavoratori con una retribuzione lorda sotto i 25 mila euro e di 6 punti con retribuzione tra 25 mila e 35 mila euro. Questo meccanismo aveva un problema noto: superando anche di poco le due soglie, si perdeva parte del beneficio del taglio del cuneo fiscale, arrivando a perderlo del tutto superata la soglia di 35 mila euro.

Il disegno di legge di Bilancio per il 2025 propone due misure, che prendono il posto del taglio dei contributi in vigore quest’anno. La prima misura è un bonus per i contribuenti con  reddito da lavoro dipendente fino a 20 mila euro, che si affianca al cosiddetto “trattamento integrativo” (ossia l’ex bonus Renzi). Il valore di questo bonus si ottiene moltiplicando una percentuale per il reddito da lavoro dipendente. La seconda misura è un aumento di mille euro della detrazione da lavoro dipendente per chi ha un reddito complessivo IRPEF tra 20 mila e 32 mila euro. Per i redditi superiori a 32 mila euro, l’aumento della detrazione si riduce progressivamente fino ad azzerarsi arrivati a 40 mila euro. 

Dunque, per ridurre il cuneo fiscale, il nuovo sistema calcola le agevolazioni in base al reddito complessivo IRPEF del contribuente o al reddito da lavoro, mentre il precedente si basava sulla retribuzione lorda annua. Secondo l’UPB, per i redditi fino a 32 mila euro, il nuovo bonus e l’aumento della detrazione da lavoro dipendente generano benefici nel 2025 simili a quelli del 2024 (Grafico 2).
Grafico 2. Confronto tra i benefici derivanti dal bonus e dall’incremento della detrazione da lavoro dipendente introdotti dal disegno di legge di Bilancio per il 2025 e dalla decontribuzione applicata nel 2024 – Fonte: UPB
Grafico 2. Confronto tra i benefici derivanti dal bonus e dall’incremento della detrazione da lavoro dipendente introdotti dal disegno di legge di Bilancio per il 2025 e dalla decontribuzione applicata nel 2024 – Fonte: UPB
Non tutti però saranno avvantaggiati allo stesso modo dal nuovo sistema. Secondo l’UPB, 12,3 milioni di contribuenti non avranno variazioni significative rispetto a oggi. Per circa 5,7 milioni di beneficiari, invece, il sistema delle nuove agevolazioni sarà più vantaggioso rispetto al precedente. Circa 800 mila contribuenti avranno un peggioramento, mentre circa 300 mila contribuenti che hanno un reddito complessivo alto, ma un reddito basso da lavoro dipendente, perderanno completamente i benefici del taglio del cuneo fiscale.

Da dove arriva la percentuale del 56 per cento

A prima vista, sembra che Meloni abbia ragione: con la nuova legge di Bilancio il governo ha confermato la riduzione da quattro a tre del numero di aliquote IRPEF e ha ampliato la platea dei beneficiari rispetto a quanto sarebbe avvenuto continuando ad applicare il taglio del cuneo fiscale, risolvendo, almeno in parte, i problemi della misura precedente. Dei nuovi interventi beneficia anche il cosiddetto “ceto medio”, un termine che ha comunque un significato vago. Generalmente, quando si parla di IRPEF e ceto medio, politici e giornalisti fanno riferimento infatti a quella fascia di contribuenti che non rientrano né tra i redditi bassi (esenti dal pagamento dell’IRPEF o con un’aliquota media molto bassa) né tra i redditi alti (che scontano l’aliquota legale massima). In ogni caso, considerando congiuntamente l’effetto del venir meno dello sgravio contributivo e quello derivante dai due meccanismi prima descritti, un vantaggio di un certo rilievo si osserva tra i 35 e 45 mila euro di retribuzione lorda annua.

Perché allora, secondo Meloni, c’è chi sostiene che il governo ha aumentato un’aliquota dell’IRPEF al «56 per cento»? Questa percentuale compare nel titolo di un articolo pubblicato il 26 novembre dal Corriere della Sera: “IRPEF, l’aliquota scende ma le tasse salgono: il ceto medio verserà fino al 56 per cento al fisco” (poi cambiato poche ore dopo in: “IRPEF, l’aliquota scende ma le tasse salgono: lo strano caso dell’imposta marginale al 56 per cento per il ceto medio”). Il giorno prima, la Repubblica aveva pubblicato un articolo intitolato: “Beffa Irpef per il ceto medio: con la riforma l’aliquota sale al 56 per cento”. E ancora, il 22 novembre Il Sole 24 Ore aveva pubblicato un’analisi, scritta dall’ex professore di Scienza delle finanze Ruggero Paladini e dall’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco, in cui si spiega che gli «scaglioni effettivi» dell’IRPEF saliranno a sei con la nuova legge di Bilancio e che tra 32 e 40 mila euro di reddito complessivo IRPEF l’aliquota marginale effettiva sarà pari al 56 per cento.

Per comprendere meglio il contenuto di questi articoli, è necessario introdurre il concetto di “aliquota marginale effettiva”. Abbiamo visto che le aliquote legali IRPEF previste dalla legge restano tre. Ma se si considerano le detrazioni, come quella da lavoratore dipendente, il numero di aliquote effettivamente applicate cambia. Nella sua audizione di inizio novembre, riportata d’attualità negli scorsi giorni da vari quotidiani, l’UPB ha calcolato che il nuovo sistema introdotto dalla legge di Bilancio per il 2025 aumenta da quattro a sette il numero di aliquote marginali effettive per un lavoratore dipendente senza familiari a carico. Questo avviene sia per effetto del nuovo bonus per i redditi fino a 20 mila euro sia per la nuova detrazione per i redditi da 20 mila fino a 40 mila euro. 

In particolare, secondo i calcoli dell’UPB, e di Paladini e Visco, un lavoratore dipendente senza familiari a carico pagherà un’aliquota marginale effettiva del 56 per cento per la fascia di reddito compresa tra i 32 mila e i 40 mila euro (Grafico 3). L’aumento delle aliquote marginali effettive è stato rilevato anche dalla Banca d’Italia nella sua audizione sulla legge di Bilancio, usando come parametro di riferimento la retribuzione lorda del lavoratore, e non il reddito IRPEF.
Grafico 3. Aliquote marginali effettive per un lavoratore dipendente senza familiari a carico, prima e dopo la nuova legge di Bilancio – Fonte: UPB
Grafico 3. Aliquote marginali effettive per un lavoratore dipendente senza familiari a carico, prima e dopo la nuova legge di Bilancio – Fonte: UPB
«L’aliquota marginale effettiva indica quanto si paga in più di imposta per un dato aumento di reddito», ha spiegato a Pagella Politica Simone Pellegrino, professore di Scienza delle finanze all’Università di Torino. «Immaginiamo un contribuente con un reddito complessivo IRPEF pari a 32 mila euro, e immaginiamo che il suo reddito aumenti a 33 mila euro. La variazione del reddito è chiaramente pari a mille euro, mentre la variazione dell’imposta è pari a 560 euro, e quindi l’aliquota marginale effettiva è pari al 56 per cento, un’aliquota più alta rispetto al 2024. Questo avviene sempre considerando variazioni di reddito nella fascia 32-40 mila euro».

L’aumento dell’aliquota marginale effettiva tra i 32 mila e i 40 mila euro non è una sorpresa. «È normale avere delle aliquote marginali effettive più alte delle aliquote marginali legali quando ci sono detrazioni che decrescono con il reddito», ha sottolineato Pellegrino. «Per esempio una cosa simile era già avvenuta nel 2014, con l’introduzione del “bonus Renzi”. Questo bonus valeva 80 euro al mese per i lavoratori dipendenti con un reddito fino a 24 mila euro, poi decresceva linearmente fino ad azzerarsi per i redditi pari a 26 mila euro. Il meccanismo comportava un’aliquota marginale effettiva pari all’80 per cento per i redditi tra 24 mila e 26 mila euro. In altre parole, più lo strumento utilizzato decresce velocemente rispetto al reddito, più aumenta l’aliquota marginale effettiva, a parità di aliquota legale».

Dunque, è vero che «un’aliquota del 56 per cento può essere un disincentivo perché elevata. Ma è anche vero che la situazione migliora rispetto al 2024, quando, in fasce di reddito differenti, l’aliquota effettiva può superare il 100 per cento per il venir meno degli sgravi contributivi passando da un reddito appena sotto i 35 mila euro di retribuzione lorda annua a valori appena superiori», ha aggiunto Pellegrino. «Un conto è l’aliquota media, un conto quella marginale effettiva. L’aliquota effettiva aumenta tra 32 e 40 mila euro di reddito IRPEF, mentre si riduce per redditi inferiori. Il cambio dello sgravio contributivo con i due nuovi strumenti replica abbastanza bene il cuneo fiscale per la maggior parte dei contribuenti, mentre tra 35 e 45 mila euro di retribuzione lorda annua esso si riduce».

Come detto, il nuovo sistema ha cercato di risolvere il problema del precedente taglio del cuneo fiscale, che penalizzava enormemente i lavoratori con uno stipendio che aumentava, anche di poco, da un valore sotto i 35 mila euro a un valore sopra questa soglia. «Il governo avrebbe potuto rendere meno ripida la discesa del valore della detrazione per i redditi tra 32 mila e 40 mila euro. Questo però avrebbe comportato un aumento della platea dei beneficiari e di conseguenza dei costi della misura, e avrebbe comunque comportato un aumento, anche se di minore entità, dell’aliquota effettiva anche per redditi sopra i 40 mila euro», ha sottolineato Pellegrino.

Tiriamo le somme

Ricapitolando: Meloni ha ragione quando dice che non è vero che il governo ha innalzato l’aliquota legale dell’IRPEF al 56 per cento. Le aliquote legali dell’IRPEF restano tre come quest’anno, e questa riduzione sarà resa permanente dal 2025. 

Allo stesso tempo, però, la presidente del Consiglio sottovaluta le conseguenze del nuovo sistema introdotto dalla legge di Bilancio per il 2025. Quest’ultima, infatti, farà aumentare al 56 per cento l’aliquota marginale effettiva per i redditi dei lavoratori dipendenti tra 32 mila e 40 mila euro di reddito complessivo IRPEF. In pratica, ogni euro guadagnato in più in questa fascia di reddito sarà tassato di più con il nuovo sistema contenuto nella legge di Bilancio per il 2025.

Nel complesso, il sistema proposto dalla legge di Bilancio ha benefici e svantaggi rispetto al progetto di riforma fiscale portato avanti dal governo Meloni. Da un lato, il nuovo sistema replica abbastanza fedelmente il cuneo fiscale attualmente in vigore, concedendo risparmi prevalentemente nella fascia tra i 35 e i 45 mila euro di retribuzione lorda annua. Dall’altro lato, lo stesso UPB ha evidenziato che il nuovo sistema, con l’aumento del numero delle aliquote marginali effettive, «sembra discostarsi dai principi» dalla riforma del fisco promessa dal governo. Quest’ultima si è posta l’obiettivo di introdurre un’unica aliquota IRPEF (la vera e propria flat tax), e di razionalizzare e semplificare il sistema fiscale, cosa che non avviene con la nuova legge di Bilancio. 

«Nonostante l’attuale legge delega per la riforma fiscale, approvata nel 2024, abbia tra i suoi obiettivi quello della semplificazione del sistema tributario, non si è ancora iniziata una vera e propria discussione volta a riformare in modo organico gli elementi essenziali delle singole imposte. L’idea prevalente è ancora quella di aggiustamenti introdotti anno dopo anno, senza una visione d’insieme», ha concluso Pellegrino. «Non è poi possibile porre in essere strutturali riforme fiscali se vi è il vincolo politico che di anno in anno le riforme non possano comportare contribuenti perdenti. La segmentazione tra detrazioni per lavoro e trasferimenti monetari è poco razionale, e oggi continua a determinare un trattamento fiscale eccessivamente differenziato tra dipendenti da una parte e pensionati e lavoratori autonomi (che non applicano la flat tax), dall’altra. Essa è politicamente accettata solamente perché, rispetto all’anno precedente, la nuova struttura replica la vecchia abbastanza fedelmente».
 

***


[1] Nel linguaggio colloquiale e giornalistico, i termini “imposta” e “tassa” sono usati come sinonimi, ma a essere precisi vogliono dire due cose diverse. L’imposta è un tributo che si paga senza che venga corrisposto un specifico servizio, al contrario la tassa è un tributo al cui pagamento corrisponde l’erogazione di un servizio (si pensi per esempio alla TARI, la tassa sulla raccolta dei rifiuti). Più in generale le imposte e le tasse rientrano nella categoria dei “tributi”, insieme ai contributi previdenziali, che i lavoratori e i datori di lavoro versano per finanziare le pensioni.

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